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Un confronto tra le rivoluzioni del '48
Volendo fare un confronto tra le rivoluzioni europee del '48, quelle in Francia, nell'area tedesca, nell'Impero Asburgico ed in Italia, dobbiamo anzitutto premettere che fra di loro vi furono numerosi elementi di differenza, ma anche numerosi elementi in comune. Vediamo prima questi ultimi.
Tutte le rivoluzioni del Quarantotto, nessuna esclusa, furono nell'immediato un fallimento completo: il criterio per valutare il successo o l'insuccesso di una rivoluzione è, molto semplicemente, il suo riuscire a cambiare il regime politico vigente, e nessuno dei regimi instaurati dalle rivoluzioni del 1848 nei diversi paesi d'Europa rimase in piedi, esclusi lo Stato federale svizzero ed il regno costituzionale del Piemonte, tenendo inoltre presente che anche per quest'ultimo si potrebbe parlare di fallimento, dato che la spinta rivoluzionaria aveva inizialmente prodotto un regno d'Alta Italia, poi andato distrutto a Custoza e a Novara, e che lo stato svizzero era già virtualmente fatto prima della rivoluzione.
Un fallimento completo, dunque, le cui cause sono molte e non tutte facilmente individuabili: la principale fu, citando il Salvatorelli, "la mancanza nell'esperimento rivoluzionario di una forza materiale sufficiente". In tutti i paesi, infatti, la rivoluzione, dopo aver vinto, si era mantenuta al potere senza sovvertire completamente l'ancien régime, ma limitandosi ad eliminarlo temporaneamente; essa si fermò ovunque a metà, senza rinnovare le strutture di governo né sostituire le caste dirigenti, e fu una rivoluzione moderata perché moderati furono coloro che ne presero la direzione, che nel momento dell'azione accentuarono ulteriormente la loro moderazione, per timore di sconvolgimenti eccessivi, che avrebbero messo in pericolo la sopravvivenza stessa dell'idea liberale: per evitare di andare troppo in là, preferirono rimanere troppo in qua, preoccupandosi soprattutto di mantenere i legami con il passato piuttosto che di preparare il futuro.
Tutte le rivoluzioni furono essenzialmente un movimento di opinione pubblica, il più grande come estensione, intensità e rapidità di sviluppo che si sia mai visto in tutta la storia: l'opinione pubblica, disarmata, "fece piegare la forza, ringuainare le sciabole, chiudere i soldati in caserma, e anzi armare i ribelli da parte di tutti i governi".
Perché la rivoluzione potesse restare stabilmente al potere, era però necessario che la forza, bloccata nella parte vinta, passasse a quella vincitrice, ma per ottenere questo, sarebbe stato necessario che il fronte rivoluzionario rimanesse unico e compatto, mentre invece presto si divise, con la sua ala moderata che si accordò con la controrivoluzione, e la sua ala estremista che trasformò il movimento di opinione in moto di piazza, che diveniva però espressione di minoranze, non di tutto il popolo.
I nuovi conservatori, cioè sia gli uomini dell'ancien régime sia i rivoluzionari moderati, che volevano mantenere alcune conquiste della rivoluzione, dimostrarono di saper reagire a questi moti, che mettevano in pericolo i diritti acquisiti, infastidivano e mettevano paura, una paura però non sufficiente a far cedere, ma pienamente in grado di provocare una reazione energica, rappresentata in pieno dal motto "Gegen Demokraten helfen nur Soldaten" ("Contro i democratici servono solo i soldati"), che corse in Germania dopo le insurrezioni del settembre '48, e dall'entusiasmo dei borghesi parigini acclamanti Cavaignac e Lamoricière dopo le giornate di giugno.
La paura del socialismo e del comunismo è oramai comunemente identificata come uno dei motivi principali della rottura del fronte rivoluzionario, insieme alla incapacità della borghesia di trasformare la sua mentalità liberistica per realizzare un minimo di politica sociale, che sarebbe probabilmente bastato per conciliarsi il proletariato, non ancora dominato dalla idea marxistica della lotta di classe, che era stata allora appena enunciata. Vogliamo però sottolineare lo strettissimo intreccio esistente tra la paura della democrazia politica e quella della democrazia sociale, per cui la prima veniva respinta soprattutto perché considerata battistrada della seconda.
I rivoluzionari di sinistra, inoltre, non seppero né portare fino in fondo la rivoluzione, né delineare un programma preciso in grado di fare breccia nella opinione pubblica non conservatrice a priori, e giunsero, dopo essere insorti in nome del suffragio universale e del diritto della maggioranza, a passare l'uno sopra l'altro, procedendo per colpi di mano.
Il fallimento della rivoluzione europea non si spiega però se non esaminando l'influenza del fattore nazionale con quello politico, poiché la rivoluzione del '48 non fu solo una rivoluzione di libertà e democrazia, ma anche una rivoluzione di nazionalità: la nazionalità, che in un primo momento era fusa con la libertà e la democrazia, finì poi per ucciderle entrambe, facendo trionfare gli autoritarismi e scagliando i popoli gli uni contro gli altri a tutto vantaggio dei governi.
Un esempio che parla da solo è la lega strettissima tra Asburgo e Croati, a cui si affianca l'avversione sempre dimostrata da parte del nazionalismo germanico per la causa dell'indipendenza italiana.
Tra gli autoritarismi ricordiamo il caso ungherese, con la doppia dittatura di Kossuth e Gorgey, che arrivarono poi a scontrarsi tra loro, e la passione nazionalistica tedesca per lo Schleswig ed in generale per la forza germanica, che trasformò la Prussia ed il suo re Guglielmo, re dispotico in Stato dispotico, in un miraggio che abbagliò i dirigenti del moto nazionale, spingendoli ad approvare l'idea di un impero ereditario e decretando così la fine della rivoluzione in Germania.
Le deviazioni prodotte dall'urto delle nazionalità, cioè autoritarismi e lotta tra i popoli, confermano il carattere europeo unitario della rivoluzione del Quarantotto, che giunse anche a teorizzare, per opera di Mazzini e di altri, una Federazione europea: questa però non poteva farsi da sola, occorreva un centro per individuare il principale ostacolo, cioè l'impero della dinastia Asburgo, e per rimuoverlo.
Solo la Francia avrebbe potuto assumersi questa parte, ma i suoi contrasti interni le tolsero le forze per farlo, anche se ne avesse avuto l'intenzione.
La rivoluzione fu europea non solo per la sua estensione a gran parte dell'Europa, ma perché aveva impostato un problema di totalità europea, quello della convivenza pacifica e solidale di popoli europei liberi ed eguali, fornendo la più grande occasione, almeno fino al 1918, per la fondazione degli Stati Uniti d'Europa.
La rivoluzione del '48 è stata spesso definita, ed a ragione, una rivoluzione liberale e borghese, volendo con questa definizione affermare che chi le organizzò mirava alla creazione di quello stato liberale teorizzato da Locke a cavallo tra il '600 ed il '700.
Questo significa che la borghesia non aveva alcuna intenzione di sovvertire completamente l'ordine costituito, ma di eliminare da esso le sperequazioni più evidenti e fastidiose, le stesse che erano state eliminate durante il periodo borghese della rivoluzione francese, dal 1789 al 1791; appare dunque chiaro che la borghesia, non appena lo scossone rivoluzionario ebbe fatto concedere ai vari governi ciò che essa voleva, cioè una sua partecipazione alla gestione del potere, si alleò immediatamente con il blocco conservatore, per evitare così che le concessioni divenissero eccessive e ne minacciassero quindi l'egemonia.
Gli aspetti sopra esaminati di sostanziale unità tra le varie rivoluzioni sono innegabili e fondamentali, ma sarebbe storicamente errato fermarsi a questo punto: le rivoluzioni del '48 furono, oltre che un movimento riguardante tutta l'Europa, un movimento squisitamente nazionale, che assunse nei diversi paesi delle caratteristiche così macroscopicamente diverse che non è possibile ignorarle.
L'unica nazione in cui la borghesia trovò una forte opposizione in quello che Marx definisce, nella sua opera datata 1848, il proletariato, fu non a caso la Francia: la rivoluzione non era passata senza lasciare traccia, anzi, e lo scontro violento delle giornate di giugno lo mostrò chiaramente, rinnovando, ed in maniera molto più ampia, lo scontro tra borghesia ed il popolo minuto che si era già visto il 9 Termidoro dell'anno 1794, con la caduta di Robespierre, lo scioglimento della Convenzione nazionale e la nascita della Costituzione censitaria del Direttorio.
Il caso francese è dunque molto diverso da quello delle altre nazioni europee, in quanto in Francia la questione sociale balzò subito in primo piano, al di là di qualsiasi possibilità di controllo: la rivoluzione non pretese solo una costituzione, come accadde nel resto d'Europa, ma una costituzione democratica ed un governo che garantissero a tutti un maggior benessere sociale, propugnando un ideale di stato molto diverso da quello di Locke, e più simile a quello enunciato da Rousseau nel Contratto sociale. In Francia, inoltre, la questione della unità e della identità nazionale non furono mai al centro della discussione, dato che il paese poteva dirsi unito, malgrado diversi periodi sconvolti dalle guerre interne, da almeno cinque secoli.
Il caso germanico, invece, è assolutamente diverso: in Germania la questione della unità nazionale e persino della individuazione precisa di tale nazione fu sempre la sola questione al centro del dibattito.
Fu su questo punto che l'Assemblea di Francoforte si arenò e la rivoluzione fallì, dato che la questione costituzionale fu sempre subordinata alla creazione di uno stato che la Germania attendeva da tempo immemorabile, e che si costituì veramente solo con il II Reich di Federico Guglielmo I, nel 1871; i modi con cui la questione dell'unità tedesca si risolse furono in realtà quelli indicati dalla rivoluzione, ovvero sia un impero ereditario in mano al re di Prussia, con la differenza che lo stato organizzato da Bismarck fu decisamente più dittatoriale ed assoluto di quello proposto dall'Assemblea del '48.
I tempi non erano forse ancora maturi perché un sovrano prussiano avesse il coraggio di mettersi contro l'Impero Asburgico ed avesse poi la capacità di estrometterlo dalla gestione degli affari di tutta la Germania.
Anche in Italia la questione dell'unità nazionale era centrale, forse ancora più che in Germania: il nostro paese era infatti prevalentemente sotto il controllo straniero, in gran parte austriaco, e suddiviso in una moltitudine di Stati che non erano stati neanche capaci, come invece era successo in Germania, di accordarsi per creare una lega commerciale ed eliminare in questo modo la rete di dazi e frontiere che strangolava l'economia.
La causa della unità nazionale fu sostenuta, a partire proprio dal 1848, principalmente dal Piemonte, che riuscirà, nel giro di un decennio, a riunificare tutta l'Italia sotto la corona del suo re, formando così l'Italia prima di formare gli Italiani, parafrasando una frase del D'Azeglio.
L'Impero Asburgico rappresenta, nel '48, uno strano paradosso: un impero multinazionale messo in pericolo dalle nazionalità.
Il problema dell'Austria non era che mancasse una nazione, ve ne erano semmai troppe: l'impero era formato da popoli tedeschi e slavi, a loro volta divisi in croati, cechi, serbi e così via.
Mentre i tedeschi generalmente sostennero a spada tratta la rivoluzione, che avrebbe permesso loro di riunirsi al costituendo Reich, i popoli slavi si opposero ad essa, o meglio, cercarono di piegarla ai loro fini, mirando ad una loro indipendenza nazionale e finendo così, ipso facto, per favorire la dinastia.
Il caso ungherese è poi ancora diverso, con la sua straordinaria manifestazione di indipendenza ed orgoglio nazionale, che condurranno poi l'impero a doversi dare un nuovo assetto, stabilendo la parità tra le corone d'Austria e di Ungheria, unificate dalla persona dell'Imperatore, ormai privo di qualsiasi peso politico in Germania.
Molte "stranezze" del Quarantotto austriaco si spiegano con questo mosaico di popoli che ne componeva l'impero: essi, lottando tra loro, provocarono, o comunque accelerarono, il fallimento l'uno dell'altro, e, di conseguenza, il fallimento di tutte le rivoluzioni che all'Austria facevano capo, cioè quella italiana e quella tedesca.
Grande assente nel panorama del '48 europeo è l'Inghilterra, che attraversò la stessa fase rivoluzionaria quasi duecento anni prima del resto dell'Europa, restando, per tutto il settecento e l'ottocento, l'esempio vivente di stato moderno ed equilibrato, costante modello a cui cercheranno di rifarsi le borghesie emergenti negli altri paesi del continente. Mentre il resto d'Europa si impegnava nella conquista della libertà, l'Inghilterra ebbe così mano libera nella sua espansione economica e territoriale, giungendo ad essere, nei primi anni del nostro secolo, la più grande potenza di tutta la storia.
Volendo dunque concludere, riassumendo convergenze e differenze tra le varie rivoluzioni, non possiamo che dire che l'ipotesi del Salvatorelli di un Quarantotto come fenomeno europeo senza sostanziali differenze da paese a paese, benché affascinante, non può essere considerata storicamente corretta.
Le differenze, oltre ad esserci, furono determinanti per lo sviluppo di ogni rivoluzione in ogni singolo paese, e sono decisive per comprendere gli avvenimenti di ogni paese negli anni successivi, ed i motivi che faranno percorrere a ciascuno di essi una strada diversa.