Anche se entrarono in stallo nel periodo 1964-1982, il cambio generazionale
diede una nuova spinta alle riforme. Il cambio nelle relazioni con gli Stati
Uniti può anch'esso aver dato un impulso in questo senso. Durante gli anni della
presidenza di Ronald Reagan, l'abbandono della "distensione" costrinse i
sovietici a incrementare di molto le loro capacità produttive, allo scopo di
controbattere al nuovo accumularsi di armamenti, specialmente per quanto
riguarda il progetto statunitense di difesa missilistica detto scudo spaziale. A
quell'epoca Mikhail Gorbačëv avrebbe introdotto il processo che avrebbe portato
al collasso dell'Unione Sovietica e al conseguente smantellamento dell'economia
di comando sovietica, attraverso i suoi programmi politici di Glasnost (apertura
politica) e Perestroika (ristrutturazione economica). L'economia sovietica
soffriva sia di una inflazione nascosta, che di una diffusa carenza di
approvvigionamenti.
Manifesto propagandistico della Perestroika |
Gorbačëv istituì diverse riforme politiche sotto il nome di Glasnost, queste compresero l'allentamento della censura e della repressione politica,
tramite la
riduzione dei poteri del KGB e la democratizzazione. Le riforme politiche
avevano lo scopo di spezzare la resistenza alle riforme economiche di Gorbačëv,
portata avanti dagli elementi conservatori del Partito Comunista. Sotto queste
riforme, con grande allarme dei conservatori nel Partito, vennero introdotte le
elezioni competitive per i posti di ufficiale (per persone all' interno del
Partito Comunista).
Il rilassamento della censura e gli altri tentativi di Gorbačëv, crearono una
maggiore apertura politica. Ad ogni modo ebbero l'effetto indesiderato di
risvegliare un nazionalismo da lungo tempo sopito e dei sentimenti anti-russi di
varie repubbliche dell'Unione Sovietica. Durante gli anni '80, le richieste di
maggiore indipendenza dal governo di Mosca crebbero sempre più, specialmente
nelle Repubbliche Baltiche di Estonia, Lituania e Lettonia, che erano state
annesse all'Unione Sovietica da Stalin, nel 1940. I sentimenti nazionalisti
presero piede anche in altre repubbliche sovietiche come
Ucraina ed
Azerbaijan.
Questi movimenti nazionalisti vennero fortemente rafforzati dall'economia
sovietica in declino, per cui il governo di Mosca divenne un utile capro
espiatorio per i problemi economici. Gorbačëv aveva in definitiva scatenato una
forza che avrebbe infine distrutto l'Unione Sovietica.
Il 15 febbraio 1989, le truppe sovietiche completarono il loro ritiro dall'
Afghanistan. L'Unione Sovietica continuò ad appoggiare la comunista Repubblica
Democratica dell'Afghanistan, con aiuti sostanziali, fino alla fine del 1991.
Nel 1989 i governi comunisti dei paesi satelliti dell'Unione Sovietica erano
stati rovesciati uno a uno a fronte di una flebile resistenza da parte di
Mosca.
Nei tardi anni '80 il processo di apertura e democratizzazione iniziò ad andare
fuori controllo, e andò ben oltre le intenzioni di Gorbačëv. Nelle elezioni per
le assemblee regionali delle repubbliche costituenti l'Unione Sovietica, i
nazionalisti si accaparrarono la posta in gioco. Poiché Gorbačëv aveva
indebolito il sistema di repressione politica interna, l'abilità da parte del
governo centrale di Mosca, di imporre il suo volere sulle varie repubbliche
sovietiche era stato ampiamente minata.
Il 7 febbraio 1990 il Comitato Centrale del Patito Comunista Sovietico concordò
nel cedere il monopolio del potere di Boris Eltsin. Le repubbliche costituenti dell'URSS
iniziarono ad asserire la loro sovranità nazionale su Mosca, e iniziarono una
"guerra legislativa" con il governo centrale di Mosca, nel quale i governi delle
repubbliche costituenti ripudiarono tutta la legislazione dell'Unione che era in
conflitto con le leggi locali, affermando il controllo sulle economie locali e
rifiutandosi di versare le tasse al governo centrale. Questa lotta causò una
dislocazione economica, in quanto le linee di approvvigionamento erano spezzate,
e provocò un ulteriore declino dell'economia sovietica.
Gorbačëv fece dei disperati e sfortunati tentativi di affermare il controllo,
soprattutto sulle Repubbliche Baltiche, ma il potere e l'autorità del governo
centrale erano ormai minati in modo irreversibile. L'11 marzo 1990, la Lituania
dichiarò l'indipendenza e uscì dall'Unione. Ad ogni modo, una larga parte della
popolazione della RSS Lituana era composta da russi etnici e l'Armata Rossa
aveva li una forte presenza. L'Unione Sovietica iniziò un blocco economico della
Lituania e tenne sul posto le sue truppe per "assicurare i diritti dei russi
etnici". Nel gennaio 1991, si ebbero scontri tra le truppe sovietiche e i civili
lituani, che provocarono 20 morti. Questo episodio indebolì ulteriormente la
legittimazione dell'Unione Sovietica, sia internazionalmente che in ambito
interno. Il 30 marzo 1990, il Consiglio Supremo Estone dichiarò che il potere
sovietico in Estonia, che vigeva dal 1940, era stato illegale, e iniziò il
processo per ristabilire l'Estonia come uno stato indipendente.
Tra le varie riforme di Gorbačëv, ci fu anche l'introduzione di un presidente
eletto direttamente per la RSS Russa. L'elezione per questo incarico venne
tenuta nel giugno 1991. Il candidato populista Boris Eltsin, che era stato un
aperto critico di Mikhail Gorbačëv, vinse il 57% dei voti, sconfiggendo il
candidato preferito da Gorbačëv, l'ex primo ministro Ryžkov, che prese solo il
16%.
Il 20 agosto 1991, le repubbliche dovevano firmare un nuovo trattato di unione,
che le rendeva repubbliche indipendenti in una federazione con un presidente,
una politica estera e un esercito comuni. Comunque, il 18 agosto, un gruppo di
ministri di Gorbačëv, guidati da Gennadi Yanayev e appoggiati da KGB ed
esercito, inscenarono un colpo di stato. Gorbačëv venne tenuto prigioniero nella
sua residenza estiva sulla penisola di Crimea (Ucraina), e il 19 agosto venne
dichiarata la legge marziale in Russia. Gruppi di soldati controllavano Mosca,
ma nessun politico venne arrestato. Durante questo periodo, l'Estonia dichiarò la
sua indipendenza, il 20 agosto. (Vedi: Collasso dell'Unione Sovietica.)
Boris Yeltsin e il parlamento russo semi-democraticamente eletto, si opposero al
colpo, e gli organizzatori si arresero il 21 agosto, lo stesso giorno in cui la
terza repubblica baltica, la Lettonia, dichiarò la sua indipendenza.
Immediatamente dopo il fallito colpo di stato, e prima che Mikhail Gorbačëv
ritornasse a Mosca, il vuoto di potere venne riempito da Boris Yeltsin, il quale
firmò immediatamente un decreto che bandiva il Partito Comunista in tutta la
Russia, questo bando venne ben presto esteso a tutta l'Unione Sovietica. In
questo modo, 70 anni di regime comunista vennero portati a termine.
Il 21 dicembre, 11 delle 12 repubbliche rimanenti (tutte eccetto la Georgia),
fondarono la Comunità degli Stati Indipendenti, ponendo effettivamente fine
all'Unione Sovietica. Il 25 dicembre, Mikhail Gorbačëv si dimise da presidente e
il 26 dicembre il Soviet Supremo disciolse ufficialmente l'URSS.