IDEE PER UNA DISCUSSIONE

INTRODUZIONE
APPUNTI DEL GRUPPO DI STUDIO STORICO APPUNTI DEL GRUPPO DI STUDIO SOCIOLOGICO:
§ I - Analisi dell'attuale società industriale
§ II - Il principio dell'uguaglianza
APPUNTI DEL GRUPPO DI STUDIO SULL'UMANESIMO APPUNTI DEL GRUPPO DI STUDIO SULLA DIDATTICA
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Hanno collaborato:

  • CLAUDIO VELATI
  • MARGHERITA ASSO
  • GIORGIO BERNARDINI
  • CLARA BIANCO
  • PAOLA DAFFRA
  • VITTORIO DORDONI
  • ALBERTO FRIGERIO
  • RICCARDO MACORINI
  • ORETTA NICCOLINI
  • SIMONETTA PAGLIANI
  • ALBERTO PARMA
  • CESARE PRINA

A cura di un gruppo di studenti del Liceo Berchet di Milano.


INTRODUZIONE

Nel febbraio 1968, dopo le varie occupazioni che già si erano verificate in alcune università italiane, l'inquietudine si estese anche agli studenti medi ed a Milano il primo Istituto di tale livello che solidarizzò con gli studenti universitari in maniera tangibile fu il "Berchet". Ci trovammo dunque progressivamente sempre più vicini a quei fermenti di idee che pervadevano quelle agitazioni e sempre più insistentemente veniva rivolta l'attenzione ad alcuni problemi che riguardavano, e riguardano tuttora, un orizzonte molto vasto della vita non solo studentesca: non erano problemi scoperti in quel momento, certo, ma è innegabile che in quel momento, tutti hanno avuto in modo particolare l'opportunità di potersi accostare a tali problemi con una sollecitudine ed un interesse da cui forse mai prima erano stati toccati. Con insistenza si faceva notare, e si constatava, che la scuola non riusciva a soddisfare quelle esigenze di espressione che noi sentivamo, che spesso ci trovavamo costretti in uno studio che raramente portava il suo oggetto a divenire parte di noi, a divenire cultura, ma che, al contrario, troppo spesso diveniva solo erudizione, quando poi lo diveniva: una labile facciata che facilmente si cancella.
Era inevitabile chiedersi il perché di tale situazione, anche se spesso ciò avveniva, più che per intimo convincimento e consapevolezza personale, per un moto di reazione dell'animo ad un sistema di protesta che si riteneva sbagliato: la causa doveva essere ricercata in una deficienza degli studenti stessi o era forse la istituzione scolastica, nell'intera sua struttura, che portava irrimediabilmente a quell'inappagamento? O l'una e l'altra ipotesi erano forse e almeno in parte vere? E, ancora, quell'inappagamento era veramente inevitabile e perché? Domande che imponevano un'attenta analisi dell'intera vita della scuola, intesa come insieme di uomini e di istituzioni: analisi storica, dunque, e analisi sociologica. Inevitabile poi che questa analisi sociologica in seno alla scuola rimandasse ad un'analisi più generale dell'intera società di cui la scuola è emanazione. E' stato quindi naturale il desiderio di conoscere più a fondo questi problemi, questi fatti del mondo che anche noi contribuiamo a comporre e che sono dunque fatti e problemi anche nostri. Abbiamo voluto guardarli, questi problemi, rendendoci consapevoli della loro esistenza e della loro importanza, abbiamo voluto affrontarli in uno studio a cui tutti, studenti e professori, portassero il loro contributo, uno studio che raccogliesse le esperienze di lavoro, le idee, da questo tratte, di ciascuno per costruire una consapevole coscienza di tutti.
Questo fu dunque lo spirito in cui furono mossi i primi passi verso la formazione di liberi gruppi di studio e questo ne fu lo scopo; ci pare dunque importante sottolineare che non si pretendeva di arrivare a conclusioni definitive dei vari problemi, si voleva invece giungere ad una sensibilità di fronte ad essi, ad una consapevolezza a livello di coscienza che avrebbe poi naturalmente portato alla ricerca di una soluzione, ma come conseguenza appunto.
In marzo, all'assemblea generale del "Berchet", fu presentata la proposta di formare questi gruppi: le idee in merito ad essi non erano allora molto chiare; la mozione fu presentata con il titolo di "Scuola critica" e fu approvata. Solo in seguito a questa assemblea si cominciò a mettere più a fuoco quest'idea di attuazione di gruppi di studio. Ci si riunì, dunque, per definire più chiaramente i termini in cui questi gruppi avrebbero dovuto articolarsi. Dopo un pomeriggio di chiarificanti discussioni si giunse a questa conclusione: si sarebbero formati tre gruppi fondamentali:

  1. Analisi dei programmi e nuove proposte diviso a sua volta in sottogruppi:

    1. programmi umanistici;

    2. didattica: con attuazioni sperimentali delle soluzioni proposte.

  2. Analisi storica dell'attuale struttura scolastica in Italia.

  3. Fisionomia dell'attuale società in cui si inserisce la scuola.

In questi gruppi ci pareva di aver compreso qualunque ipotesi di lavoro; in effetti si lasciava spazio a qualunque iniziativa: quei gruppi fondamentali cioè avrebbero potuto scindersi a loro volta in ulteriori sottogruppi con possibilità di affrontare qualunque tipo di problema da qualunque punto di vista.
Sorsero naturali alcune osservazioni: tutto questo era certo un impegno molto serio e molto gravoso: lo studio si sarebbe fatto su testi opportuni e chiaramente avrebbe occupato una non indifferente quantità di tempo; bisognava tener presente che, essendo orami aprile, mancavano due mesi al termine dell'anno scolastico e che il tempo da impiegare in questo lavoro pomeridiano si sarebbe dovuto necessariamente sottrarre alle ore che altrimenti sarebbero state impegnate nello studio per la scuola del mattino. Non era certo quello, insomma, il momento più opportuno per dare il via a un tale lavoro. Si pensò tuttavia che era importante iniziare: si sarebbe in ogni caso fatta un'esperienza in basa alla quale ci si sarebbe potuti regolare per un impegno più completo e meglio organizzato da attuarsi l'anno seguente. Fu ben sottolineata, dunque, la gravosità di questo impegno e si disse chiaramente che per chi avesse voluto prendervi parte sarebbe stato inevitabile tenere per scontato l'impegno del suo tempo libero e non solo di quello.


I - APPUNTI DEL GRUPPO DI STUDIO STORICO

Siamo partiti dalla lettura di un articolo di Aggiornamenti Sociali (n° 3, 1968, p. 173 e ss.) che ci offriva una rapida panoramica dell'ordinamento scolastico dalla legge Casati (13 Novembre 1859) ai giorni nostri e abbiamo così constatato che tale ordinamento fu caratterizzato fin dall'inizio da una forte centralizzazione, divenuta, durante il fascismo, sempre più assidua. Essa, anzi, non si è attenuata neppure dopo che la Costituzione della Repubblica ha proclamato:

-La Repubblica... attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo (art. 5).
-La Repubblica promuove (non monopolizza!...) lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica (art. 9).
-L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento. La Repubblica detta le norme sulla istruzione... (art. 33).
-La scuola è aperta a tutti (art. 34).

Ci siamo chiesti perché il sistema scolastico italiano, proprio all'indomani del risorgimento nazionale, nacque all'insegna della centralizzazione. Per questo dunque, ci siamo innanzi tutto documentati sull'istruzione in Italia prima della unificazione. Abbiamo trovato cenni succinti ma completi su un recentissimo manuale: D. Bussolaro-G. Rossi, Manuale pratico per la scuola media, ed. Massimo, Milano 1968 (pp. 10-22).
Ne abbiamo dedotto che le situazioni erano molto varie, ma tutte poco allegre, tranne che nel Lombardo-Veneto, dove almeno l'istruzione primaria era organizzata e obbligatoria. Nel regno di Sardegna la situazione era scadente, progressivamente peggiore scendendo verso sud, disastrosa negli stati borbonici. Quanto alla scuola secondaria, era molto scarsa e solo privata. Le Università erano poche e poco frequentate. Bisogna anche rilevare che in Piemonte e in Toscana era in atto un processo per cui lo Stato tendeva a liberare la scuola dalla influenza della Chiesa e ad avocare a sé il diritto di istituirla.
C'era dunque grave carenza e dissidio di poteri. In queste condizioni ci è parso di riconoscere inevitabile la necessità per il nuovo Stato italiano di centralizzare l'istruzione. Solo così infatti si poteva sperare di rendere presto efficiente un servizio di primo ordine per la società. Tuttavia bisogna notare che coloro che reggevano le sorti dello Stato erano una elite di privilegiati che costituivano l'alta borghesia ed erano coloro che avevano sostanzialmente contribuito all'indipendenza nazionale. Erano costoro quindi ad impostare tutti i servizi sociali in funzione dello Stato e non delle persone: e così fu anche per la scuola. Divenne quindi la scuola lo strumento di preparazione di cose e persone per lo Stato e il criterio con cui si guardò alla scuola non fu la realtà della persona ma quella dello Stato.
Con l'andare del tempo, però, questa necessità avrebbe dovuto attenuarsi e scomparire e l'opera di supplenza dello Stato avrebbe dovuto finire. Invece, forse per la pigrizia con cui si considerano le istituzioni una volta fissate, ma soprattutto per le tensioni politiche che travagliarono l'Italia, ci è sembrato di vedere che, mentre l'amministrazione tendeva a rendere sempre più efficienti i servizi, accentuandone la burocratizzazione, si induriva la lotta tra la scuola privata, e specialmente religiosa, e lo Stato, che considerava pubblica e capace di dare titoli legali la propria scuola: insomma, si induriva sempre di più quella posizione che si chiama monopolio statale dell'istruzione.
La riforma Gentile, pensata dal ministro-filosofo come mezzo per potenziare e uniformare il livello culturale e la preparazione delle classi dirigenti, soprattutto, secondo un concetto idealistico della cultura, fu subito adottata e fatta propria, fin dai suoi inizi (1923), dal regime fascista. Infatti anche se questo era stato lontano dalle intenzioni di Gentile, la scuola così concepita era un ottimo strumento di controllo da parte del regime sulla formazione dei cittadini. La cosiddetta riforma Bottai, che avrebbe ancor più dovuto rafforzare il monopolio statale dell'istruzione, fu solo iniziata e poi travolta dalla guerra.
Dopo la seconda guerra mondiale, si impose subito il problema della riforma della scuola. Furono fatti sondaggi di opinioni, questionari entro la scuola, presso i dirigenti dell'industria e del commercio. Gli articoli citati della Costituzione mostrano in che senso doveva muoversi la riforma: decentramento, libertà, autonomia sia pure sotto il coordinamento vigile dello Stato. Ma di nuovo le tensioni politiche, ancor più delle discussioni fra tendenze pedagogiche, resero faticosissimo il cammino. Solo nel 1962 fu approvata e iniziata una riforma importantissima: la scuola della preadolescenza (anni 10-13) fu resa unica, obbligatoria e gratuita, con carattere fortemente formativo e orientativo.
Certo la nuova scuola media unica non è perfetta e abbiamo ricavato l'impressione che non tutti i professori l'abbiano capita subito e attuata come si deve. Però questo è comprensibile: ogni strumento nuovo ha bisogno di rodaggio e di un ragionevole tempo per essere messo a punto. Il guaio grosso è che la riforma della media unica è rimasto un troncone isolato tra le elementari e la media superiore, mentre, d'altro canto, diventava sempre più acuto il disagio nelle Università. Ma l'antidemocraticità di questo sistema non sta tanto nel fatto che oggi non tutti hanno la possibilità di accedere ai gradi più elevati di istruzione (non solo almeno), ma soprattutto nel fatto che non c'è libertà di educazione, ossia lo Stato non lascia libertà di cultura.
Ecco in che cosa consiste il monopolio culturale; si richiede quindi non solo diritto allo studio, ma scuola decentrata, scuola dove a decidere non sia una persona sola o un gruppo limitato di persone, ma siano gli insegnanti, i genitori, i ragazzi. In altri termini vige l'esigenza di un pluralismo scolastico con cui non si intende parlare di scuole professionali, ma di scuola pubblica dove sia lasciato alle persone lo spazio in cui decidere il tipo di cultura. Se a queste esigenze si aggiunge il fatto che la popolazione scolastica è aumentata moltissimo e aumenta sempre più, che la società si trasforma, si comprendono i motivi delle agitazioni di quest'anno.
Abbiamo poi seguito un'altra linea appena abbozzata: ci siamo chiesti: -Quando è stata formata la scuola secondaria e come mai il modello fondamentale è stato il liceo classico? Abbiamo trovato che questo era il tipo di scuola istituzionalizzato in Francia con la riforma napoleonica e passato nel Regno Italico, non solo, ma adottato più o meno in tutti gli Stati d'Europa nelle riforme ottocentesche. Questo tipo ci è risultato a sua volta imitato dalle scuole dei Gesuiti, formatesi nel '600 come preparazione di quei giovani che volevano poi frequentare l'Università. Seguendo questo filo, abbiamo constatato un fatto curioso: la scuola è nata a rovescio e cioè prima l'Università, poi la preparazione alla Università, poi il Ginnasio per preparare alla preparazione, poi le elementari per preparare al Ginnasio... Ogni scuola nata per preparare alla seguente, nessuna per la persona umana!...
Questa linea merita di essere approfondita l'anno venturo. Vorremmo anche studiare le istituzioni scolastiche straniere e soprattutto la storia della cosiddetta "istruzione popolare" in tutta l'Europa e in America, per vedere come si lega e si intreccia con i movimenti di promozione culturale e umana delle classi più diseredate. Un altro argomento che ci interessa è quello della riforma della scuola in tutta Europa, a partire della fine della II guerra mondiale: sappiamo infatti che la crisi della scuola è vasta e che le agitazioni studentesche in tutto il mondo non sono un fenomeno nato dal nulla. A questo punto ci pare che il nostro lavoro di storici non possa non legarsi continuamente con quello dei sociologi.


II - APPUNTI DEL GRUPPO DI STUDIO SOCIOLOGICO

Negli incontri iniziali si trattò, per prima cosa, di impostare il lavoro e di ricercare il metodo più opportuno per condurlo innanzi. Da principio si era pensato di dividersi in sottogruppi che avrebbero affrontato particolari argomenti, tutti naturalmente in funzione del problema generale; furono infatti formulati gli enunciati di quattro sottogruppi: 1) esame del concetto di diritto all studio; 2) ruolo dello studente nella società; 3) analisi della società industriale; 4) studio sul Dewey e discussione sul tema: democrazia ed educazione.
Sorsero però ben presto alcune obiezioni, la prima delle quali sosteneva che non era assolutamente il caso di dividere il gruppo prima di aver fatto un discorso comune che chiarisse a tutti l'impostazione del lavoro, le finalità specifiche di esso in modo da porre punti comuni da cui avrebbero poi potuto svilupparsi differenti ipotesi, tutte però unite da un unico filo conduttore. Addirittura fu chiesto se non sembrasse cosa opportuna ascoltare un discorso introduttivo sulla sociologia in generale, un discorso cioè che ci desse la facoltà di addentrarci nello studio di problemi sociali con un minimo di cognizione di causa e non del tutto sprovveduti anche del linguaggio tipico della sociologia. A questo proposito fu però risposto che non era uno studio sulla sociologia il fine dei nostri incontri, che era invece quello di affrontare determinati problemi di carattere sociale, ma tutti posti in relazione con un preciso fenomeno: il fenomeno scolastico. Il metodo più valido sembrò, dunque, quello di prendere in considerazione alcuni di questi problemi, di documentarsi e di presentare negli incontri seguenti relazione di ogni testo letto. Si fece infatti notare come questo metodo iniziale di studio presentasse numerosi aspetti positivi, primo fra tutti quello di evitare di porre a priori limiti o indirizzi determinati agli argomenti; si preferì, cioè, cominciare uno studio concreto le cui derivazioni ed i cui sviluppi ci riservavamo di cogliere, momento per momento, ogniqualvolta emergesse un nuovo problema che ci riguardasse. I temi dei quattro sottogruppi non furono rifiutati, si pensò solo che, per essere più sentiti, avrebbero dovuto sorgere spontaneamente dal nostro lavoro.

§ I - Analisi dell'attuale società industriale

L'attività umana si può distinguere in tre settori:
1°) agricoltura, pesca, attività forestale;
2°) industrie estrattive e manifatturiere, costruzioni ed edilizia;
3°) servizi ed attività commerciali, banche, assicurazioni, comunicazioni e trasporti, professioni liberali.
Nello sviluppo economico industriale la popolazione attiva passa dal 1° al 2° e poi al 3° settore.
L'industrializzazione non implica solo cambiamenti per così dire esteriori, come l'esodo dalle campagne e la formazione di centri urbani, ma influisce soprattutto sulla cultura, sulla psicologia, sul modo di concepire la vita. Che cosa significa "industrializzazione"? E' l'impiego nell'attività economica di manodopera variamente qualificata per la produzione e la distribuzione di prodotti su grande scala, ossia tale da consentire un rapido aumento della produttività del lavoro e quindi del reddito pro-capite reale.
Il processo di industrializzazione costituisce in primo luogo un fatto di rottura con la tradizione, rottura che avviene in un triplice ordine di tensioni:
        a) fra pratiche tradizionali ed esigenze di razionalizzazione con riguardo ai cicli produttivi;
        b) fra un tipo di rapporti umani personalizzati e un tipo di rapporti depersonalizzati e psicologicamente neutri richiesti in una società tecnicamente avanzata;
        c) al livello della struttura sociale, fra una società moderna funzionale e dinamica, composta di gruppi differenziati e attivi nel quadro di un "interesse pubblico" e una società in sviluppo incipiente, le cui funzioni non appaiono ancora spersonalizzate e chiaramente differenziate rispetto alle esigenze "private" e "pubbliche".
In secondo luogo è un processo autogenerantesi, cioè con una sua logica di sviluppo.
In terzo luogo il processo di industrializzazione è irreversibile, il rifiuto di esso equivale al rifiuto del mondo moderno.
Esso intacca però a livello psicologico sociale nozioni come:
        a) il senso del tempo;
        b) il concetto e il valore della durata;
        c) l'atteggiamento mentale prevalente;
        d) la motivazione dell'attività produttiva.
A livello strutturale tocca:
        a) la struttura di classe di una società, il suo grado di stratificazione e di mobilità sociale;
        b) le basi e l'esercizio del potere, mediante la sua razionalizzazione.
Svolgiamo ora questi punti. Riguardo al senso del tempo, società contadina e società industriale sono in contrasto. Il contadino non fraziona cronologicamente, meccanicamente il tempo: la sua attività è condizionata dal ritmo naturale delle stagioni, dal clima, dalle condizioni atmosferiche, vive insomma a diretto contatto con la natura e ne segue la cadenza.
L'operaio inizia il lavoro col suono della sirena dopo aver timbrato la cartolina-orologio. Il contadino non lavora con l'orologio al polso, ha un diverso concetto di tempo e di durata. Nella società industriale il tempo è studiato per organizzare scientificamente il lavoro. Tutto ciò incide sul concetto di "durata" e di ciò che ha valore.
Nel mondo contadino dominato dalla consapevolezza dell'importanza dell'uomo di fronte alla natura, vale ciò che dura, ciò che resiste nel tempo; di qui il senso del valore della tradizione:
Nella società industriale bisogna "produrre il consumo", qualità e durata perdono importanza perché c'è possibilità di cambio, di sostituzione. La tradizione è quindi in pericolo, dal momento che ciò che conta è la "novità" e non vi può essere nessun valore duraturo o statico. Ma i cambiamenti troppo rapidi ostacolano la valutazione della situazione; sorge dunque il dubbio di non saper dominare il progresso, che va ormai più velocemente della nostra assimilazione. In effetti siamo trascinati anzi condizionati dal progresso: non possiamo soddisfare solo i bisogni reali, ci vuole anche il superfluo, lo esige l'economia dei grandi consumi, altrimenti ecco la paralisi economica, la miseria, il fallimento del sistema.
E' questa la logica della produzione di massa, che è la risultante di una organizzazione produttiva razionalizzata, fine a se stessa, alla propria perpetuazione indipendentemente dai reali bisogni dei gruppi umani; essa crea i bisogni.
Com'è organizzato il lavoro? Il teorico dell'organizzazione scientifica del lavoro fu Frederick Winslow Taylor (1856-1915 - americano); tre sono i suoi principi fondamentali:

a) esiste un modo ottimo, e uno solo, di compiere qualsiasi operazione del ciclo produttivo;
b) è possibile trovare questo modo con la valutazione cronometrica del rendimento operaio e con lo studio della qualità della materia;
c) tale studio è prerogativa delle direzioni aziendali.

Fra vari studi di questa teoria, si è giunti alla fase attuale del taylorismo che consiste nello scomporre ogni operazione manuale in movimenti-base necessari alla sua esecuzione e nell'assegnare a tali movimenti un tempo standard predeterminato.
Questo porta anche a una "rivoluzione mentale": si sostituisce al timore della disoccupazione da parte dell'operaio e alla tendenza al guadagno sull'unità da parte del datore di lavoro, una mentalità produttivistica. Il tutto sfocia nel lavoro a catena (ovvero: le operazioni di lavoro si eseguono senza interruzione fra di loro). In questo tipo di produzione "depersonalizzata", dove il meglio coincide col nuovo, l'uomo è in funzione della catena; a questo punto entriamo in problemi a livello sociale. Ma non è la meccanizzazione, bensì la struttura del potere e i modi del suo esercizio che costituiscono il problema fondamentale della società. La grande azienda è una realtà ambigua: il suo funzionamento presuppone cooperazione inter-personale, ma essa è anche un sistema di dominazione, una concentrazione di potere, nella quale la differenziazione funzionale può tradursi in frattura di classe.
La crisi dell'organizzazione scientifica tayloriana è legata all'evoluzione del macchinario industriale. Con l'uso di macchinari e di procedimenti automatizzati il lavoro industriale sta cambiando. L'operaio ormai dirige solamente il lavoro di una macchina, ne è il sorvegliante. La diminuzione del lavoro manuale implica un maggior consumo di energia nervosa, cioè più collaborazione umana da parte di ogni singolo individuo dell'azienda, in quanto essere dotato di intelligenza e responsabilità; questo porta anche ad una identificazione psicologica con l'impresa e all'accettazione dei suoi fini, con una partecipazione alla vita di essa che impone la frantumazione del potere. Ma questo processo si scontra con il limite del sistema di fabbrica: se da una parte ha bisogno di idee innovatrici per evitare la morte, dall'altra la logica del sistema con la standardizzazione delle operazioni produttive, tende a far deperire la funzione ideativa originale e far coincidere le esigenze della persona con quelle della mansione organizzativa, per cui la creazione diventa produzione.
L'intellettuale che posizione ha in questa società? L'umanista ha perso il contatto con la realtà, con il progresso, si ferma a una formazione culturale formale; egli resta escluso dal sistema mentre l'uomo comune ne è condizionato: entrambi comunque sono dominati dal progresso e la loro creatività originale è difficile.
Concludendo: l'aumento del reddito medio ha, di fatto, causato un progresso economico di tutte le categorie sociali (ne è una prova il fatto che, almeno potenzialmente, la scuola può essere frequentata da individui di differenti classi sociali, comprese quelle più basse). D'altro canto è da notare che se questa gens nova riesce a portare il suo contributo nell'industria e nella società, non arriva, però, mai a poter opporre una valida contestazione al sistema: il potere, dunque, resta privilegio di pochi, di una ristretta élite ed una eventuale critica ad esso rimane solo su un piano velleitario e teorico. La consapevolezza di non poter fare nulla per mutare l'ordine prestabilito fa sì che vengano totalmente assorbiti ed integrati nel sistema anche coloro che potenzialmente potrebbero apportare un notevole contributo di capacità critica. A questo proposito diviene di notevolissima importanza l'opera dell'intellettuale che, evitando l'opposizione fra cultura scientifica ed umanistica, deve trovare l'incontro tra le due in modo tale che, non dimenticando di essere uomo, l'individuo non si cristallizzi nel e col sistema, ma progredisca e lo faccia progredire.

Il problema degli intellettuali è ripreso, sotto forma di dilemma fra cultura umanistica e scientifica, in un'altra relazione in cui, è detto, Ferrarotti cita le tesi dello scrittore inglese Snow. A suo giudizio, umanisti e scienziati, seppure simili riguardo alla provenienza sociale, costituiscono in realtà due universi chiusi, ignorantisi l'un l'altro. Mentre l'umanista tende abitualmente ad assumere posizioni conservatrici, quando non giungono ad essere decadenti, lo scienziato, secondo Snow, porta in sé l'avvenire, tende ad essere più democratico, capisce assai meglio degli umanisti i problemi dei poveri, delle popolazioni sottosviluppate, da cui dipende il futuro del genere umano, insomma esprime comunque la propria superiorità sull'umanista. Nonostante l'affermazione di questa indiscussa superiorità, conclude il Ferrarotti, ci sembra che nel pensiero di Snow l'idealizzazione della cultura scientifica appaia come niente di più che la premessa per un tentato incontro fra tradizioni culturali spesso dimentiche della comune origine, e, sulla base di questa ritrovata consapevolezza, per la creazione di una cultura integrata di tipo nuovo. Quando si parla di una nuova cultura si rifiuta dunque, quel dissidio tra umanistica e scientifica, si intende invece riferirsi ad una nuova cultura nella società che permetta quella personalizzazione dell'individuo di cui si diceva a proposito del compito dell'intellettuale: individuo non numero, ma essere che può scegliere, al suo livello, con tutto se stesso come uomo.
Un altro punto trattato in questa relazione e che si collega al precedente è quello dell'avvento dei tecnici, cioè dell'elite della competenza. Riguardo a questo problema, l'avvento dei tecnici o più precisamente di dirigenti, nessuno contesta l'avvento di questa nuova classe, ossia della classe dei dirigenti economico-industriali come manipolatori delle grandi organizzazioni produttive. Tuttavia sono pur sempre a livello di burocrati, funzionari. Se da una parte il potere all'interno delle grandi organizzazioni sembra essere passato dal diritto proprietario come tale al controllo funzionale quotidiano effettivo, dall'altra l'autonomia del potere di decisione da parte dei managers per quanto riguarda le grandi decisioni strategiche è ancora da dimostrare. Il passaggio dal criterio dinastico al criterio dell'efficienza, per quanto riguardo l'accesso e la promozione nella carriera, sembra indubbio e tuttavia le modalità di questo passaggio si presentano ancora assai complesse. Inoltre, quand'anche questa trasformazione si fosse interamente compiuta a livello dell'azienda o della singola organizzazione burocratica, sarebbero ancora da dimostrare i suoi effetti nell'ambito dell'intera società.
E' facile dimostrare come la categoria dei tecnici, che costituisce i quadri intermedi superiori, sia oggi alimentata dagli istituti tecnici superiori che hanno il difetto di preoccuparsi solo dell'insegnamento di tecniche specifiche, di progettazioni e di calcoli, senza procedere, come parrebbe necessario, ad un'educazione polivalente che sviluppi le qualità organizzative, operative e tecnologiche necessarie ai piccoli e medi imprenditori da essi formati. Si comprende allora come, dopo il periodo di apprendimento nella scuola, nell'attività quotidiana l'azione dell'individuo sia limitata al settore strettamente tecnico ed essendo la persona costretta a tale settore per l'intera sua giornata, non si riesce a vedere come quell'individuo possa esprimere se stesso in maniera completa, nell'integrale sua umanità. Non si può certo pensare che egli possa appagare le proprie esigenze in altri momenti che non siano quelli di lavoro: le esigenze di un uomo non possono essere distinte in momenti predeterminati, è assurdo programmare le esigenze umane. I contatti tra uomini, poi, nell'ambiente di lavoro così come in quello scolastico, come possono sussistere quando in quel momento è consentito all'uomo di esplicare solo una parte di sé? Come possono esservi contatti tra personalità umane differenti quando ciascuno è come limitato e livellato su uno stesso piano che impedisce libertà di espressione? L'uomo, nel lavoro come nella scuola, deve avere la possibilità di immergere tutto se stesso anche in determinati e limitati argomenti, vi deve essere possibilità di rendere personale ogni azione.

Occorre a questo punto centrare l'attenzione sul problema del rapporto scuola-società. Il problema del rapporto tra scuola e società non può essere posto in termini astratti: il sistema scolastico, dice Jaccard, va messo a confronto con le esigenze vive della società in cui opera. Ebbene, quali sono nella società industriale gli sbocchi professionali offerti dall'istruzione? Una delle cause maggiori dello squilibrio del mondo industriale è data dal tipo di preparazione offerto ai giovane nelle scuole attuali. La società, scivolando sempre più verso la terziarizzazione delle loro strutture, denunciano un bisogno crescente di specialisti e tecnici,mentre gli attuali sistemi scolastici continuano a fornire al mercato del lavoro una mano d'opera genericamente formata, oppure membri delle tradizionali professioni liberali, oppure operai formati in base a una concezione fondamentalmente artigianale del mestiere. Vi sono statistiche che dimostrano come, nell'ipotesi dell'incremento naturale, il numero dei licenziati di ogni ordine e grado non sia sufficiente, in un futuro anche molto prossimo, a soddisfare le esigenze della società: diviene dunque evidente lo squilibrio tra espansione sociale naturale ed espansione scolastica naturale. Apparendo subito necessaria una politica di piano a questo riguardo, possiamo proporre qualche dato tratto dal Programma Economica Nazionale per il quinquennio 1966-1970. Esso prevede uno stanziamento di 9.650 miliardi da impiegarsi nel settore dell'istruzione, pari al 5,2% del reddito nazionale. Tale impegno finanziario verrebbe quasi a coprire il fabbisogno e le carenze individuate sia nel campo del reclutamento del corpo insegnante, sia nel campo del miglioramento degli istituti superiori e soprattutto professionali. resta come dato di fatto l'impossibilità di soddisfare, come si è già detto, le esigenze dell'industria e dell'attività di dirigenti e tecnici, derivata da un insufficiente licenziamento di laureati (270.000 posti scoperti), ad esempio. D'altro canto lo Stato si impegna, col suo Programma, a creare centri assistenziali e dei centri di orientamento, atti a dirigere la scelta degli studi che più si confanno al singolo individuo. E' inoltre prevista la creazione di una laurea di secondo grado (il dottorato di ricerca) che intende qualificare il personale insegnante soprattutto nelle università.
Il Programma nazionale promette anche di giungere, gradualmente, al totale appagamento del diritto allo studio, con la sua piena applicazione. Però a questo scopo sono d'ostacolo sia l'inefficiente edilizia scolastica, sia gli ancor vaghi impegni presi in questo senso. Il programma, per lo meno, si vede costretto a riconoscere che, in parte per colpa dell'economia nazionale non esattamente florida, in parte per le proposte di legge non ancora approvate dal parlamento, l'espansione del diritto allo studio è tuttora allo stato embrionale e sotto forma d'auspicio.
Tutto ciò riguarda il campo puramente economico, perché dal Programma non sono presi in esami i fattori d'ostacolo psicologici, e, infine, sociali. Occorre tener presente che ogni società ha una duplice esigenza: di conservazione e di progresso, di consolidamento e di innovazione. La scuola, come le altre istituzioni, deve far fronte a questa duplice esigenza che può manifestarsi come una vera e propria contraddizione. In altre parole, ogni società ha bisogno che certi valori vengano conservati e trasmessi in maniera relativamente uniforme, ma nello stesso tempo ogni società, specialmente quella industriale caratterizzata essenzialmente da un intenso dinamismo, si trova ad affrontare problemi nuovi, i quali comportano la ripresa critica e spesso la rielaborazione, se non l'abbandono dei vecchi valori.

Questi dunque sono gli aspetti generali di quella società in cui si inserisce l'uomo; ma fino a che punto è possibile e giusto parlare di uomo, nel senso più completo della parola, e non si deve piuttosto parlare di numero, di particella meccanica incorporata dalla grande macchina che è quella della società industriale in cui noi oggi viviamo? una società, cioè, che si sviluppa, vive seguendo rigidamente certi canoni di lavoro, di produzione, di consumo? Bisogna pensare che la società industriale non sono le ciminiere, i fiumi di operai, le sirene delle fabbriche. Essa è qualche cosa di molto più complesso. Essa presuppone come base una tecnologia ed un'economia diverse da quelle delle epoche precedenti, e, soprattutto, una rivoluzione mentale riguardo la concezione della vita e del posto dell'uomo. si nota innanzitutto l'importanza assunta dalle misurazioni esatte: un uomo, nell'industria, non è giudicato in base al suo carattere o alla sua personalità, bensì in base al suo stipendio o al suo reddito totale. Deduciamo che la società industriale è un tipo di società dominata dal calcolo razionale. Essa ha operato una grande scissione fra produzione e bisogno certo, reale. La produzione industriale si sviluppa in funzione di un mercato impersonale, praticamente illimitato; essa può solo svilupparsi all'infinito e non può non svilupparsi, se vuol sopravvivere. Di qui il bisogno di razionalizzare i propri cicli produttivi e distributivi. Ad esempio del carattere organizzato e razionalizzante della società industriale, si può assumere il tanto lodato tempo libero: esso non è altro che una breve pausa fra due periodi di lavoro predeterminati meccanicamente, è la vacanza a tempo fisso e con prenotazione obbligatoria, giustificato esso stesso in termini di produzione, in quanto stimola il consumo.
Che cosa succede all'individuo in una tale società? Lo sviluppo della sua personalità è o non è aiutato da essa? E' accertato che nella società industriale moderna diventa sempre più acuto il problema degli anormali psichici, specialmente in età giovanile, degli psicopatici e dei delinquenti. Le statistiche ci dicono che il suicidio è in aumento in tutti i paesi civili. Per esempio i suicidi sono stati in Italia per ogni milione di decessi: 1860 nel 1890, 4200 nel 1910, 7200 nel 1955. Quale può essere il nesso con la società industriale? Gran parte delle nevrosi del nostro tempo appaiono provocate da deficienza di adattamento, da incapacità dell'individuo di inserirsi positivamente nel quadro della vita collettiva. Tra le nevrosi è frequentissima l'ansia, una fretta interiore, un'angoscia senza scopo. Altra forma di nevrosi è poi la frustrazione, una sensazione dell'impossibilità di realizzarsi, di esplicarsi, la sensazione di essere confuso in una massa anonima che annulla l'individuo. Insomma l'urto avviene nel momento in cui la persona, l'uomo nella sua pienezza di personalità si trova di fronte o, meglio, dentro a una società che imposta il suo proprio problema, il problema sociale, in termini puramente quantitativi di potenziale produttivo, di reddito medio pro-capite, di produttività per uomo-oro, termini che si considerano fondamentali. Nello stesso tempo l'industria porta con sé una palese contraddizione. Per produrre essa ha bisogno della collaborazione di tutti i suoi membri, ma contemporaneamente è un sistema di dominazione, una concentrazione di potere. L'evoluzione del macchinario industriale rende necessaria una collaborazione sempre più intelligente dell'operaio stesso, considerato non più come semplice esecutore di ordini ma come essere umano dotato di iniziativa, di autonomia, di maturità. Eppure, grazie anche ai moderni mezzi di elaborazione elettronica dei dati di informazione, l'autorità tende a centralizzarsi sempre di più.
Condizioni base dell'organizzazione produttiva sono queste:
I) i lavoratori dovrebbero vivere e lavorare in un ambiente in cui hanno controllo minimo su ciò che fanno;
II) ci si aspetta che siano docili e passivi;
III) devono adeguarsi a lavori ripetitivi, meccanici, che consistono sempre negli stessi gesti da compiersi in determinati intervalli di tempo;
IV) devono cercare di raggiungere la massima abilità nel compiere poche azioni prive di significato rispetto al ciclo globale produttivo.
In altre parole l'organizzazione dell'impresa moderna tratta delle persone adulte e mature come se fossero dei minorati psichici o dei bambini. Si può facilmente quindi dedurre come, in una società dominata dall'organizzazione scientifica del lavoro, la riduzione dell'individuo a strumento incapace di espressione autonoma sia un risultato logico e, all'interno del sistema, inevitabile.
Questo tipo di alienazione è dovuto, oltre che all'opera di oppressione da parte dell'industria sull'individuo, all'inserimento in determinati ruoli di persone non adatte ad essi, e ciò deriva da una preselezione che avviene nella scuola in base a criteri che non sono di merito. Necessità, quindi, alla base, di una scuola che selezioni sì, ma non con criteri economici, bensì con criteri di merito: tutti, cioè, devono avere la possibilità iniziale di condurre a termine qualunque tipo di studio; il condurli effettivamente a termine o meno e fino a che punto debbano essere condotti deve dipendere esclusivamente dalla capacità dell'individuo. Ciò porterà all'inserimento di ciascuno a livello di merito, all'appagamento dunque delle aspirazioni intime dell'individuo che sente di arrivare alla saturazione delle proprie capacità. E', questo, naturalmente, un ribadire il concetto di diritto allo studio. Si rende a questo punto necessario un esame del principio su cui si basa il concetto di diritto allo studio: il principio di uguaglianza.


 

§ II - Il principio dell'uguaglianza

La formulazione del principio di uguaglianza dato dall'articolo 3 della Costituzione italiana si differenzia da quelle delle Costituzioni dell'800 in tre punti fondamentali (seguendo da vicino o addirittura citando C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico):

  1. l'esclusione formale di ogni differenza di trattamento riferita non più al "titolo e grado" (Statuto Albertino), ma alle qualità del "sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche e condizioni sociali", allo scopo di escludere esplicitamente ogni limitazione dei diritti in ordine ad esse, distaccandosi in tal modo dalla passata esperienza totalitaria e dalla lunga tradizione di inferiorità del sesso femminile;

  2. l'affermazione di una serie di principi diretti a porre limiti invalicabili agli interventi del legislatore in materia;

  3. l'integrazione del principio di uguaglianza formale (uguale trattamento di fronte alla legge) con quello dell'uguaglianza sostanziale, fatto derivare dalla pari dignità sociale che la Costituzione riconosce a tutti i cittadini, che attribuisce a ciascuno il diritto di essere messo nella condizione di poter assumere una posizione corrispondente alle proprie capacità naturali.

L'elemento comune ai vari aspetti del principio è l'eliminazione dei privilegi, non solo di quelli giuridici, ma anche di quelli che conferiscono di fatto il godimento di posizioni non legate al merito dei loro titolari, ma dovute al consolidamento di situazioni di vantaggio per effetto dell'assetto economico-sociale.
E' inoltre da notare che l'articolo si rivolge non al giudice che deve far rispettare la legge, ma al legislatore stesso. In questa sede ha importanza particolare la seconda parte dell'articolo 3, che sancisce, ad integrazione del principio di uguaglianza formale, l'obbligo per la Repubblica di rimuovere gli impedimenti opposti al godimento dei diritti riconosciuti. Ha un duplice significato:

  1. riconoscimento della sussistenza nell'ordinamento storicamente ricevuto di un sistema di rapporti che induce differenziazioni di dignità sociali, particolarmente a svantaggio dei lavoratori;

  2. l'obbligo per la Repubblica di rimuovere questi ostacoli all'uguaglianza sostanziale, promuovendo una trasformazione sociale, in modo da eliminare le strutture di privilegio non proporzionate all'effettiva attività di lavoro, non solo per attribuire ai membri delle categorie svantaggiate i mezzi per condurre un'esistenza dignitosa, ma anche per renderli fattori attivi e consapevoli in tutti i settori dell'organizzazione sociale. Tale obbligo si specifica in una serie di disposizioni:

    1. norme costituzionali limitatrici dell'autonomia dei privati, in modo da evitare lo sfruttamento dei lavoratori;

    2. norme rivolte al legislatore che dovrà dare vita a un complesso organizzativo che corregga le ingiustizie sociali ed offra a ciascuno la possibilità di dare il rendimento di cui è capace;

    3. norme che conferiscono il diritto all'autotutela delle categorie.

Altro fatto importante è questo: nella Costituzione italiana sono assunti numerosi diritti di prestazione dei cittadini nei confronti dello Stato, cioè di obblighi assunti dallo Stato a favore dei cittadini. Alcuni di essi hanno precisamente la funzione di realizzare l'uguaglianza sostanziale. Nei diritti di prestazione sono compresi l'educazione dei figli di genitori incapaci a darla, la protezione della famiglia, la tutela della salute, l'istruzione obbligatoria e gratuita per otto anni, il rendere possibile ai meritevoli di raggiungere i gradi più alti degli studi, la cura dell'elevazione dei lavoratori, la tutela del lavoro, l'assistenza sociale.
Questa assunzione di numerosi diritti di prestazione è un'innovazione importante, che si può inquadrare nello svolgimento delle forme di Stato contemporanee; essa "si effettua nel senso dell'accrescimento quantitativo delle pretese attribuite al cittadino nei confronti delle pubbliche autorità, e nel senso della più intensa protezione giuridica per prevenirne e reprimerne le infrazioni".
Il passaggio dallo Stato moderno, fondato sull'uguaglianza e sulla libertà intese in senso individualistico e liberale (uguaglianza intesa come eliminazione dei privilegi giuridici, non però dei privilegi di fatto - libertà intesa come massima libertà di azione dell'individuo), allo Stato contemporaneo o Stato solidarista, operato attraverso l'associazionismo operaio e l'ampliamento della classe politica, non rinnega il principio liberale che lo Stato è in funzione dell'individuo; ma si basa sul principio "che il singolo non può dare un compiuto svolgimento alla sua personalità se non in quanto siano realizzati certi presupposti consistenti da una parte nella pienezza di vita dei gruppi sociali nell'ambito dei quali l'individuo riesce ad acquistare sperimentalmente la coscienza della solidarietà, dall'altra nell'eliminazione degli ostacoli che la natura e la società oppongono alla partecipazione del singolo alla vita sociale in condizioni di libertà e di uguaglianza".
Per l'eliminazione di questi ostacoli deve intervenire lo Stato, ma questo intervento "non solo non conduce al rigetto del sistema di garanzie a tutela delle libertà riconosciute, anzi, comporta la loro intensificazione, così che ai più ampi interventi dello Stato nella sfera privata corrisponda da una parte una più intensa partecipazione di tutti i cittadini alla deliberazione dei provvedimenti attraverso cui gli interventi stessi si realizzano, dall'altra una più perfezionata tutela, oltre che della legalità nell'emanazione ed esecuzione dei provvedimenti stessi, anche del rispetto dei limiti posti dalla Costituzione all'azione statale".
Dall'esame dell'articolo 3 della Costituzione e dall'affermazione del principio di uguaglianza deriva la considerazione sui diritti sociali. La dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 10 dicembre 1948, approvata dall'assemblea delle Nazioni Unite, parla all'art. 22 di "diritti economici, sociali e culturali" e proclama quindi i diritti al lavoro..., il diritto all'istruzione, alla partecipazione alla vita culturale e il diritto d'autore.
La Costituzione italiana include nella prima parte, sui diritti e doveri dei cittadini, i titoli terzo e quarto, denominati rispettivamente dei rapporti etico-sociali e dei rapporti economici, contenenti le disposizioni ai diritti della famiglia, alla protezione della gioventù, ala diritto all'istruzione, alla protezione del lavoro... Fa parte invece dei diritti fondamentali il riconoscimento del diritto al lavoro.
Caratteristica dello stato di diritto così come esso nasce ai principi del sec. XIX non è già l'assenza di una funzione sociale, bensì che questa funzione, anziché come manifestazione di un potere pubblico meramente discrezionale - come avveniva nei regimi di dispotismo illuminato - sia considerata e si svolga come oggetto di un diritto dei cittadini, derivante dalla loro fondamentale uguaglianza. Posto infatti il principio che i cittadini sono uguali nei diritti, essi debbono poter partecipare ugualmente ai vantaggi che offre loro la società, ed è compito dello Stato far sì che questo loro diritto sia rispettato, evitando che i più forti opprimano i più deboli e che la disuguaglianza di fatto distrugga l'uguaglianza giuridica. Concetto che si ritrova durante la Convenzione del 1793, ove l'espressione "diritti sociali" è usata per la prima volta nel senso moderno e ove è detto che i diritti sociali civili rappresentano la parte che spetta a ciascuno nel conferimento delle risorse individuali in società e si considerano tali fra gli altri i diritti all'istruzione, all'assistenza e al lavoro in caso di bisogno.
La derivazione dei diritti sociali dal principio di uguaglianza è chiaramente espressa dalla Costituzione italiana la quale afferma (art. 3 comma 2): "E' compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese".
Ciò implica che l'azione sociale dello Stato abbia come scopo non l'attuazione dell'uguaglianza di fatto, ma dell'uguaglianza giuridica, cioè dell'egual possibilità per tutti i consociati di godere di quei diritti fondamentali che la Costituzione considera connessi con il pieno sviluppo della persona umana (art. 2).
Occorre notare che non sempre l'esecuzione delle prestazioni costituenti il contenuto dei diritti sociali incombe direttamente sullo stato; specie in economia a base privata, come la nostra, lo Stato adempie al suo obbligo di garantire ai lavoratori certi diritti sociali come il diritto al giusto salario, alle ferie, al riposo, costringendo con le sue leggi i datori di lavoro alle prestazioni o ai comportamenti corrispondenti. Ne deriva che solo impropriamente in questi casi si può parlare di diritti a un'azione positiva da parte dello Stato, non esistendo in realtà un diritto all'emanazione di leggi aventi un determinato contenuto; cosicché le pretese degli interessati potranno diventare azionabili verso lo Stato non in caso di inazione, ma solo in caso di azione legislativa contrastante con la Costituzione, per esempio in caso di decurtazione di salari oltre i minimi risultati dall'applicazione dei principi costituzionali, o di soppressione del diritto alle ferie.
Se le considerazioni ora esposte sono vere, ne deriva l'inesattezza dell'opinione che considera come sociali i diritti aventi per fine immediato e prevalente interessi collettivi e solo di riflesso individuali, e come diritti individuali quelli in cui tale rapporto si inverte; nonché dell'opinione connessa con questa, che il diritto sociale sia un diritto di gruppo e che la protezione da esso accordata ai singoli dipenda dalla loro appartenenza a certe collettività, in particolare a quella dei lavoratori.
Il rilievo dato dai diritti sociali all'appartenenza di coloro che ne sono soggetti a determinati gruppi, deriva dal presupposto che tale rilievo valga a identificare più esattamente le posizioni personali di essi e consenta quindi una migliore rispondenza delle singole norme alle esigenze di coloro che esse intendono proteggere. Si tratta cioè di un rilievo mirante a proteggere non il gruppo in sé, ma a cogliere il singolo nella sua concreta posizione individuale in seno alla società.
Le norme del diritto sociale si svolgono nell'ambito del diritto pubblico e producono nel loro complesso un incremento delle sfere di intervento dello Stato nella vita della società. Circa il problema del rapporto fra diritti sociali e diritti di libertà, va notato che i diritti sociali si distinguono nettamente dai tradizionali diritti di libertà perché mentre questi mirano a determinare una sfera entro cui l'individuo deve poter operare liberamente, quelli mirano invece ad ottenere l'intervento della autorità pubblica per soddisfare talune esigenze essenziali dei cittadini.
Fra le due categorie di diritti esiste un'implicazione reciproca: la garanzia dei diritti di libertà è condizione perché le prestazioni sociali dello Stato possano essere oggetto di diritti individuali; la garanzia dei diritti sociali è condizione per il buon funzionamento della democrazia, quindi per un effettivo godimento delle libertà civili e politiche.
Tuttavia è certo che l'attuazione di alcuni diritti sociali ha causato in fatto la limitazione di alcuni diritti di libertà. Così l'affermazione del diritto al lavoro ha prodotto drastiche limitazioni dei diritti di proprietà, di libertà dell'iniziativa economica privata...
Si possono individuare due tipi di costituzione: 1) marxista: dà il primato ai diritti sociali; 2) democrazia classica: pur accogliendo il principio sociale lo considera un mezzo per dare un contenuto concreto alla libertà e quindi enuncia e garantisce i diritti sociali, lasciando tuttavia intatti, nel loro nucleo sostanziale, i diritti di libertà e in particolare conservando carattere assoluto a quelli fra essi che non hanno un contenuto prevalentemente economico e che, pur avendolo, sono inscindibilmente connessi con la indipendenza e l'affermazione della personalità. Tali sono la libertà di culto, di espressione del pensiero, di studio, di scelta dell'occupazione.
Il nostro è uno Stato di democrazia classica, i cui ordinamenti sono improntati a questa esigenza di democraticità e si vanno progressivamente effettuando con istituti idonei a portare quella che è la scelta politica, sul piano pratico della necessità popolare. Nella previsione normativa, l'attribuzione al cittadino di diritti pubblici soggettivi e in particolare di diritti di libertà e politici, nonché il conferimento ad un parlamento di elezione totalmente o parzialmente popolare ed al governo, che ne è l'espressione, di un potere di determinazione della politica nazionale, fanno sì che l'attività statale debba svolgersi secondo gli indirizzi ad essa impressi dagli orientamenti popolari. In realtà, la partecipazione del cittadino alla direzione della cosa pubblica, anche se garantita dalla protezione giuridica, è spesso ostacolata da fattori di ordine economico-sociale. Si è perciò avvertita l'esigenza di conferire al cittadino un'altra serie di diritti, detti appunto economico-sociali, che rimuovano questi fattori d'inferiorità sociale; e contemporaneamente che l'azione statale non si limiti a garantire i rapporti inerenti a certi settori della vita sociale, ma vi intervenga direttamente quando giovi allo sviluppo della comunità. Quindi la formula "Stato sociale di diritto" è profondamente garantistica. Ammesso dunque che la democraticità di un ordinamento statale è garantita dall'effettività di partecipazione dei cittadini alla scelta dei fini ultimi dell'azione statale, tale effettività di partecipazione dei cittadini ai fini ultimi dell'azione statale, postula il verificarsi di due condizioni: sotto il profilo quantitativo ed esteriore, la totalità di partecipazione; sotto un profilo qualitativo ed interiore, invece, la libertà e la maturità di partecipazione, ossia l'idoneità di ogni cittadino a realizzare una scelta libera e cosciente fra le varie prospettive d'orientamento sottoposte al suo giudizio. Il Cuoco e il Dewey ritornano su questo punto che è fondamentale, quello cioè per cui l'intervento del cittadino nello stato o comunque l'opinione pubblica, non devono essere lasciati allo sbaraglio, sotto le impressioni date da casi isolati, dalla propaganda, dall'influenza che possono avere degli incidenti fortuiti, dalla stampa. E qui il dovere sociale che la stessa Costituzione italiana attribuisce allo Stato, nell'articolo 3 comma 2, ha ovviamente implicazioni di ordine culturale.
Infatti esiste una relazione logica fra democrazia e cultura. Una volta accettato che la democraticità dell'ordinamento si basa sulla partecipazione popolare e che essa deve avere i già detti caratteri, cioè la totalità, la maturità e la libertà, si capisce facilmente che non bastano più diritti economico-sociali, a garantire detta partecipazione, perché il fattore economico non è che un ostacolo esteriore.
Intervengono allora i diritti socio-culturali, i quali permettono la realizzazione della personalità del cittadino in tutta la sua pienezza e libertà; essi, su una base giuridica, tutelano la formazione culturale dell'individuo, in modo che egli, quando debba portare il suo contributo alla scelta dell'indirizzo dell'azione statale, abbia una possibilità di giudizio, non viziata da cause esteriore, ma del tutto consapevole dell'interesse comune, e non individuale o di classe. Ciò significa che le forme di regolazione giuridica dell'istruzione e dell'educazione come in genere ogni attività specificamente culturale sono in diretta correlazione con la forma democratica dello Stato. Quindi lo Stato democratico, quando ha assicurato la cultura e la libertà, finisce per poggiare su di essa direttamente, e, quindi, può definirsi democratico, in quanto si ponga come Stato di cultura. La formula "Stato di cultura" è stata adoperata in passato, ma poi fu abbandonata in quanto nel contesto sociale di allora gli impedimenti più vivamente sentiti e reali alla partecipazione allo Stato erano proprio di ordine economico. Oggi come oggi il processo di specificazione del valore contenutistico del concetto di democrazia, ne ripropone la validità, presentandola come qualifica ultima e necessaria dell'ordinamento democratico contemporaneo.
Bisogna ora chiarire il significato di tale formula che ha, tra le accezioni attestate da molti autori, quella giuridica che si sta esaminando. Si intende allora per stato di cultura una formula giuridico-costituzionale con cui si designa lo stato di democrazia classica allorché tuteli la propria democraticità anche tramite la garanzia degli istituti direttamente formativi della cultura. Quindi bisogna determinar ein concreto il contenuto di "Stato di cultura". Lo Stato di cultura è tale quando ponga alla base del suo ordinamento questi principi fondamentali:

  1. lo sviluppo della cultura, riconosciuta mezzo di una effettiva democratizzazione dello Stato;

  2. il principio della libertà culturale;

  3. deve inoltre creare degli istituti idonei a salvaguardare detta libertà garantendo l'esercizio dei diritti culturali ed il rispetto dei limiti dell'intervento dello Stato.

Che tali diritti siano soggettivi è giustificato dalla interrelazione democrazia-cultura, di cui si diceva: che siano pubblici è determinato dalla necessità di avere una certa forza qualora si dovessero fare valere nei confronti dello Stato. Tutte le forze sociali interessate devono potersi avvalere del processo di libera formazione della cultura. Bisogna poi che la titolarità dei diritti culturali sia attribuita a tutti indistintamente i soggetti. E' ammesso, anzi richiesto, l'intervento statale che ubbidisca però a determinate caratteristiche: esso non può fare un monopolio degli istituti formativi della cultura, né subordinare la cultura ad un indirizzo politico.
Nei rapporti fra politica e cultura, come nota il Bobbio, ci sono due posizioni estreme: quella della "cultura politicizzata" che ubbidisce cioè ad imposizioni che vengono dai politici, e quella della "cultura apolitica" staccata cioè dalla società e dai problemi che essa presenta. Fra questi due estremi si inserisce la "politica della cultura" che va intesa "come politica degli uomini di cultura in difesa delle condizioni di esistenza e di sviluppo della cultura". In quanto al terzo punto preso in esame, cioè quello delle garanzie che ad un tempo attuino i diritti culturali e limitino l'ingerenza statale, esse garanzie si possono porre sotto forme diverse, a seconda del contesto sociale dei vari Stati. Una soluzione al problema potrebbe essere la costituzionalizzazione degli istituti giuridici inerenti le materie prese in esame, portandoli così più al di sopra della stessa legislazione ordinaria. Un'altra, quella delle autonomie, dell'autogoverno degli istituti culturali, autonomia che prevede come base la libertà di insegnamento e di ricerca scientifica.
Questa soluzione presenta il vantaggio di mettersi del tutto fuori dall'influenza delle forze politiche di maggioranza. E' chiaro, tra l'altro, che la personalità di un individuo non si forma solo con gli istituti appositamente detti culturali, ma è anche data da quel collimare di apporti della stampa, del culto, della comunicazione televisiva, ed in genere della comunicazione sociale.
Dato questo, si potrebbe cadere nell'errore di considerare Stato di cultura qualsiasi forma di Stato, in quanto imbevuto in qualche misura del contributo di civiltà. Stato di cultura, nella formula che è stata elaborata, vuole solo indicare quel tipo di ordinamento che fin qui si è cercato di delineare e le cui parti si sono indagate.


III - APPUNTI DEL GRUPPO DI STUDIO SULL'UMANESIMO

A una scuola, soprattutto se di indirizzo umanistico, si chiede la capacità di fornire allo studente non solo una preparazione informativa buona e utile, ma una attitudine critica, cioè una generosa disponibilità a vivere ogni fatto culturale e la "potenza fondamentale di pensare di sapersi dirigere nella vita" (Antonio Gramsci).
Solo da una adeguata capacità percettiva dei valori infatti può derivare al singolo la possibilità di inserirsi nella società odierna, organizzata pluralisticamente, senza correre il rischio di integrarsi.
Infatti "questa società accentua il processo di mercificazione della vita e non apre l'orizzonte ad altro fine, se non l'accrescimento della produzione, il suo ideale umano è lo specialista efficiente e consumatore cospicuo che non ha una sua gamma di predilezioni differenziate, ma si adegua docilmente alle tendenze della produzione. Dunque accettare la realtà industriale significa diventare dei dipendenti, magari a proprio malgrado" (E. Zolla)
Per questo la personalità dell'uomo di cultura, dell'intellettuale, cioè di "chiunque abbia un'educazione che gli consenta di esprimere la sua personalità entro il suo particolare lavoro" (E. Zolla) deve acquistare un valore anche a funzione positivamente contestativa e provocatoria.
"Siamo dentro una società che chiede uomini bene inseriti che si riducono strettamente alla loro qualifica lavorativa e si incarica, semmai qualcosa di loro rimanesse fuori dall'orbita lavorativa, di schiacciarla con l'industria culturale. L'intellettuale diventa il vero nemico della società" (E. Zolla).
"Il modo di essere del nuovo intellettuale non può più consistere nell'eloquenza motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni ma nel mescolarsi alla vita pratica attivamente come costruttore, organizzatore, persuasore permanentemente perché non puro oratore e tuttavia superiore allo spirito astratto-matematico" (Antonio Gramsci).
In questo l'antico umanista "erudito uomo di gusto, poeta, nato come letterato, fuori di ogni partecipazione alla vita pubblica, vuoto di ogni coscienza religiosa o politica o morale, cortigiano, amante del quieto vivere e che alterna le ore tra gli studi e i lieti ozi" (F. De Sanctis) non può trovar posto nella situazione storico-sociale odierna perché "caratterizza gli umanisti la coscienza di uno stacco senza rimedio tra uomo di cultura e folla". Tuttavia sotto altri aspetti la figura dell'umanista classico può avere ancora una sua attualità.
E' dell'umanista l'esigenza di riscoprire a livello di studio filologico i valori dell'autentica cultura classica, liberandola da ogni sovrastruttura che ne avesse tradito lo spirito. Questo studio non è però fine a se stesso, è invece giustificato da una nuova ricerca intellettuale accompagnata dall'esigenza di uguagliare in importanza tutte le discipline, anche le scientifiche.
A questo punto è facile comprendere come l'aspetto più valido e positivo dell'intera corrente umanistica venga spesso tradito nella scuola, nell'ambiente stesso in cui si dovrebbe rinnovare e dove lo studio linguistico-filologico diventa uno sforzo erudito, uno studio sterile ed intellettualistico, lungi dall'essere il mezzo più diretto per accostarsi ai valori racchiusi nel messaggio dei classici, mentre l'interesse per le scienze viene volutamente sminuito d'importanza.
E' la scuola inoltre a non favorire fra lo studente e la tradizione un dialogo che sia però attualizzato, magari attraverso nuovi metodi di indagine come la psicologia o la sociologia e che riguardi problemi contingenti alla società moderna, preparando per esempio un futuro accostamento critico ai mezzi di comunicazione di massa come cinema, radio, televisione, stampa. Questo divario, questa mancanza di correlazione, fra la realtà e la materia di studio sono aggravati a volte anche dal metodo d'insegnamento e dai testi stessi che forniscono una pseudo-cultura perché cultura nozionistica ed acritica.
Dalla scuola ogni studente è chiamato a documentarsi su manuali di storia della letteratura, storia della filosofia ecc. ecc., privi spesso di una indagine approfondita sull'autore e privi comunque di un'utile interferenza da parte di ogni mezzo, atto all'interpretazione completa di un periodo o di un autore o di un problema, poiché la letteratura, per esempio, riflette in ogni momento e con un rapporto mobilissimo più linee culturali, influenzata com'è dalle condizioni psicologiche involontarie o volontarie dell'autore, dalle condizioni storiche e sociologiche dell'ambiente cui l'opera è destinata e da notevoli altri fattori.
Ma per salvarsi da un apprendimento nozionistico ed inutile, se non inteso come inevitabile fase di preparazione informativa, è necessaria, prima di tutto, una lettura il più possibile ampia al fine di venire a conoscenza senza mediazioni delle diverse espressioni della personalità dell'autore, una lettura quindi convalidata e non condizionata dalle precedenti notizie generali ed acritiche.
La difficoltà maggiore che si oppone alla necessità di conoscere ogni autore il più possibile in maniera approfondita e completa è la frammentarietà e il periodizzamento diverso dei vari argomenti e delle varie materie, per cui a fianco di un momento letterario, ad esempio, non si colloca quasi mai lo studio del periodo storico-artistico corrispondente, col pericolo di creare confusioni ed ancor peggio, di preparare studenti privi della necessaria mobilità intellettiva e culturalmente quasi sezionati.
Senza contare che in questo modo il liceo non rappresenta affatto una preparazione allo studio di livello universitario, come sforzo intellettuale teso verso la specializzazione e non più il dilettantismo, ma diventa un proseguimento degli studi generici ed informativi delle scuole inferiori; infatti "dall'insegnamento quasi puramente dogmatico in cui la memoria ha una gran parte si passa alla fase creativa o di lavoro autonomo ed indipendente, dalla scuola con disciplina di studio imposta e controllata autoritativamente si passa a una fase di studio o di lavoro professionale in cui l'autodisciplina intellettuale e l'autonomia morale è teoricamente illimitata" (A. Gramsci).
Negativo è pure uno studio che tocchi troppi argomenti e troppi problemi o un programma che riguardi autori minori e di scarso interesse attuale a scapito di quegli autori che possono con certezza essere considerati validi. Meglio piuttosto iniziare lo studente allo studio completo di un solo autore o di una sola opera senza ricorrere a testi antologici, generalmente incapaci di fornire una visione organica per lo meno di un aspetto della personalità dell'autore stesso e con un insufficiente approfondimento che porta lo studente o al completo disinteresse o a un lavoro extra-scolastico spesso aggiunto allo studio quotidiano.
A questo punto si inserisce inevitabilmente l'esigenza di ampliare e coltivare i propri interessi personali e di colmare le deficienze della scuola, pur al di fuori dell'ambito scolastico con una più larga disponibilità o meglio la possibilità di uno studio a tempo pieno.
Ciò presuppone d'altra parte che la scuola non si limiti a fornire migliorati metodi d'indagine, ma svolga un'azione di stimolo al confronto tra i valori che la persona avverte come propri e il dato culturale propostole. Solo a queste condizioni è pensabile una scuola a tempo pieno; infatti se la scuola non garantisse questo continuo confronto, lo studente si troverebbe di fronte ad una vasta gamma di esperienze culturali di cui non potrebbe dare una valutazione veramente espressiva della sua personalità.


IV - APPUNTI DEL GRUPPO DI STUDIO SULLA DIDATTICA

Abbiamo avuto modo di svolgere solo poche riunioni, terminate quando ci siamo accorti che il nostro finiva per diventare un  lavoro sterile; abbiamo tuttavia, se non messo a fuoco, accennato alcuni problemi di cui sarebbe forse stato assurdo cercare subito una soluzione, che tuttavia ci pareva necessario affrontare nel tentativo di raggiungere una consapevolezza, di fronte ad essi,  che ci avrebbe poi portato per lo meno ad alleviare quei problemi a livello di classe o di istituto. A questo proposito si è pensato ad alcune proposte che, inevitabilmente, non si sarebbero potute realizzare per il periodo, ormai avanzato, a cui l'anno scolastico era giunto. Le proposte erano fondamentalmente tre:

  1. la discussione dei voti assegnati durante le interrogazioni, intesa come spiegazione dei criteri di giudizio dell'insegnante e ricerca di un criterio il più possibile attendibile per la valutazione del comportamento dell'allievo;

  2. l'istituzione di un prescrutinio, cioè di uno scrutinio anteriore a quello ufficiale (per regolamento nessuno può essere presente nell'aula degli scrutini se non il Preside e i professori) in cui l'allievo partecipe, e quindi maggiormente responsabile del proprio studio, possa esporre le ragioni della sua resa o no resa, offrendo ai professori un valido contributo alla guida della sua stessa educazione;

  3. l'istituzione di un consiglio di classe formato da docenti e discenti, in cui poter assieme discutere lo svolgimento dei programmi nei vari trimestri e le eventuali aggiunte da apportare ai programmi stessi, derivate da un interesse comune degli allievi. A questo proposito si è spesso ribadita la necessità di lezioni di raccordo fra le varie materie.

Come già detto, queste proposte non sono ancora state presentate né al signor Preside né al consiglio dei professori per mancanza di tempo; ci riproponiamo comunque di portarle avanti nell'anno scolastico 1968-69.
A livello di studio già nella prima riunione si è formulata la linea da seguire nell'esame della didattica; ci si è perciò suddivisi nei seguenti sottogruppi:

  1. preparazione didattica dell'insegnante;

  2. lezione cattedratica;

  3. apprendimento passivo e studio della tecnica di gruppo;

  4. riesame del concetto di giudizio;

  5. sperimentazione didattica

E' stata sperimentata dal sottogruppo inerente la lezione cattedratica un'inchiesta che formulava alcune domande:
— che cosa intendi per lezione cattedratica?
— approvi o disapprovi la lezione "ex cathedra"? Proposte sull'argomento.
Su 1300 fogli distribuiti, quanti sono gli studenti del "Berchet" le risposte sono state 150, di cui la grande maggioranza denunziava come l'inchiesta non fosse stata presa sul serio e di cui una minima parte metteva in luce come il problema non fosse niente affatto chiaro agli occhi degli studenti.

Dopo tale breve lavoro iniziale, il nostro gruppo ha però interrotto le sue riunioni essendo sorte alcune perplessità sul metodo da seguire nel condurre innanzi il lavoro e sulla stessa opportunità di condurre tale lavoro in quel momento e in quelle condizioni: si constatava come le molte persone che avevano partecipato alle dimostrazioni dei mesi precedenti si fossero arrestate di fronte alla possibilità di uno studio di quei problemi che con tanto clamore erano stati presentati; era, quella dei gruppi di studio, un'esperienza nuova e dobbiamo dire di esserci trovati alquanto a disagio nel momento di impostare il lavoro su un argomento che non è certo tra i più facili a trattarsi; il numero dei partecipanti si era inoltre notevolmente ridotto e ci trovavamo così ad essere una piccola cerchia di ragazzi, un'elite di persone che discutevano su un argomento che pure avrebbe dovuto interessare moltissimo.
Tutto ciò ripropone, dal punto di vista del nostro gruppo, la necessità di creare una consapevolezza che si esprima non solo in momenti particolarmente emotivi, ma anche in un momento di ripensamento e di ricerca da condurre insieme.