Le donne giapponesi contro la discriminazione - da Internazionale

Suicidi dovuti a superlavoro - da Internazionale


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Giappone - Le donne in lotta contro la discriminazione

Salari inferiori a quelli degli uomini, meno possibilità di fare carriera e il licenziamento un mese prima delle nozze: le lavoratrici giapponesi sono cittadine di seconda categoria. Ma alcune impiegate hanno deciso di fare causa alla loro azienda


Camron Barr, South China Morning Post, Hong Kong

Hong Kong, 18 Settembre 1995

Nel 1965 Kiyoko Kitagawa fece qualcosa di insolito per un'impiegata di un'azienda giapponese: si sposò e continuò a lavorare. Il suo capo alla Sumitomo Metal Industries - una delle più grandi industrie produttrici di acciaio del Giappone - non apprezzò molto la sua dimostrazione di fedeltà all'azienda. Le diede una scrivania accanto alla propria e nulla da fare per 18 mesi. Fu allora che Kiyoko Kitagawa cominciò a battersi contro la discriminazione nei confronti delle donne: una lotta che in Giappone sembra destinata a modificare il rapporto tra i sessi sul posto di lavoro.
La signora Kitagawa passava il tempo leggendo. Donna dalla voce fioca, con un'espressione calma e ansiosa allo stesso tempo, ricorda di aver apprezzato allora i personaggi tormentati di Cechov e Dostoevskij. "Affrontano con coraggio le difficoltà", spiega.
Nel 1968 Kiyoko Kitagawa dovette di nuovo toccare con mano le discriminazioni sul posto di lavoro. Questa volta ebbe un bambino e, nonostante tutto, continuò a lavorare.
Il suo capo le disse, senza scomporsi, che persino nel mondo degli animali sono le madri ad allevare i figli. E che, se avesse lasciato il figlio all'asilo tutto il giorno, si sarebbe dimostrata inferiore a un cane.
Malgrado i primi anni poco piacevoli, Kiyoko Kitagawa è rimasta alla Sumitomo Metal. Ammette che altri superiori sono stati più comprensivi con lei: hanno apprezzato la sua indipendenza e le hanno assegnato incarichi gratificanti.
Ma, qualche anno fa, un direttore del personale disse qualcosa che la infastidì tanto profondamente da far scoccare la scintilla di un procedimento legale che rimarrà negli annali.
La signora Kitagawa racconta che andò su tutte le furie sentendo il direttore del personale dire che normalmente sulle impiegate vengono scritti rapporti mediocri per giustificare un salario più basso e l'assenza di promozioni.
Quasi nello stesso periodo, apprese che un giovane collega, che lavorava come suo assistente, guadagnava circa 154mila dollari di Hong Kong l'anno più di lei (circa 30 milioni di lire). In questi anni dice di aver visto intorno a sé tanti uomini con il suo stesso grado d'istruzione fare rapidamente carriera e ricevere salari molto più elevati.
L'8 agosto scorso Kiyoko Kitagawa e sette impiegate di tre filiali della Sumitomo Metal hanno fatto causa ai loro datori di lavoro accusandoli di discriminazione sessuale sui salari e sulle promozioni e chiedendo il rimborso dei milioni di dollari di stipendio in più che avrebbero ricevuto se fossero state uomini.
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È tempo di dimissioni

Le discriminazioni contro le quali queste donne si battono appaiono evidenti in un notiziario pubblicato l'estate scorsa dal sindacato della sede centrale della Sumitomo Metal di Osaka. Un paragrafo intitolato "Spose di giugno" suggerisce quando ordinare gli inviti e quando prenotare la sala per il ricevimento. Inoltre, raccomanda alle impiegate di presentare le dimissioni un mese prima del matrimonio.
Il notiziario del sindacato dimostra che in Giappone le lavoratrici sono sottoposte a limitazioni che non vengono applicate agli uomini.
In genere, alle donne vengono assegnate soltanto mansioni d'ufficio. Una donna normalmente lavora qualche anno, per poi licenziarsi al momento del matrimonio o, al più tardi, quando aspetta un bambino. In alcuni casi riprende a lavorare part-time o con impieghi temporanei, presso la stessa ditta, quando i figli sono cresciuti.
Secondo i dati dell'Organizzazione internazionale del lavoro, le donne giapponesi sono pagate il 59 per cento di quello che guadagnano i loro colleghi uomini.
Le statistiche del ministero del Lavoro mostrano che in Giappone soltanto l'8,5 per cento degli incarichi dirigenziali è affidato a donne.
Nel 1986 il governo giapponese ha approvato - in parte perché costretto a rispettare i termini di un accordo con le Nazioni Unite e in parte perché le donne hanno cominciato a pretendere un sostegno legale - una legge sulle pari opportunità di impiego (Eeol). La misura, però, non era volta a eliminare le iniquità, bensì a porre le basi per una maggiore uguaglianza nel futuro.
A quasi dieci anni di distanza, i risultati sono incerti. Alcune donne sostengono che la legge abbia fornito loro un notevole sostegno psicologico e che abbia spinto le imprese ad assicurarsi che alcune giovani donne vengano sempre inserite nei loro cosiddetti "general tracks" - posizioni con possibilità di carriera fino alla direzione - ben distinti dai normali livelli impiegatizi.
Ma coloro che la criticano dicono che la legge contiene in sé le ragioni stesse che ne impediscono l'applicazione. Al momento della selezione, dell'assunzione, dell'assegnazione dei compiti e della promozione di un impiegato, secondo la Eeol, "il datore di lavoro dovrebbe concedere alla donna le stesse opportunità che dà all'uomo".
"Questi termini sono talmente vaghi", dice l'avvocato Miyaji di Osaka, "che si ritorcono contro le lavoratrici". Il meccanismo di applicazione della legge richiede che, nel caso in cui un'impiegata presenti una mozione per discriminazione, il ministero del Lavoro e la ditta in questione acconsentano ad avviare un processo di mediazione.
Gli stessi funzionari del ministero riconoscono che non c'è alcun modo per costringere una ditta a modificare le sue abitudini.
"Nel caso in cui la ditta non sia d'accordo ad avviare il processo di mediazione, tutto quello che il ministero del Lavoro può fare è invitare la ditta a non fare discriminazioni", puntualizza Masako Owaki, membro della camera alta del Parlamento giapponese, che sta lavorando per rivedere la legge. "Ma questo invito generalmente non sortisce alcun effetto, perché non esistono obblighi legali".
L'unica possibilità alternativa è il ricorso al tribunale, dove, però, le cause civili complesse possono protrarsi per decenni.
"Qualcuno che iniziasse una causa all'età di 40 anni, potrebbe essere già in pensione quando la causa viene risolta", dice Masako Owaki, avvocato, oltre che deputata.
La recessione economica giapponese, cominciata quattro anni fa, ha ulteriormente complicato la situazione per le giovani donne. Malgrado le crescenti pressioni per tagliare le spese, le imprese continuano ad assumere uomini nei livelli dirigenziali, mentre le giovani laureate riescono a malapena a ottenere dei colloqui.
Contemporaneamente, è diventato più difficile trovare lavoro anche nei normali ranghi impiegatizi, perché le donne anziane lavorano più a lungo. Servendosi della legge giapponese e dell'articolo della Costituzione che protegge la donna, sono riuscite a ottenere la possibilità di continuare a lavorare dopo il matrimonio e la maternità.
Finora, in Giappone, soltanto un'impresa ha accettato la mediazione del ministero del Lavoro in una causa per discriminazione, come previsto dalla legge Eeol: la Sumitomo Metal nella causa con la signora Kitagawa. Quando Kiyoko Kitagawa e altre donne della Sumitomo misero in piedi un caso di discriminazione sui salari e sulle promozioni, la Sumitomo accordò una mediazione. Così, alla fine dello scorso anno, cominciarono le udienze tenute da una commissione di tre accademici selezionati dal ministero del Lavoro. In febbraio, la commissione sollecitò la Sumitomo a educare i propri dirigenti affinché si servissero delle qualità professionali degli impiegati donna e offrissero a entrambi i sessi pari opportunità nei programmi di formazione. Esortò inoltre la Sumitomo a lasciare aperte le possibilità di promozione dai ranghi impiegatizi a quelli dirigenziali.
Ma nessuna delle richieste specifiche della signora Kitagawa e delle colleghe venne nemmeno citata. Le donne rifiutarono la decisione della commissione.
In alternativa, ora stanno tentando le vie legali attraverso i tribunali, dopo essersi unite a impiegate di altre due filiali della Sumitomo.
"Un caso come questo è una novità", dice Reiko Shoji, editore e attivista impegnata nella difesa dei diritti della donna dal 1975. "In passato, la maggior parte delle donne si arrendeva alla vita d'ufficio. Nessuna s'indignava, né aveva il potere di lottare contro l'azienda".
Ma, come sostiene l'avvocato Miyaji, in questo caso non è soltanto l'azienda a essere sotto accusa, bensì l'intera struttura del sistema lavorativo giapponese.
"Gli uomini giapponesi passano tutte le ore attive della giornata lavorando per l'azienda", scrive William Tabb, nel suo nuovo libro Il sistema giapponese nel dopoguerra. "Hanno pochissimo tempo da dedicare ai figli o alla casa. Il sistema giapponese prevede la settimana lavorativa di sei giorni e vanta il più alto numero di ore lavorative del mondo industrializzato".
In cambio, viene garantito ai lavoratori un impiego stabile per tutta la vita e un minimo salariale adeguato al costo della vita.
Ma le donne non possono rientrare completamente in questa equazione come impiegate dei ranghi dirigenziali, se non a prezzo di enormi sacrifici. Il professor Tabb dimostra che quasi tutte le donne che raggiungono la posizione di dirigente sono nubili.

La famiglia

Il sistema giapponese, basato sulla famiglia come cellula sociale primaria, richiede infatti che le donne restino a casa per allevare i figli, sovrintendere alla loro educazione e prendersi cura dei mariti. Anche il sistema fiscale è strutturato in modo da scoraggiare un secondo reddito in famiglia.
Le donne servono da "tappabuchi" nel mercato del lavoro: vengono impiegate come mano d'opera a basso costo, temporanea o part-time.
Kiyoko Kitagawa e Yasuko Yatani - una collega della Sumitomo coinvolta nella causa legale - non usano termini radicali sull'uguaglianza tra i sessi, né accusano direttamente gli uomini di questa situazione. Il problema, secondo loro, non è tanto nel rapporto tra i sessi, quanto nel sistema economico. Dice Kiyoko Kitagawa: "Malgrado tutto ciò che si racconta sulla prosperità e lĠegualitarismo del Giappone, gli uomini non hanno tempo libero. Perciò le uniche a farsi carico dell'educazione dei figli sono le madri. Moglie e marito non comunicano quasi mai".
"Persino i ragazzi devono darsi da fare e frequentare corsi di studio extrascolastici se vogliono avere successo", dice Yasuko Yatani. "Gli uomini non hanno il tempo di andare al cinema, né di parlare con le loro famiglie".
"Quella dei lavoratori giapponesi non è una vera vita. Lavorano troppo - a volte fino alla morte - e sacrificano al lavoro anche la vita privata. È questo il problema principale della nostra società".
(M.G.)

Dal numero 100 di Internazionale del 13 ottobre 1995