1958 - 1961 Progetto per l'ampliamento del Liceo Berchet
(Archivio Civico di Milano) (Riproduzione di Cesare Badini)

Da questa pagina chi ci visita potrà cogliere l'atmosfera che regnava nel Liceo dall'immediato dopoguerra fino al fatidico 1968, anno in cui, come tutti sanno, il mondo della scuola fu animato per la prima volta dalle contestazioni giovanili. Poiché, come si ricava dall'elenco dei Presidi, questo secondo ventennio (1946-1967) vide a capo del Berchet il preside Yoseph Colombo, inizieremo proprio presentando la sua figura di grande maestro, e poi continueremo con alcune testimonianze di ex-allievi, e/o insegnanti al Berchet, che bene possono ricordare e rievocare quegli anni.

Il Preside Yoseph Colombo La testimonianza della prof. Giovanna Segalini
Il Rencontre Internationale de la Jeunesse Quelli del Berchet, articolo dallo "Informatore Moderno" del 05/04/1959
IDEE PER UNA DISCUSSIONE: a cura di un gruppo di studenti del Liceo Berchet di Milano

Il Preside YOSEPH COLOMBO


Il preside Colombo nella presidenza del Berchet, in una foto a cavallo
fra gli anni cinquanta e sessanta.

Yoseph Colombo nacque a Livorno il 21 novembre 1897, dal rabbino Samuele Colombo. Si formò nell'ambito della comunità ebraica livornese, ed arrivò a diciotto anni al primo titolo rabbinico nel Collegio rabbinico di Livorno, e risentì fortemente dell'insegnamento dell'ultimo cabalista ebraico italiano, Elia Benamozegh, che era con suo padre stato a capo della Comunità di Livorno, e del cui pensiero, che   illustrerà in seguito con numerosi ed importanti studi, fino ad arrivare alla pubblicazione delle parti della "Teologia" lasciate inedite dal Benamozegh, egli fu l'unico autentico conoscitore in Italia. Si laureò a Pisa nel 1920 con Giovanni Gentile. Insegnante e poi preside al Liceo "Roiti" di Ferrara dal 1922 al 1938, ben presto concentrò la sua attività sul programma della realizzazione della scuola ebraica italiana, e con una relazione al IV Convegno giovanile ebraico di Livorno nel 1924 sul "Problema della scuola ebraica in Italia", egli espresse già con grande chiarezza il principio che sempre lo animò nella sua opera: solo fondando e potenziando la scuola ebraica, la comunità italiana può scongiurare il pericolo di una completa assimilazione, cioè a dire della sua scomparsa. Ma per fondare una buona scuola occorrono buoni maestri. Vorremmo citare qui le sue parole al riguardo, certi che lo ispirarono anche durante la sua guida del Liceo Berchet:

"E' il maestro che fa la scuola. E' il maestro che attua tutte le riforme di questo mondo, che le manda a monte se è inetto, che le realizza se è capace. Non che non si trovino individui, tanto maestri che maestre, ebrei ed ebree, che siano disposti ad accettare incarichi di insegnamento nelle nostre scuole; ma essi non possiedono quella figura che vorremmo; per insegnare in una scuola come quella che abbiamo or ora delineato, così diversa dalle altre scuole del paese, ci vogliono, è evidente, maestri diversi che sappiano quello che sanno e devono sapere gli altri maestri, più qualche altra cosa, e ciò in perfetta armonia. Per insegnare nelle scuole ebraiche ci vogliono in primo luogo buoni ebrei..."

La sua presenza a Ferrara fu resa impossibile dalle leggi razziali del 1938, che lo costrinsero ad abbandonare la presidenza del Liceo "Roiti". Venuto a Milano, egli di buon grado accolse la proposta (fattagli all'uscita dal tempio la sera di Kippur del 1938 da Mario Falco) di fondare la scuola ebraica milanese di via Eupili, che fiorì sotto la sua guida ed offrì a molti giovani la forza e la consapevolezza per affrontare le burrasche che di lì a poco si sarebbero scatenate sulle loro teste. Naturalmente il periodo che va dal '38 al '43 fu un periodo fondamentale per la scuola ebraica milanese, che annoverò fra i primi insegnanti personaggi di rilievo nella vita culturale cittadina. Terminata la bufera della guerra di liberazione, Yoseph Colombo fu nominato al Liceo Berchet quale successore di Untersteiner, e, come abbiamo già accennato nel cappello introduttivo a questa stessa pagina, ne restò alla guida fino al 1967. Egli non volle tuttavia abbandonare i suoi amati studi ebraici, ed insegnò lingua e letteratura ebraiche alla Bocconi durante tutto il periodo della presidenza al Berchet.
Le testimonianze che seguono daranno un quadro chiaro del carisma che il preside Colombo aveva, e dell'atmosfera che regnava al Berchet sotto la sua presidenza. Prima di presentarvele, una riflessione: la volontà di congiungere un atteggiamento di ortodossia alle tradizioni ebraiche con la più totale apertura al progresso delle scienze umane e alle conquiste della ragione sono certamente alla base del fascino che la sua persona sapeva e poteva emanare. E' così che Colombo giungeva ad affermare la natura perfettamente laica dell'ebraismo ed il conseguente necessario carattere laico di una scuola ebraica, e a maggior ragione di una scuola statale italiana. Una posizione che sicuramente scaturiva da una base storico culturale di perfetta integrazione col patrimonio italiano ed europeo, vissuta in perfetta armonia con le origini ebraiche.

Il Rencontre Internationale de la Jeunesse

Ci pare significativo del clima, che verrà di seguito segnalato dalla prof. Giovanna Segalini, durante questi magici anni di volontò di ricostruzione, illustrare con alcune rare fotografie questo evento che vide, nel lontano 1950, il liceo Berchet protagonista di un evento prestigioso. In occasione infatti del "Ritrovo internazionale della gioventù", organizzato dall'UNESCO per mostrare sensibilità alla tematica della nuova Europa nascente, il Berchet si classificò primo nel concorso nazionale tra i Licei delle grandi città, e fu dunque invitato a Jouy-en-Josas, cittadina francese, per un soggiorno di dieci giorni, dal 1° al 10 agosto 1950. Ringraziamo della testimonianza che rende possibile questo ricordo la signora Stefania Salomoni, da noi contattata, e che ci ha permesso di scansionare le seguenti tre fotografie.


Il preside Yoseph Colombo è il terzo da sinistra, in piedi, a braccia conserte. Alla sua destra la prof.ssa Vitellia Beltraminelli.


L'annotazione, di mano della sig. Salomoni, e risalente all'epoca,
con cui ella ricorda la sua partecipazione  all'incontro.


Comunicazione del preside Yoseph Colombo alla famiglia di Emma Guglielmelli DeMattia

La testimonianza della prof. Giovanna Segalini

Allora, Giovanna, tu che ora sei insegnante di italiano e latino nel corso E al Berchet, raccontaci la tua esperienza di studentessa, e il tuo incontro col preside Colombo...
Ricordo benissimo quando ero in quarta ginnasio. Era nel 1963, perché io ho fatto la maturità nel 1968, proprio l'anno dopo che Colombo era andato in pensione. Sarà stata la seconda o la terza settimana di scuola, ed io naturalmente il preside non l'avevo mai visto. Ero uscita dalla classe, per andare in bagno, ed ho incontrato quest'uomo piccolino, un po' calvo, con un'aria molto dimessa, che mi ha detto: "Perché lei è fuori, Segalini?". Questo è stato il mio primo impatto col preside Colombo, e dal fatto che sapesse già il mio cognome ho capito di trovarmi effettivamente di fronte ad una persona straordinaria. Come potesse conoscerlo, mi è ancora ignoto. D'altronde conosceva il mio come quello di tutti.

Il Berchet aveva già allora uno svariato numero di classi, vero?
Sì, certo, eravamo allora già alla sez. H. Questo fatto del cognome mi colpì, mi colpì decisamente. A poco a poco capii che il modo che aveva il preside Colombo per farsi conoscere, era quello di fare le supplenze. Noi il preside lo abbiamo conosciuto così. Se mancava un professore, che fosse al ginnasio o al liceo, arrivava il preside Colombo. Così parlava con gli studenti, comunicava: al ginnasio faceva il Manzoni, piuttosto che un po' di etimologia; al liceo, ovviamente, filosofia, ed in modo splendido... Soprattutto sapeva comunicare questa sensazione di autorevolezza non autoritaria. Io ho capito che cosa  vuol dire essere autorevoli e non autoritari proprio conoscendo Colombo. Era un uomo di eccezionale presenza, sempre presente a scuola, disponibilissimo; ed aveva un suo modo di raccontarsi agli studenti, che era particolarissimo. Faccio un altro esempio: quando consegnava le pagelle, e le consegnava tutte ovviamente di persona, aveva la capacità di fare commenti, di dare consigli, ma sempre col tono giusto; serio, ma non serioso, ed incoraggiante. La sensazione che noi studenti avevamo, era di essere estremamente protetti, e difesi da lui.

Quindi non c'era un'atmosfera eccessivamente selettiva, d'élite, nonostante che quelli fossero anni in cui il liceo classico aveva ancora quelle caratteristiche?
Sì, ma il clima del Berchet di Colombo era forse proprio questo: l'élite, ma non un clima autoritario, e sarebbe un grave errore confondere le due cose. Per esempio nessuno "mandava" dal preside a scopo punitivo, anzi andare dal preside era una gioia. Non esisteva alcuna contrapposizione fra le componenti della scuola... E con ciò, o forse proprio perciò, tutto andava benissimo. La  battuta che fece un leader del '68, in un'occasione che ricordo, è molto indicativa. Il commento fu: "Meno male che Colombo è andato in pensione: chi gli avrebbe mai dato questo dispiacere?". Questo vuol dire qualcosa. E precisamente, credo, un legame tra gli studenti e il preside, che secondo me ora non solo non esiste più, ma non so se nemmeno sarebbe esistito allora, senza un preside come Colombo.

Senti, ma possiamo proprio affermare, siamo proprio sicuri, che durante la sua lunga presidenza non esisteva dissenso, o malcontento?
Ma tu potresti anche consultare tanti altri berchettiani. Troveresti conferma alle mie parole. Onestamente io non mi ricordo di dissensi con il preside. Mai. Ricordo caso mai interventi sempre molto equilibrati, anche in momenti delicati, e sempre accettati dagli studenti. Il motivo è anche che noi il preside lo conoscevamo. Queste sue lezioni di tolleranza erano quel qualcosa che dava il tono alla scuola.

Un ex allievo di Colombo, Dino Voghera, in un bell'articolo sulla rivista "Israel" del 1° semestre 1985, ricorda una discussione in cui il suo professore di filosofia sostenne una visione laica sia dell'ebraismo come religione sia di una eventuale scuola ebraica. Cosa ne pensi?
Be', che Colombo fosse ebreo ortodosso, e rabbino, noi l'abbiamo saputo dopo. Certo, anche durante gli anni di liceo sapevamo che era ebreo, ma questa sua caratteristica non aveva un peso particolare, se non appunto essere, almeno nella nostra sensazione di studenti, causa di una maggior sensibilità.

Quindi il suo ebraismo era, se così si può dire, di totale "trasparenza".
Sì, assolutamente. Noi non ci accorgevamo di nessun atto o gesto che lasciassero trasparire visioni della vita particolari... Che fosse studioso di cose ebraiche, io, da studentessa, non lo sospettavo nemmeno... Emergeva la figura di un uomo di grandissima sensibilità, di grandissimo equilibrio, e di grandissima sapienza pedagogica. Quando lui andò in pensione nel '67, io, assieme a molti altri studenti del Berchet, per la maturità andai da lui, a casa sua, a preparare l'esame di filosofia. Ci andavamo in dieci, dodici alla volta; anche là, ci trovavamo di fronte ad un uomo colto, presente, attento, ricco.

Eppure, la visione ebraica dell'esistenza, era presente ogni giorno nella vita di Colombo.
Sì, ed anzi, ti dirò che alla lunga anche la mia visione di ebraismo venne a coincidere con quella che Colombo sapeva emanare. Però ritornando alla mia esperienza di studentessa, ti dirò che pochi confronti sono possibili con la sua figura di preside. Vedi, che un professore ricordi il preside, è possibile. Ma che uno studente, o più studenti ricordino il preside con tanto affetto, è di gran lunga più eccezionale. Il fatto è che lui stava in ogni modo con gli studenti, sapeva sfruttare ogni occasione per comunicare con noi... Con queste sue assidue presenze, sapeva trasmetterci che cultura vuol dire soprattutto, come ti ripeto, tolleranza, comprensione, tutta una serie di valori. Proprio quei valori che determinavano il Berchet di allora, e per esempio lo rendevano differente da altri licei, che potevano sembrare le classiche "scuole bene", mentre noi avevamo questo timbro diverso, e credo questa marcia in più che ci era proprio data dal preside: apertura, ricchezza, stimolo a fare, ad intraprendere...

Grazie per la tua testimonianza: ha contribuito, credo, a darci il senso di un clima e di un'epoca del Berchet...

 

QUELLI DEL BERCHET
di Erminio Valenza

In una zona tranquilla della vecchia Milano, via della Commenda, nacque nel 1911, come sezione staccata del "Beccaria", il liceo Berchet.

L'aria dei tempi andati il "Berchet" l'ha tuttora: niente di moderno nel suo complesso di un vago e moderato "liberty". Nell'atrio spazioso, un busto ricorda Poldo Gasparotto, ex alunno morto a Fossoli ed una lapide il professor Pio Foà, che qui insegnò lettere, ucciso con due figli.

Penso immediatamente al passo della "Lettera semiseria" del Berchet: "...voi, se siete caldi di vero amore per la vostra bella Italia...". Essi lo sono stati. Mi prende un senso di malinconia, quasi di rimorso. Il custode sopraggiunge dicendomi che non ho scelto una buona giornata, ci sono molti genitori che devono parlare sia col preside, sia coi professori. Salgo comunque al piano superiore: mi accoglie il sommesso parlottare delle persone che attendono nel largo corridoio. E' uno scambio di considerazioni sui tanti problemi che i figli impongono. Non sento quanto dicono, ma lo capisco dalle espressioni dei visi e dal muoversi delle mani. Gli occhi si rivolgono spesso al cielo; concludo che non è facile né comodo essere genitori.

Passa un gruppo di ragazze che va verso il pianterreno, una di esse si stacca e bacia una signora in attesa, evidentemente la madre, e raggiunge le compagne. Il tempo passa, a poco a poco il gruppo diminuisce; arriva il mio turno. Il preside, professor Yoseph Colombo mi riceve. Si scusa per la lunga attesa e si pone a mia disposizione. Di mezza età, statura normale, ha un viso paterno con vivi occhi dietro le lenti. Tanto è modesto circa la sua persona quanto è largo di lodi per coloro che lo hanno preceduto. "Molti illustri nomi hanno insegnato qui - dice - dal filosofo Emilio Morselli, al letterato Eugenio Donadoni, da Ugo Guido Mondolfo al grecista e storico della filosofia antica Mario Untersteiner".

Rammento al preside che se essi sono stati illustri, egli non lo è meno come studioso di lingua ebraica, della quale è lettore all'università Bocconi. Non ama i complimenti anche se meritati, non vuole si parli di lui e della sua attività. Nel 1951, quando cadde il centenario della morte di Giovanni Berchet egli curò un bel volume di studi critici sul poeta. Con un certo orgoglio mi dice invece che, dovendo il professore tedesco Edoardo Fey fare uno studio sulle scuole europee, il ministero italiano della pubblica istruzione, lo indirizzò al "Berchet" considerandola scuola modello, aggiungendo che anche la UNESCO le conferì il primo premio tra i licei d'Italia nel 1950. Capisco che la sua scuola è tutto per lui, e ne parla volentieri, a lungo, facendomi notare, tra l'altro, il grande sviluppo edilizio da essa avuto. E' vero, anche se dalla facciata e dall'atrio tutto sembra rimasto al 1911: posteriormente sono state aggiunte numerose ali per far fronte ai crescenti bisogni; quasi mille, per l'esattezza 935, sono gli allievi del "Berchet" per i quali sono necessari una cinquantina di professori. Ringrazio il preside della sua cortesia ed esco per vedere qualche professore. Al solito non è facile.

L'intervallo è cominciato, il vocìo è sensibile, qualche ragazzo mangia un panino, altri, come tutti i giovani del mondo, punzecchiano le compagne che, più riservate, in piccoli gruppi, passano nel corridoio. Ad un tratto si apre la porta dell'ascensore e un allievo con una gamba ingessata esce dalla cabina. Mi fa piacere notare con quale premura i compagni lo aiutino. Sarà campione di sci o di rugby della scuola?

Dove posso trovare il professore Ghisalberti? E' al pianterreno; due ragazze, dall'aria intimidita, stanno consegnandogli dei fogli.

"E' lei che mi cerca?". Qualcuno evidentemente lo ha informato. Un sorriso gli illumina il volto d'un rosa acceso, sul quale fanno bel contrasto i capelli argentei. Indossa giacca nera con pantaloni rigati grigio scurissimo, l'abbigliamento classico dei professori nei primi decenni del secolo. Ha trentaquattro anni di insegnamento, molti ricordi, ma soprattutto un grande amore: Manzoni. Pochi conoscono come lui i manoscritti manzoniani, sua è la bella edizione delle tre stesure de "I Promessi Sposi" apparsa qualche anno fa: un lungo lavoro di comparazione e di annotazioni. Gli esprimo la mia ammirazione, ma, modesto come tutti i professori, non vuole. "Per me è stato un piacere, ho passato ore bellissime, vede, non ho fatto nessun sacrificio". Al momento non ricorda nomi di alunni diventati qualcuno, ma subito rammenta l'avvocato Antonio Greppi: "Sì, il nostro ex sindaco ha studiato qui, io non c'ero ancora, ma lo so e, se non sbaglio, anche il presidente dell'Azione Cattolica Gedda". No, non sbaglia, la cosa viene confermata dal custode Battista Ferrè. Anche Adrio Casati è stato allievo del "Berchet" e l'onorevole Meda. Tutti uomini politici: possibile, nessuno noto nelle arti o nello sport? Penso che il professor Dante Ferrari, che sto cercando senza riuscirvi da un po', potrà aiutarmi. Passa il preside e, vedendomi, si interessa dei risultati della mia inchiesta. "Non ha ancora parlato al professor Ferrari? – dice – se non ho visto male è nella sala degli insegnanti". Mi presento, ma capisco che, nonostante l’espressione cortese, non ama parlare a lungo. Per lui questo è l’ultimo anno di insegnamento, poi andrà in pensione. Non è facile pensare una persona così nelle vesti di un pensionato; rammenta molto Erminio Spalla, anche se più basso di statura. I capelli sono folti, l’insieme vigoroso.

"Troppi, troppi volti mi si parano davanti: quando penso ai miei ex allievi, formano qualcosa di reale e di indefinito nello stesso tempo. No, non saprei dirle alcun nome". Un’espressione seria cala sul suo volto, probabilmente gli è triste pensare che dovrà lasciare queste aule ove ha speso tutta una vita. Mi accomiato, sperando di essere più fortunato cogli allievi.

Come ogni liceo che si rispetti, anche il "Berchet" ha il suo giornale. Deve essere molto interessante, dato che quando chiedo di vederlo non è possibile trovarne una copia in tutta la scuola. Finalmente la moglie del custode riesce a pescarne un esemplare in un suo cassetto; un po’ vecchio, ma serve ugualmente. Come sempre salta all’occhio la serietà dei problemi agitati ed affrontati da questi giovani.. Poesia, teatro, cinema, arti figurative e politica vi vengono discussi e trattati con competenza, senza concedere nulla al facile spirito studentesco.

Sto parlando con un gruppo di studenti che ho atteso alla fine delle lezioni. Molti nutrono interessi extra scolastici, sia sportivi, sia culturali ed a quanto mi dicono, capisco che hanno già molto viaggiato. E’ ciò che dà loro una maturità superiore all’età, un bagaglio di esperienze che una volta non era possibile acquisire. Il primo nome di ex allievo che finalmente scopro è quello di Fofi Vigorelli. C’è dell’ammirazione nel ragazzo che me lo dice; un attimo di silenzio, ma quasi subito un altro esclama: "Anche Luchino è stato al ‘Berchet’". Non ho bisogno di spiegazioni per sapere che si tratta di Luchino Visconti, il quale diventa subito l’argomento della conversazione. Grande è la considerazione per il regista milanese; gli studenti discutono le sue regie teatrali e cinematografiche, lo considerano un maestro. Un ragazzo alto, con l’immancabile "sacca" sulla spalla, mi elenca invece gli ex-allievi sportivi, dal calciatore Todeschini a Leto di Priolo, da Edoardo Mangiarotti a suo fratello Mario. La canzone ha invece avuto sui banchi del "Berchet" Carlo Alberto Rossi e Pier Emilio Bassi.

La strada antistante la scuola è affollata da ragazzi e ragazze che chiacchierando si dirigono ai tram. Si incrociano saluti e appuntamenti per il pomeriggio. L’aria è allegra di voci che a poco a poco si allontanano; qualche attimo ancora, poi tutto ritorna calmo e silenzioso in quella zona tranquilla della vecchia Milano che è via della Commenda.

Ci è parso molto significativo dei prodromi del '68 al Berchet, riportare alcuni articoli comparsi nel giornale Berchet 68, Organo Ufficiale del Circolo Studenti Berchet, apparso come numero unico in attesa di autorizzazione nel gennaio del 1968.

Da qui potrete accedere ai seguenti articoli:

Ecco l'immagine con la prima pagina:

e l'editoriale a cura della Redazione:

Editoriale

a cura della redazione

Quando la redazione è stata eletta, molti hanno espresso le loro riserve sulla bontà della scelta; riserve invero legittime dal momento che noi redattori siamo quasi tutti nuovi a questo giornale. Sarà quindi opportuno chiarire in questo articolo quali siano i nostri programmi. Innanzitutto è bene precisare che il giornale è l'organo ufficiale della nostra Associazione Studentesca e non un fatto privato della redazione: in altre parole tutti hanno diritto di consegnare i loro articoli, di muovere crutuche e di sollevare questioni. Giusto -direte- ma purtroppo la realtà contrasta un poco con quanto sopraddetto, dal momento che, su più di mille studenti, solo una decina ha ritenuto opportuno collaborare con il giornale. Dicevamo dunque che il giornale è aperto a tutti, ma per no trasformarlo in una specie di Selezione, dovremo evitare gli "articoli da terza pagina" e dare rilievo o consigliare, quando non ve ne siano, articoli riguardanti i problemi scolastici, cche sono quelli che più direttamente ci interessano. La nostra linea consiste quindi, senza limitare il campo della cultura, del teatro e dell'attualità, nell'indirizzare i berchettiani a prender coscienza dei problemi che li toccano, a dibatterli e, ciò che più conta, a risolverli; a non comportarsi insomma passivamente nei confronti della Scuola che riempe tanta parte della nostra esistenza. Non soltanto perché ogni forma di passività è deprecabile, quanto perché questo atteggiamento potrebbe divenire un'abitudine negli stadi successivi della nostra vita. Quanto ai rapporti con la segreteria cercheremo di mantenere una viva collaborazione, collaborazione che non vuol dire dipendenza, ma linea comune per il perseguimento degli obiettivi sopra accennati. Dopo questo bel discorso, per ora teorico, vorremmo accennare ad alcune realizzazioni pratiche nell'ambito del giornale: innanzitutto questo cesserà di essere un foglio a diffusione interna e avrà, nella persona del prof. G. Piazza un direttore responsabile. Il che ci permetterà di avere una maggiore libertà e di poter diffondere il giornale anche al di fuori dell'ambito del Berchet.

Per concludere vorremmo fare un accenno al fatto economico: è molto bello scrivere articoli interessanti, ma la cosa rimane astratta se non ci sono i fondi con cui pagare la tipografia, ebbene noi siamo riusciti ad ottenere, grazie alla pubblicità, un finanziamento che dovrebbe permetterci di fare uscire la nostra pubblicazione con una certa sicurezza e regolarità. Il Signor Preside ha promesso infine, sempre che il giornale risulti decente, lo stanziamneto di fondi che potrebbero esserci senz'altro utili in periodi in cui il vento della pubblicità non spirasse più tanto favorevole.


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