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Liceo Berchet - Milano

Gli episodi più significativi dell'episcopato di Ambrogio

 

 

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Il concilio di Aquileia del 381

Il concilio di Aquileia va considerato la prima grande occasione per Ambrogio di affermare e dispiegare la sua influenza di vescovo. Agli osservatori moderni molti aspetti del suo comportamento durante questo sinodo potranno sembrare forse discutibili, ma prima di entrare in ciò occorre collocare questo evento nella cronologia dell'episcopato di Ambrogio. Abbiamo già detto sopra che Graziano venne manifestando un progressivo favore verso Ambrogio, poco tempo dopo la sua elezione a imperatore. Possiamo considerare il sinodo di Aquileia come il risultato più importante di tale favore.Una volta che la validità della fede nicena, cioè ortodossa, è stata accettata e condivisa dall'imperatore, ad Ambrogio pare opportuno agire contro i due massimi rappresentanti occidentali della variante omea (cioè moderata, come detto, e affermante la somiglianza e non la consostanzialità di Padre e Figlio) della fede ariana: Palladio di Ratiaria e Secondiano di Singidunum. E' molto probabile che Ambrogio e Graziano si siano accordati, nella primavera del 381, per dare a questo sinodo un carattere ristretto, e non ecumenico, come invece, dagli atti, Palladio si sarebbe aspettato. E' precisamente qui il dubbio che si affaccia agli osservatori moderni: nonostante le assicurazioni date dall'imperatore a Palladio circa la presenza al sinodo di molti vescovi orientali, Ambrogio forzò evidentemente la situazione per procedere ad un confronto dottrinale con la sola presenza dei vescovi occidentali da lui convocati, e tutti evidentemente favorevoli alla sua impostazione. Per i due accusati non fu possibile chiedere il rinvio della discussione ad un concilio più allargato. Ambrogio pretese che si procedesse al dibattito dottrinale che prese le forme di un quasi interrogatorio, e si concluse con la scomunica dei due vescovi omei. Essi ovviamente rifiutarono di affermare che il vero Figlio di Dio è vero Dio. Su questa base avvenne la condanna ufficiale del loro credo. Ha Ambrogio abusato della situazione, sfruttando il favore di Graziano ed il sostegno dei vescovi presenti, per ottenere un'affermazione del suo credo colorata però di una certa intolleranza? Non dimentichiamoci la incrollabile certezza di Ambrogio, che sarà alla base del suo comportamento nella citata lotta per la basilica Portiana: Imperator enim intra ecclesiam, non supra ecclesiam est "l'imperatore è nella chiesa, non sopra la chiesa" (Sermo contra Auxentium, 36). Solo ai vescovi dunque spetta il giudizio sugli altri vescovi: e ciò vale anche per Palladio, il quale si aspetta il sostegno non solo dei vescovi della sua parte, ma anche di altre componenti della società: quella laica e quella ebraica. Ciò è inammissibile agli occhi di Ambrogio, che valuta grande il pericolo di questa posizione. L'intransigenza in materia di fede è in Ambrogio assoluta, e lo spinge anche, come in questo caso, a qualche eccesso. Tanto più che in questo caso Ambrogio ha anche un'altra attenuante: nello stesso 381, due mesi prima, un importante concilio a Costantinopoli aveva definitivamente chiarito il ruolo dello Spirito Santo dentro la Trinità: esso "è Signore e dà la vita... ed è adorato e glorificato con il Padre e con il Figlio"; una potentissima affermazione di ortodossia nicena che veniva anche dall'Oriente, per non parlare poi del già ricordato editto di Teodosio, del 380, reiterato l'anno seguente. Ambrogio dunque vuole attaccare in Palladio soprattutto la sua volontà di portare la discussione dottrinale all'esterno delle sedi sinodali, che sono le uniche pertinenti.

 

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Una ricostruzione di Costantinopoli

 

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La vicenda dell'altare della vittoria e la lotta con Simmaco

Facciamo ora un passo avanti di circa tre anni, e occupiamoci della vicenda dell'Altare della vittoria. Questo episodio va collocato immediatamente dopo la morte di Graziano, nel momento in cui la posizione di Valentiniano II e di Giustina rischiano, come abbiamo visto, di danneggiare notevolmente l'opera del vescovo. Graziano, secondo alcuni non per pressione di Ambrogio, aveva nel 382 dato ordine di rimuovere la statua della vittoria, che era divenuta il simbolo del legame del senato (ancora prevalentemente pagano) alle tradizioni del mos maiorum. Questa statua (assieme all'altare) venne già rimossa da Costanzo II nel 357, poi ricollocata com'è da aspettarsi da Giuliano l'Apostata, ed infine, rispettata da Valentiniano I, nuovamente rimossa da Graziano, nel quadro dei provvedimenti antipagani di questo imperatore (che aveva fra l'altro anche rifiutato il titolo di pontifex maximus). Ora, alla sua morte, pare ai senatori, capeggiati da Quinto Aurelio Simmaco, di nobile famiglia senatoria e famoso allora per la sua eloquenza, giunto il momento per una delegazione a Valentiniano II che gli chiedesse il ricollocamento dell'altare e della statua nella curia Iulia, quel luogo in cui essa aveva simboleggiato la protezione della dea Vittoria sul popolo romano e garantito per tre secoli ormai la sua salvezza. La prima collocazione nella curia (il luogo in cui si riuniva il senato) risaliva infatti niente meno che ad Ottaviano Augusto, che con la statua e l'altare aveva inteso ringraziare la divinità della sua vittoria contro Antonio. Com'è facile capire, l'episodio dà luogo ad un vero e proprio confronto della tradizione romana, ormai però quasi esanime, contro la nascente forza dell'impero cristiano. Ambrogio colse la portata di questo scontro, e, quando i senatori fecero pervenire a Valentiniano II un Esposto, ritenne di dover intervenire di persona. Noi conosciamo i dettagli di tutta la vicenda dalla Lettera 72 dell'Epistolario di Ambrogio. Essa si concluse con la vittoria del vescovo, anche se forse di stretta misura. Valentiniano II e la corte temevano che Massimo potesse adombrarsi per l'insistenza su questo particolare, e pertanto ritennero opportuno negare a Simmaco il permesso di rimettere la statua nella curia. Noi non possiamo seguire qui gli argomenti dei due competitori, ma dobbiamo limitarci a trarre le conseguenze da essi: Ambrogio non attacca la tradizione romana in quanto tale, ma è tanto legato ad essa, quanto Simmaco (non a caso i due competitori si conoscevano). Anche Ambrogio vuole affermare la sua piena fedeltà alla tradizione militare, politica e civile di Roma: il problema è caso mai di non legare quella tradizione anche alla religione tradizionale, aprendosi a considerare la religione cristiana come un miglioramento, un naturale progresso, disposto dall'illimitata mente divina, delle cose del mondo. Molto bello ed illuminante a questo proposito l'affermazione di Ambrogio:

"...Anche i primi passi del mondo, come quelli di tutte le cose, furono vacillanti, perché seguisse la veneranda vecchiaia di una fede sperimentata" (Lettera 73 a Valentiniano II, 7).

Nel pensiero ambrosiano, dunque, il cristianesimo comporta non affatto una rottura, ma invece continuità e perfezionamento della tradizione dei padri: con l'avvento della vera religione trova compimento quell'attesa di miglioramento che Roma attendeva fin dalle sue origini. Ambrogio si presenta come potente conciliatore della romanità più autentica con la nuova linfa morale e civile della migliore tradizione cristiana. E questo è sicuramente uno degli aspetti più stimolanti della sua figura.

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Le inventiones (ritrovamenti) delle reliquie dei martiri

 

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Sant'ambrogio in cattedra tra i santi Gervaso, Satiro, Marcellina e Protaso in un dipinto del Bergognone

 

Ambrogio consacrò molto tempo della sua azione pastorale al ritrovamento e alla traslazione dei resti umani dei martiri. In ordine di tempo segnaliamo: il rinvenimento dei resti di Protaso e Gervaso, nel 386, poco dopo il termine vittorioso della lotta contro la corte; la partecipazione di Ambrogio al ritrovamento dei martiri Vitale e Agricola a Bologna nel 393, alla presenza del vescovo di quella città, Eustazio; il ritrovamento delle spoglie dei martiri Nazaro e Celso, a Milano nel 395. Per il primo episodio, possediamo la testimonianza diretta di Ambrogio in un'epistola alla sorella Marcellina (Lettera 77). La cosa piuttosto sorprendente per noi moderni è come mai Ambrogio abbia avuto l'idea di far scavare proprio di fronte alla basilica di Felice e Nàbore: comunque subito vengono trovati due uomini "di straordinaria statura", come racconta egli stesso, con evidenti segni di morte violenta (il capo staccato dal collo). Ambrogio identificò in questi due scheletri le persone di Gervaso e Protaso: nè infatti noi abbiamo testimonianze della storicità di queste due figure. E' problematico anche sapere come mai poté il vescovo procedere all'identificazione: forse trovò cartigli accanto ai cadaveri. In ogni caso bisogna anche considerare che qui egli è animato dalla necessità di dare conforto ed unità alla sua chiesa così scossa dalle penose lotte appena conclusesi. Inoltre i santi Felice e Nàbore non erano milanesi, e Milano fino a quel momento non aveva trovato martiri propri, nonostante che i vecchi potessero ancora ricordare le uccisioni perpetrate da Diocleziano all'inizio del IV° secolo. I detrattori e gli avversari ariani subito parlarono di falsità e di opportunismo di quel ritrovamento, che conferiva nuovamente al vescovo, dopo gli attacchi così violenti, un riconoscimento molto forte e una partecipazione sentita del popolo. Ma tutto l'episodio non fa che sancire ancora una volta la grandezza dell'episcopato di Ambrogio, se è vero che egli seppe orientare gli effetti dei ritrovamenti dei martiri a favore della solidità e della coesione della sua comunità di fedeli, fino ad ottenere la sconfitta più radicale della componente ariana cittadina. La partecipazione di Ambrogio al ritrovamento di altri martiri, anche estranei alla sua città, si spiega poi col grandissimo valore del martirio nella concezione ambrosiana: i martiri sono i più diretti continuatori dell'opera del Cristo, e sono i primi fra i fedeli quali custodi perfetti della fede: con la loro dedizione totale essi richiamano direttamente l'amore sommo che caratterizzò la passione e la vita di Gesù in terra, e sono anche molto vicini alle vergini sacre, che dedicano se stesse totalmente a Cristo come egli dedicò se stesso e con totalità al Padre.

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L'incontro con Sant'Agostino e il suo battesimo

Uno dei momenti più stimolanti per lo studio dei padri della Chiesa è l'incontro che avvenne in Milano a partire dal 384 fra Sant'Agostino e Ambrogio vescovo. Le circostanze di quell'incontro sono tali da far pensare al compirsi di un avvenimento provvidenziale. Agostino fu nominato infatti alla cattedra di retorica in Milano proprio da quel Simmaco che abbiamo visto essere stato il protagonista di un duro scontro con Ambrogio stesso. Forse proprio un dispetto a lui fu la decisione di nominare a quella cattedra un personaggio per nulla cattolico, anzi un intellettuale profondamente travagliato da una crisi interiore che la sua vicinanza con gli ambienti africani manichei non era valsa a risolvere. Senza saperlo, Simmaco creò le premesse per una delle più grandi affermazioni del cristianesimo imperiale: la conversione definitiva ed il battesimo di Agostino. La cosa stimolante della vicenda è proprio che Agostino stesso ci parla ampiamente di Ambrogio e della comunità ecclesiale milanese in molti luoghi delle sue Confessioni, così da offrirci una testimonianza eccezionale anche su di Ambrogio stesso. Tuttavia sarebbe errato credere che il rapporto fra i due grandi personaggi sia stato fin dall'inizio intenso e confidenziale: troppo diversi erano per temperamento, ed anche, va detto, per estrazione sociale; Ambrogio era di nascita un nobile romano, Agostino proveniva da una provincia come l'Africa, ed era di origini berbere: Ambrogio era maggiore di lui di molto, e per di più ormai vescovo della capitale occidentale dell'impero da dieci anni, mentre Agostino era un professore dall'avvenire promettente, ma ancora incompiuto. Soprattutto, però, le differenze andranno cercate nei temperamenti: Agostino era un uomo di pensiero, tendente alla speculazione, capace di divagazioni e di astrazioni intellettuali che erano poco vicine al grande spirito pratico, alla vita tutta d'azione del vescovo. Infatti i loro primi incontri non furono basati su una intensa e particolare comunicazione, né Ambrogio aveva tempo, o forse intenzione (cfr. Agost., Conf., VI, 3 sgg.), di occuparsi in modo personale della catechesi di questo nuovo personaggio. Soprattutto egli non vuole entrare nel merito delle complicate questioni personali che travagliano la coscienza di Agostino in questo momento della sua vita. Agostino aveva bisogno di un personaggio che gli dedicasse molto del suo tempo e della sua attenzione, che gli offrisse gli stimoli adeguati, sul piano intellettuale, per la ricerca di una via alla risoluzione dei problemi morali che lo travagliavano.

 

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Vittore Carpaccio, Sant'Agostino nello studio, particolare, ca. 1502

 

Tale personaggio fu Simpliciano (l'anziano presbitero che a suo tempo si era occupato della catechesi del giovane Ambrogio giunto a Milano, e non ancora abbastanza pronto per l'alto compito dell'episcopato). Ma allora perché Agostino è il primo a sottolineare la enorme influenza che Ambrogio ebbe sulla sua conversione? La risposta può essere cercata interrogando il suo racconto, e cercando di immaginare le sue esperienze del soggiorno milanese: egli fu sicuramente a stretto contatto con la vita della diocesi, ne osservò la ricchezza spirituale, le variegature anche intellettuali, e soprattutto fu coinvolto dall'autentico spirito cristiano di quella comunità: e se è vero che Agostino non parlò molto al vescovo personalmente e confidenzialmente, pure egli lo incontrò nei momenti di predica, assistette al suo incessabile insegnamento morale dal pulpito e nelle omelie, partecipò assieme ai fedeli ai momenti di spasmodica tensione della lotta contro la corte nel 386. Un ponte verso il vescovo fu poi sicuramente la madre Monica, che lo raggiunse a Milano dall'estate del 385, e subito partecipò con fervore alla vita comunitaria della chiesa ambrosiana. Il vescovo ne fu molto colpito, e ciò contribuì ad un avvicinamento a lui. Progressivamente la pienezza e l'intensità di questa vita ecclesiale fecero su di lui il benefico effetto di un coinvolgimento profondo e totale, quasi un contagio che nell'anima sua, già predisposta alla verità, non esitò ad attecchire. La parola del vescovo era certamente potente, carica di quell'intensità anche dottrinale che apparve ad Agostino degna di attenzione e meditazione sul piano intellettuale. Tutte queste esperienze maturarono in lui la decisione di lasciare l'insegnamento, e di ritirarsi in meditazione presso Cassiciacum (località corrispondente forse a Casciago, o più probabilmente a Cassago, in Brianza). Qui con un gruppo di amici legati forse al quel circolo neo-platonico che Agostino aveva conosciuto a Milano si venne compiendo la conversione: le radici platoniche e neo-platoniche del pensiero agostiniano lo portano alla concezione del cristianesimo come naturale sbocco che era a quelle filosofie precluso. Agostino fece pertanto richiesta al vescovo di essere iscritto nei competentes, ossia quelle persone "pronte" al momento iniziatico del battesimo: una morte simbolica, preludio alla rinascita nella vita nuova illuminata dalla fede. La catechesi in preparazione al battesimo era lunga e complessa, e andava dal giorno dell'epifania fino alla notte di Pasqua, in cui veniva celebrato il rito. La notte di Pasqua del 387, avvenne il battesimo di S. Agostino per mano di S. Ambrogio, presumibilmente nel battistero di San Giovanni alle fonti. Se ritorniamo alle caratteristiche del battesimo nel IV° sec., dovremo ricordare che il fonte battesimale stesso doveva assomigliare a una tomba, in cui il battezzando veniva immerso (baptìzo in greco vuole appunto dire "immergo") e come affogato dall'acqua, da cui riemergeva risorto e rigenerato alla nuova vita. Un altro momento importante della preparazione era la consegna del credo al battezzando la domenica delle palme: il "simbolo", definito "sigillo spirituale", la meditazione che culmina nella professione di fede, il tesoro che ogni fedele deve custodire in segreto nel proprio petto: è fatto divieto di trascrivere il credo, che in seguito dovrà essere restituito, ma esso va imparato a memoria. Vorremmo concludere con le parole di Agostino stesso, che si riferiscono ai giorni immediatamente seguenti al battesimo:

"In quei giorni non mi saziavo di considerare con mirabile dolcezza i tuoi profondi disegni sulla salute del genere umano. Quante lacrime versate ascoltando gli accenti dei tuoi inni e cantici, che risuonavano dolcemente nella tua Chiesa! Una commozione violenta: quegli accenti fluivano nelle mie orecchie e distillavano nel mio cuore la verità, eccitandovi un caldo sentimento di pietà. Le lacrime che scorrevano mi facevano bene" (Confess., IX, 6, 14).

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Nella tarda primavera del 390 si era verificato un fatto che aveva turbato l'opinione pubblica del mondo romano. Il capo delle truppe barbare di stanza a Tessalonica, capitale della provincia di Macedonia, era stato trucidato dalla folla irata, perché‚ aveva dato ordine di arrestare un fantino del circo, reo di aver trasgredito un editto dell'imperatore. Il popolo si rifiutò di essere privato del suo idolo. Allora Teodosio, in un momento di ira ordinò una atroce rappresaglia. Il popolo fu radunato nel circo come per assistere a uno spettacolo, ma vi fecero irruzione delle truppe armate, che iniziarono una spaventosa carneficina: vi furono migliaia di morti, nonostante il contrordine dell'imperatore, che arrivò troppo tardi. La notizia, presto diffusasi, suscitò ovunque sdegno. Anche riguardo lo svolgimento dei fatti stessi esistono, naturalmente, diverse versioni. Ambrogio si deve allora far interprete dell'umanità tutta, e, non potendo ammettere che la comunità ecclesiale assolvesse un simile comportamento dell'imperatore, e nello stesso tempo non volendo assumere un atteggiamento troppo rigido, decise di non intervenire pubblicamente, ma di lasciare la città per evitare di incontrarlo al suo rientro. Però, e questa è la cosa più importante per noi, gli scrisse una importante e riservatissima lettera, con cui lo voleva preparare all'inevitabile richiamo. In tale lettera Ambrogio dispiega le sue grandi doti di mediatore, di abilissimo politico, rivelandosi innanzitutto animato da una grande sensibilità pastorale nei confronti dell'imperatore stesso. Oltre che in questa lettera, che restò fuori collezione, e dunque fu conosciuta solo nel IX sec., tutto l'episodio ci è stato tramandato da Teodoreto di Ciro, nel V sec. d.C. e anche da Rufino, nella sua storia della chiesa. Abbiamo anche un ricordo di Ambrogio stesso nel De obitu Theodosii. Teodoreto ci presenta l'episodio con evidenti forzature a tutto favore di Ambrogio, mentre per una corretta interpretazione e valutazione storica della vicenda, sono molto più significative le testimonianze dello stesso Ambrogio. Naturalmente questo episodio costituisce un importante esempio della concezione dei rapporti tra stato e chiesa. Ambrogio chiede all'imperatore, come a un qualunque fedele incorso in un grave peccato, il pentimento e la penitenza. La lettera di cui abbiamo detto costituì indubbiamente un primo passo del vescovo, nell'indicare al penitente la via da seguire: non avveniva sempre in questo modo, ma data la posizione del penitente in questa occasione, si comprende bene la delicatezza e la cautela con cui il vescovo agì. Tuttavia, anche in questa vicenda, egli diede prova di straordinaria coerenza, esigendo l'atto di sottomissione dell'imperatore alla chiesa in campo spirituale, e riservandosi con fermezza il diritto di esprimere quei giudizi morali che il suo ministero gli imponeva a tutti i membri della sua chiesa, anche se si trattava di un "cristianissimo imperatore". Un evento come la pubblica penitenza di un imperatore è del tutto nuovo e innovativo della prassi imperiale del tempo: soprattutto inconcepibile nell'ottica ariana, e nella concezione ancora assai vicina dell'imperatore come "divus", cioè personaggio divino egli stesso.

 

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Bibliografia