L'ERA TRUDEAU
All'inizio degli anni Sessanta il paese fu attraversato da un'ondata di contestazione, soprattutto giovanile, e radicali critiche da parte di intellettuali e artisti anglofoni attaccarono i simboli del potere economico e culturale statunitense. Un problema ancora più serio provenne dalla rinascita del nazionalismo franco-canadese. Alle elezioni del 1963 il partito conservatore di John Diefenbaker fu sconfitto dai liberali capeggiati da Lester Pearson. Le elezioni del 1968 furono vinte dai liberali guidati da Pierre Elliott Trudeau, il cui governo favorì l'immigrazione dall'Asia e dalle Americhe centrale e latina; nei quindici anni dell'era Trudeau il paese divenne una società multietnica. Il governo riservò consistenti aiuti alle fasce più povere della popolazione e adottò provvedimenti in tema di occupazione, assistenza sanitaria, sostegno della spesa pubblica, per estendere il Welfare State. Obiettivi fondamentali di Trudeau furono il mantenimento del bilinguismo e dell'unità nazionale: egli non esitò ad applicare la legge marziale, nel 1970, per ristabilire l'ordine in Québec, dopo che il Front de libération du Québec (FLQ) aveva sequestrato un ministro (Pierre Laporte, in seguito ucciso dai separatisti) e un diplomatico britannico. Un grave colpo venne inflitto al governo federale dalla vittoria del Parti Québécois, a Québec, nel 1976, e dalla conseguente approvazione di una legge provinciale che diede la preminenza all'uso della lingua francese. Nel 1980 un primo referendum respinse la proposta di René Lévesque, leader dei separatisti del Québec, di "sovranità-associazione", cioè sovranità politica in un quadro di collaborazione economica. Trudeau si dimostrò inoltre in grado di ottenere il consenso delle province anglofone sulla nuova Costituzione che fu approvata nel 1982. La nuova Costituzione non venne però approvata dal Québec; i governi provinciali, soprattutto nelle regioni occidentali, furono contrari alle ambizioni di centralismo di Ottawa e le scelte economiche del governo centrale suscitarono le critiche degli imprenditori.
L'INTERMEZZO CONSERVATORE
Dopo il ritiro di Trudeau, nel giugno del 1984, i conservatori, sotto la guida di Brian Mulroney, si insediarono al potere. Il governo cercò di ridurre i disavanzi, tagliò le spese sociali e quelle destinate alla cultura, privatizzò le imprese di stato. Il cambiamento più drastico fu compiuto nel 1988, con la firma dell'accordo di libero scambio tra Mulroney e il presidente statunitense Ronald Reagan. Queste misure non riuscirono a evitare un periodo di crisi economica e di aumento della disoccupazione. Nel 1992 il Canada sottoscrisse con gli Stati Uniti e con il Messico un nuovo accordo economico (NAFTA). Ma il problema che il Canada si trovò ad affrontare nell'ultimo decennio del secolo fu ancora quello relativo ai movimenti separatisti. Nel 1987 i leader nazionali e provinciali del Québec approvarono una serie di emendamenti costituzionali atti al riconoscimento della provincia come "società distinta" nell'ambito della confederazione canadese. I negoziati con il governo portarono all'accordo di Charlottetown che soddisfece le richieste del Québec, ma non venne approvato dal nuovo referendum nazionale del 1992 (l'accordo fu respinto anche nel Québec). Fu approvato invece un accordo per la costituzione di un territorio autogovernato dagli inuit, il Nunavut ("nostra terra" nella lingua degli inuit, l’inuktitut).
TENSIONI SEPARATISTE
Nel febbraio del 1993 Mulroney diede le dimissioni; alle elezioni di ottobre i liberali conquistarono 177 seggi al Parlamento, mentre i conservatori scesero da 154 seggi a 2, nella più clamorosa sconfitta di un partito governativo in tutta la storia del Canada. Jean Chrétien, leader del Partito liberale, assunse la guida del governo. Il Bloc Québécois dell'indipendentista Lucien Bouchard divenne il secondo partito e la reale opposizione nel Parlamento nazionale. Nel 1994 le elezioni legislative nel Québec diedero la maggioranza al Parti Québécois. Il leader Jacques Parizeau chiamò ancora il Québec a un referendum, che si svolse nell'ottobre del 1995 e vide prevalere di strettissima misura (l'1%) i voti contrari all'indipendenza. La sconfitta degli indipendentisti, per la quale si era speso personalmente il premier Jean Chrétien, causò non solo le dimissioni di Parizeau, ma anche un ulteriore deterioramento delle relazioni tra francofoni e anglofoni . Le elezioni legislative del 1997 videro una nuova affermazione del Partito liberale, rimasto l'unico partito a essere rappresentato omogeneamente su tutto il territorio della federazione. Nel Québec gli indipendentisti del Bloc ottennero un buon risultato, ma lontano da quello raggiunto nel 1994 a causa della perdita di voti a favore della formazione moderata del Nuovo partito democratico. Il contrasto tra anglofoni e francofoni fu alimentato dalla richiesta del Partito riformatore di porre fine al bilinguismo e al multiculturalismo e di fare del Québec una provincia come le altre. La questione del Quebéc continuò pertanto ad agitare la vita politica del paese. Lo stesso governo federale si divise tra chi sosteneva una graduale riforma per concedere al Québec una più ampia autonomia e chi invece era favorevole a fronteggiare i separatisti con una posizione intransigente, che esponeva però al rischio di incoraggiare i sostenitori dell'espulsione del Québec francofono dalla federazione. Nell'estate 1998 sulla questione intervenne la Corte suprema del Canada; la sentenza della Corte, pur non riconoscendo al Québec, sulla base del diritto nazionale e internazionale, il diritto alla proclamazione unilaterale dell’indipendenza, prendeva tuttavia atto della diffusa adesione al progetto secessionista nella provincia e stabiliva un “obbligo costituzionale al negoziato” tra tutte le entità della federazione. Riconoscendo in linea di principio la legittimità di una secessione (qualora fosse stata scelta da una maggioranza qualificata attraverso un quesito chiaro e inequivocabile), la Corte sollecitava tuttavia le varie province canadesi a una riforma della federazione che consentisse il trasferimento di maggiori poteri ai parlamenti locali, scongiurando il rischio della separazione. Accogliendo la sollecitazione della Corte suprema, la Camera dei comuni adottò una linea ambigua; infatti, la legge approvata nel marzo 2000, se da un lato riconosceva al Québec il diritto di separarsi dal resto della federazione attraverso un referendum, dall’altro, stabilendo una serie di ostacoli istituzionali praticamente inaggirabili, rendeva la secessione di fatto impossibile. La decisione del Parlamento federale fu criticata non solo dai separatisti, ma anche da molti esponenti della comunità anglofona e della stessa maggioranza di governo, che la giudicarono insoddisfacente e antidemocratica.