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1958 - 1961 Progetto per l'ampliamento del Liceo Berchet
(Archivio Civico di Milano) (Riproduzione di Cesare Badini)
Da questa pagina chi ci visita potrà cogliere l'atmosfera che regnava nel Liceo
dall'immediato dopoguerra fino al fatidico 1968, anno in cui, come tutti sanno, il mondo
della scuola fu animato per la prima volta dalle contestazioni giovanili.
Poiché, come si ricava dall'elenco dei Presidi,
questo secondo ventennio (1946-1967) vide a capo del Berchet il preside Yoseph
Colombo, inizieremo proprio presentando la sua figura di grande maestro, e poi
continueremo con alcune testimonianze di ex-allievi, e/o insegnanti al Berchet, che bene
possono ricordare e rievocare quegli anni.
Il Preside YOSEPH COLOMBO
Il preside Colombo nella presidenza del Berchet, in
una foto a cavallo
fra gli anni cinquanta e sessanta. |
Yoseph Colombo nacque a Livorno il 21 novembre 1897, dal rabbino
Samuele Colombo. Si formò nell'ambito della comunità ebraica livornese, ed
arrivò a diciotto anni al primo titolo rabbinico nel Collegio rabbinico di Livorno, e risentì
fortemente dell'insegnamento dell'ultimo cabalista ebraico italiano, Elia Benamozegh, che
era con suo padre stato a capo della Comunità di Livorno, e del cui pensiero, che
illustrerà in seguito con numerosi ed importanti studi, fino ad arrivare alla
pubblicazione delle parti della "Teologia" lasciate inedite dal Benamozegh, egli
fu l'unico autentico conoscitore in Italia. Si laureò a Pisa nel 1920 con Giovanni
Gentile. Insegnante e poi preside al Liceo "Roiti" di Ferrara dal 1922 al 1938,
ben presto concentrò la sua attività sul programma della realizzazione della scuola
ebraica italiana, e con una relazione al IV Convegno giovanile ebraico di Livorno nel 1924
sul "Problema della scuola ebraica in Italia", egli espresse già con grande
chiarezza il principio che sempre lo animò nella sua opera: solo fondando e potenziando
la scuola ebraica, la comunità italiana può scongiurare il pericolo di una completa
assimilazione, cioè a dire della sua scomparsa. Ma per fondare una buona scuola occorrono
buoni maestri. Vorremmo citare qui le sue parole al riguardo, certi che lo ispirarono
anche durante la sua guida del Liceo Berchet:
"E' il maestro che fa la scuola. E' il maestro che
attua tutte le riforme di questo mondo, che le manda a monte se è inetto, che le realizza
se è capace. Non che non si trovino individui, tanto maestri che maestre, ebrei ed ebree,
che siano disposti ad accettare incarichi di insegnamento nelle nostre scuole; ma essi non
possiedono quella figura che vorremmo; per insegnare in una scuola come quella che abbiamo
or ora delineato, così diversa dalle altre scuole del paese, ci vogliono, è evidente,
maestri diversi che sappiano quello che sanno e devono sapere gli altri maestri, più
qualche altra cosa, e ciò in perfetta armonia. Per insegnare nelle scuole ebraiche ci
vogliono in primo luogo buoni ebrei..."
La sua presenza a Ferrara fu resa impossibile dalle leggi razziali
del 1938, che lo costrinsero ad abbandonare la presidenza del Liceo "Roiti".
Venuto a Milano, egli di buon grado accolse la proposta (fattagli all'uscita dal tempio la
sera di Kippur del 1938 da Mario Falco) di fondare la scuola ebraica milanese di via
Eupili, che fiorì sotto la sua guida ed offrì a molti giovani la forza e la
consapevolezza per affrontare le burrasche che di lì a poco si sarebbero scatenate sulle
loro teste. Naturalmente il periodo che va dal '38 al '43 fu un periodo fondamentale per
la scuola ebraica milanese, che annoverò fra i primi insegnanti personaggi di rilievo
nella vita culturale cittadina. Terminata la bufera della guerra di liberazione, Yoseph
Colombo fu nominato al Liceo Berchet quale successore di
Untersteiner, e, come abbiamo già accennato nel cappello introduttivo a questa stessa
pagina, ne restò alla guida fino al 1967. Egli non volle tuttavia abbandonare i suoi
amati studi ebraici, ed insegnò lingua e letteratura ebraiche alla Bocconi durante tutto
il periodo della presidenza al Berchet.
Le testimonianze che seguono daranno un quadro chiaro del carisma che il preside
Colombo aveva, e dell'atmosfera che regnava al Berchet sotto la sua presidenza. Prima di
presentarvele, una riflessione: la volontà di congiungere un atteggiamento di ortodossia
alle tradizioni ebraiche con la più totale apertura al progresso delle scienze umane e
alle conquiste della ragione sono certamente alla base del fascino che la sua persona
sapeva e poteva emanare. E' così che Colombo giungeva ad affermare la natura
perfettamente laica dell'ebraismo ed il conseguente necessario carattere laico di una
scuola ebraica, e a maggior ragione di una scuola statale italiana. Una posizione che
sicuramente scaturiva da una base storico culturale di perfetta integrazione col
patrimonio italiano ed europeo, vissuta in perfetta armonia con le origini ebraiche.
Il Rencontre
Internationale de la Jeunesse
Ci pare significativo del clima, che verrà di seguito segnalato
dalla prof. Giovanna Segalini, durante questi magici anni di volontò di ricostruzione,
illustrare con alcune rare fotografie questo evento che vide, nel lontano 1950, il liceo
Berchet protagonista di un evento prestigioso. In occasione infatti del "Ritrovo
internazionale della gioventù", organizzato dall'UNESCO per mostrare sensibilità
alla tematica della nuova Europa nascente, il Berchet si classificò primo nel concorso
nazionale tra i Licei delle grandi città, e fu dunque invitato a Jouy-en-Josas, cittadina
francese, per un soggiorno di dieci giorni, dal 1° al 10 agosto 1950. Ringraziamo della
testimonianza che rende possibile questo ricordo la signora Stefania Salomoni, da noi
contattata, e che ci ha permesso di scansionare le seguenti tre fotografie.
Il preside Yoseph Colombo è il terzo da sinistra,
in piedi, a braccia conserte. Alla sua destra la prof.ssa Vitellia
Beltraminelli.
L'annotazione, di mano della sig. Salomoni, e risalente all'epoca,
con cui ella ricorda la sua partecipazione all'incontro.
Comunicazione del preside Yoseph Colombo
alla famiglia di Emma Guglielmelli DeMattia
La testimonianza della prof.
Giovanna Segalini
Allora, Giovanna, tu che ora sei insegnante di italiano e
latino nel corso E al Berchet, raccontaci la tua esperienza di studentessa, e il tuo
incontro col preside Colombo...
Ricordo benissimo quando ero in quarta ginnasio. Era nel 1963, perché io ho
fatto la maturità nel 1968, proprio l'anno dopo che Colombo era andato in pensione. Sarà
stata la seconda o la terza settimana di scuola, ed io naturalmente il preside non l'avevo
mai visto. Ero uscita dalla classe, per andare in bagno, ed ho incontrato quest'uomo
piccolino, un po' calvo, con un'aria molto dimessa, che mi ha detto: "Perché lei è
fuori, Segalini?". Questo è stato il mio primo impatto col preside
Colombo, e dal fatto che sapesse già il mio cognome ho capito di trovarmi effettivamente
di fronte ad una persona straordinaria. Come potesse conoscerlo, mi è ancora ignoto.
D'altronde conosceva il mio come quello di tutti.
Il Berchet aveva già allora uno svariato numero di
classi, vero?
Sì, certo, eravamo allora già alla sez. H. Questo fatto del cognome mi
colpì, mi colpì decisamente. A poco a poco capii che il modo che aveva il preside
Colombo per farsi conoscere, era quello di fare le supplenze. Noi il preside lo abbiamo
conosciuto così. Se mancava un professore, che fosse al ginnasio o al liceo, arrivava il
preside Colombo. Così parlava con gli studenti, comunicava: al ginnasio faceva il
Manzoni, piuttosto che un po' di etimologia; al liceo, ovviamente, filosofia, ed in modo
splendido... Soprattutto sapeva comunicare questa sensazione di autorevolezza non
autoritaria. Io ho capito che cosa vuol dire essere autorevoli e non autoritari
proprio conoscendo Colombo. Era un uomo di eccezionale presenza, sempre presente a scuola,
disponibilissimo; ed aveva un suo modo di raccontarsi agli studenti, che era
particolarissimo. Faccio un altro esempio: quando consegnava le pagelle, e le consegnava
tutte ovviamente di persona, aveva la capacità di fare commenti, di dare consigli, ma
sempre col tono giusto; serio, ma non serioso, ed incoraggiante. La sensazione che noi
studenti avevamo, era di essere estremamente protetti, e difesi da lui.
Quindi non c'era un'atmosfera eccessivamente selettiva,
d'élite, nonostante che quelli fossero anni in cui il liceo classico aveva ancora quelle
caratteristiche?
Sì, ma il clima del Berchet di Colombo era forse proprio questo: l'élite,
ma non un clima autoritario, e sarebbe un grave errore confondere le due cose. Per esempio
nessuno "mandava" dal preside a scopo punitivo, anzi andare dal preside era una
gioia. Non esisteva alcuna contrapposizione fra le componenti della scuola... E con ciò,
o forse proprio perciò, tutto andava benissimo. La battuta che fece un leader del
'68, in un'occasione che ricordo, è molto indicativa. Il commento fu: "Meno male che
Colombo è andato in pensione: chi gli avrebbe mai dato questo dispiacere?". Questo
vuol dire qualcosa. E precisamente, credo, un legame tra gli studenti e il preside, che
secondo me ora non solo non esiste più, ma non so se nemmeno sarebbe esistito allora,
senza un preside come Colombo.
Senti, ma possiamo proprio affermare, siamo proprio
sicuri, che durante la sua lunga presidenza non esisteva dissenso, o malcontento?
Ma tu potresti anche consultare tanti altri berchettiani. Troveresti
conferma alle mie parole. Onestamente io non mi ricordo di dissensi con il preside. Mai.
Ricordo caso mai interventi sempre molto equilibrati, anche in momenti delicati, e sempre
accettati dagli studenti. Il motivo è anche che noi il preside lo conoscevamo. Queste sue
lezioni di tolleranza erano quel qualcosa che dava il tono alla scuola.
Un ex allievo di Colombo, Dino Voghera, in un
bell'articolo sulla rivista "Israel" del 1° semestre 1985, ricorda una
discussione in cui il suo professore di filosofia sostenne una visione laica sia
dell'ebraismo come religione sia di una eventuale scuola ebraica. Cosa ne pensi?
Be', che Colombo fosse ebreo ortodosso, e rabbino, noi l'abbiamo saputo
dopo. Certo, anche durante gli anni di liceo sapevamo che era ebreo, ma questa sua
caratteristica non aveva un peso particolare, se non appunto essere, almeno nella nostra
sensazione di studenti, causa di una maggior sensibilità.
Quindi il suo ebraismo era, se così si può dire, di
totale "trasparenza".
Sì, assolutamente. Noi non ci accorgevamo di nessun atto o gesto che
lasciassero trasparire visioni della vita particolari... Che fosse studioso di cose
ebraiche, io, da studentessa, non lo sospettavo nemmeno... Emergeva la figura di un uomo
di grandissima sensibilità, di grandissimo equilibrio, e di grandissima sapienza
pedagogica. Quando lui andò in pensione nel '67, io, assieme a molti altri studenti del
Berchet, per la maturità andai da lui, a casa sua, a preparare l'esame di filosofia. Ci
andavamo in dieci, dodici alla volta; anche là, ci trovavamo di fronte ad un uomo colto,
presente, attento, ricco.
Eppure, la visione ebraica dell'esistenza, era presente
ogni giorno nella vita di Colombo.
Sì, ed anzi, ti dirò che alla lunga anche la mia visione di ebraismo venne
a coincidere con quella che Colombo sapeva emanare. Però ritornando alla mia esperienza
di studentessa, ti dirò che pochi confronti sono possibili con la sua figura di preside.
Vedi, che un professore ricordi il preside, è possibile. Ma che uno studente, o più
studenti ricordino il preside con tanto affetto, è di gran lunga più eccezionale. Il
fatto è che lui stava in ogni modo con gli studenti, sapeva sfruttare ogni occasione per
comunicare con noi... Con queste sue assidue presenze, sapeva trasmetterci che cultura
vuol dire soprattutto, come ti ripeto, tolleranza, comprensione, tutta una serie di
valori. Proprio quei valori che determinavano il Berchet di allora, e per esempio lo
rendevano differente da altri licei, che potevano sembrare le classiche "scuole
bene", mentre noi avevamo questo timbro diverso, e credo questa marcia in più che ci
era proprio data dal preside: apertura, ricchezza, stimolo a fare, ad intraprendere...
Grazie per la tua testimonianza: ha contribuito, credo, a
darci il senso di un clima e di un'epoca del Berchet...
QUELLI DEL
BERCHET
di Erminio Valenza
In una zona tranquilla della vecchia Milano, via della
Commenda, nacque nel 1911, come sezione staccata del "Beccaria", il liceo
Berchet.
L'aria dei tempi andati il "Berchet" l'ha
tuttora: niente di moderno nel suo complesso di un vago e moderato "liberty".
Nell'atrio spazioso, un busto ricorda Poldo Gasparotto, ex alunno morto a Fossoli ed una
lapide il professor Pio Foà, che qui insegnò lettere, ucciso con due figli.
Penso immediatamente al passo della "Lettera semiseria" del
Berchet: "...voi, se siete caldi di vero amore per la vostra bella Italia...".
Essi lo sono stati. Mi prende un senso di malinconia, quasi di rimorso. Il custode
sopraggiunge dicendomi che non ho scelto una buona giornata, ci sono molti genitori che
devono parlare sia col preside, sia coi professori. Salgo comunque al piano superiore: mi
accoglie il sommesso parlottare delle persone che attendono nel largo corridoio. E' uno
scambio di considerazioni sui tanti problemi che i figli impongono. Non sento quanto
dicono, ma lo capisco dalle espressioni dei visi e dal muoversi delle mani. Gli occhi si
rivolgono spesso al cielo; concludo che non è facile né comodo essere genitori.
Passa un gruppo di ragazze che va verso il pianterreno, una di esse si
stacca e bacia una signora in attesa, evidentemente la madre, e raggiunge le compagne. Il
tempo passa, a poco a poco il gruppo diminuisce; arriva il mio turno. Il preside,
professor Yoseph Colombo mi riceve. Si scusa per la lunga attesa e si pone a mia
disposizione. Di mezza età, statura normale, ha un viso paterno con vivi occhi dietro le
lenti. Tanto è modesto circa la sua persona quanto è largo di lodi per coloro che lo
hanno preceduto. "Molti illustri nomi hanno insegnato qui - dice - dal filosofo
Emilio Morselli, al letterato Eugenio Donadoni, da Ugo Guido Mondolfo al grecista e storico della filosofia antica
Mario Untersteiner".
Rammento al preside che se essi sono stati illustri, egli non lo è
meno come studioso di lingua ebraica, della quale è lettore all'università Bocconi. Non
ama i complimenti anche se meritati, non vuole si parli di lui e della sua attività. Nel
1951, quando cadde il centenario della morte di Giovanni Berchet egli curò un bel volume
di studi critici sul poeta. Con un certo orgoglio mi dice invece che, dovendo il
professore tedesco Edoardo Fey fare uno studio sulle scuole europee, il ministero italiano
della pubblica istruzione, lo indirizzò al "Berchet" considerandola scuola
modello, aggiungendo che anche la UNESCO le conferì il primo premio tra i licei d'Italia
nel 1950. Capisco che la sua scuola è tutto per lui, e ne parla volentieri, a lungo,
facendomi notare, tra l'altro, il grande sviluppo edilizio da essa avuto. E' vero, anche
se dalla facciata e dall'atrio tutto sembra rimasto al 1911: posteriormente sono state
aggiunte numerose ali per far fronte ai crescenti bisogni; quasi mille, per l'esattezza
935, sono gli allievi del "Berchet" per i quali sono necessari una cinquantina
di professori. Ringrazio il preside della sua cortesia ed esco per vedere qualche
professore. Al solito non è facile.
L'intervallo è cominciato, il vocìo è sensibile, qualche ragazzo
mangia un panino, altri, come tutti i giovani del mondo, punzecchiano le compagne che,
più riservate, in piccoli gruppi, passano nel corridoio. Ad un tratto si apre la porta
dell'ascensore e un allievo con una gamba ingessata esce dalla cabina. Mi fa piacere
notare con quale premura i compagni lo aiutino. Sarà campione di sci o di rugby della
scuola?
Dove posso trovare il professore Ghisalberti? E' al pianterreno; due ragazze, dall'aria
intimidita, stanno consegnandogli dei fogli.
"E' lei che mi cerca?". Qualcuno evidentemente lo ha
informato. Un sorriso gli illumina il volto d'un rosa acceso, sul quale fanno bel
contrasto i capelli argentei. Indossa giacca nera con pantaloni rigati grigio scurissimo,
l'abbigliamento classico dei professori nei primi decenni del secolo. Ha trentaquattro
anni di insegnamento, molti ricordi, ma soprattutto un grande amore: Manzoni. Pochi
conoscono come lui i manoscritti manzoniani, sua è la bella edizione delle tre stesure de
"I Promessi Sposi" apparsa qualche anno fa: un lungo lavoro di comparazione e di
annotazioni. Gli esprimo la mia ammirazione, ma, modesto come tutti i professori, non
vuole. "Per me è stato un piacere, ho passato ore bellissime, vede, non ho fatto
nessun sacrificio". Al momento non ricorda nomi di alunni diventati qualcuno, ma
subito rammenta l'avvocato Antonio Greppi: "Sì, il nostro ex sindaco ha studiato
qui, io non c'ero ancora, ma lo so e, se non sbaglio, anche il presidente dell'Azione
Cattolica Gedda". No, non sbaglia, la cosa viene confermata dal custode Battista
Ferrè. Anche Adrio Casati è stato allievo del "Berchet" e l'onorevole Meda.
Tutti uomini politici: possibile, nessuno noto nelle arti o nello sport? Penso che il
professor Dante Ferrari, che sto cercando senza riuscirvi da un po', potrà aiutarmi.
Passa il preside e, vedendomi, si interessa dei risultati della mia inchiesta. "Non
ha ancora parlato al professor Ferrari? dice se non ho visto male è nella
sala degli insegnanti". Mi presento, ma capisco che, nonostante lespressione
cortese, non ama parlare a lungo. Per lui questo è lultimo anno di insegnamento,
poi andrà in pensione. Non è facile pensare una persona così nelle vesti di un
pensionato; rammenta molto Erminio Spalla, anche se più basso di statura. I capelli sono
folti, linsieme vigoroso.
"Troppi, troppi volti mi si parano davanti: quando penso ai miei
ex allievi, formano qualcosa di reale e di indefinito nello stesso tempo. No, non saprei
dirle alcun nome". Unespressione seria cala sul suo volto, probabilmente gli è
triste pensare che dovrà lasciare queste aule ove ha speso tutta una vita. Mi accomiato,
sperando di essere più fortunato cogli allievi.
Come ogni liceo che si rispetti, anche il "Berchet" ha il suo
giornale. Deve essere molto interessante, dato che quando chiedo di vederlo non è
possibile trovarne una copia in tutta la scuola. Finalmente la moglie del custode riesce a
pescarne un esemplare in un suo cassetto; un po vecchio, ma serve ugualmente. Come
sempre salta allocchio la serietà dei problemi agitati ed affrontati da questi
giovani.. Poesia, teatro, cinema, arti figurative e politica vi vengono discussi e
trattati con competenza, senza concedere nulla al facile spirito studentesco.
Sto parlando con un gruppo di studenti che ho atteso alla fine delle
lezioni. Molti nutrono interessi extra scolastici, sia sportivi, sia culturali ed a quanto
mi dicono, capisco che hanno già molto viaggiato. E ciò che dà loro una maturità
superiore alletà, un bagaglio di esperienze che una volta non era possibile
acquisire. Il primo nome di ex allievo che finalmente scopro è quello di Fofi Vigorelli.
Cè dellammirazione nel ragazzo che me lo dice; un attimo di silenzio, ma
quasi subito un altro esclama: "Anche Luchino è stato al Berchet".
Non ho bisogno di spiegazioni per sapere che si tratta di Luchino Visconti, il quale
diventa subito largomento della conversazione. Grande è la considerazione per il
regista milanese; gli studenti discutono le sue regie teatrali e cinematografiche, lo
considerano un maestro. Un ragazzo alto, con limmancabile "sacca" sulla
spalla, mi elenca invece gli ex-allievi sportivi, dal calciatore Todeschini a Leto di
Priolo, da Edoardo Mangiarotti a suo fratello Mario. La canzone ha invece avuto sui banchi
del "Berchet" Carlo Alberto Rossi e Pier Emilio Bassi.
La strada antistante la scuola è affollata da ragazzi e ragazze che
chiacchierando si dirigono ai tram. Si incrociano saluti e appuntamenti per il pomeriggio.
Laria è allegra di voci che a poco a poco si allontanano; qualche attimo ancora,
poi tutto ritorna calmo e silenzioso in quella zona tranquilla della vecchia Milano che è
via della Commenda.
Ci è parso molto significativo dei prodromi del '68 al Berchet,
riportare alcuni articoli comparsi nel giornale Berchet 68, Organo Ufficiale del
Circolo Studenti Berchet, apparso come numero unico in attesa di autorizzazione
nel gennaio del 1968.
Da qui potrete accedere ai seguenti articoli:
- Una medaglia al preside Yoseph Colombo
, Prima Pagina
- Scuola privata confessionale,
pag. 4, di Massimo Marzocchi
- Scuola, società e movimento studentesco,
pag. 5, di Ricky Klippel Arden
- Punti per il rinnovamento
della scuola, pag. 5, di F. Gastaldi
- Europa: un problema del nostro tempo,
pag 6, di Laura Colombo e Donatella Vetri
- Il prezzo per la pace,
pag. 7, di Felice Perussia
- Discorsetto su Berchet
inteso come giornale, pag. 8, di U. Fiori
- Assenteismo, pag. 8, di
R. Caputo
- Il nostro contratto sociale
, pag. 9, di R. Macorin
- Signori,..., pag. 9, di Etra
Occhialini
Ecco l'immagine con la prima pagina:
e l'editoriale a cura della Redazione:
Editoriale
a cura della redazione
Quando la redazione è stata eletta, molti hanno espresso le loro
riserve sulla bontà della scelta; riserve invero legittime dal momento che noi redattori
siamo quasi tutti nuovi a questo giornale. Sarà quindi opportuno chiarire in questo
articolo quali siano i nostri programmi. Innanzitutto è bene precisare che il giornale è
l'organo ufficiale della nostra Associazione Studentesca e non un fatto privato della
redazione: in altre parole tutti hanno diritto di consegnare i loro articoli, di muovere
crutuche e di sollevare questioni. Giusto -direte- ma purtroppo la realtà contrasta un
poco con quanto sopraddetto, dal momento che, su più di mille studenti, solo una decina
ha ritenuto opportuno collaborare con il giornale. Dicevamo dunque che il giornale è
aperto a tutti, ma per no trasformarlo in una specie di Selezione, dovremo evitare gli
"articoli da terza pagina" e dare rilievo o consigliare, quando non ve ne siano,
articoli riguardanti i problemi scolastici, cche sono quelli che più direttamente ci
interessano. La nostra linea consiste quindi, senza limitare il campo della cultura, del
teatro e dell'attualità, nell'indirizzare i berchettiani a prender coscienza dei problemi
che li toccano, a dibatterli e, ciò che più conta, a risolverli; a non comportarsi
insomma passivamente nei confronti della Scuola che riempe tanta parte della nostra
esistenza. Non soltanto perché ogni forma di passività è deprecabile, quanto perché
questo atteggiamento potrebbe divenire un'abitudine negli stadi successivi della nostra
vita. Quanto ai rapporti con la segreteria cercheremo di mantenere una viva
collaborazione, collaborazione che non vuol dire dipendenza, ma linea comune per il
perseguimento degli obiettivi sopra accennati. Dopo questo bel discorso, per ora teorico,
vorremmo accennare ad alcune realizzazioni pratiche nell'ambito del giornale: innanzitutto
questo cesserà di essere un foglio a diffusione interna e avrà, nella persona del prof.
G. Piazza un direttore responsabile. Il che ci permetterà di avere una maggiore libertà
e di poter diffondere il giornale anche al di fuori dell'ambito del Berchet.
Per concludere vorremmo fare un accenno al fatto economico: è molto
bello scrivere articoli interessanti, ma la cosa rimane astratta se non ci sono i fondi
con cui pagare la tipografia, ebbene noi siamo riusciti ad ottenere, grazie alla
pubblicità, un finanziamento che dovrebbe permetterci di fare uscire la nostra
pubblicazione con una certa sicurezza e regolarità. Il Signor Preside ha promesso infine,
sempre che il giornale risulti decente, lo stanziamneto di fondi che
potrebbero esserci senz'altro utili in periodi in cui il vento della
pubblicità non spirasse più tanto favorevole.
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