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In quest'ultima parte del suo libro, il Todorov riprende alcune delle questioni sollevate nei capitoli precedenti, esprimendo le sue convinzioni circa l'insegnamento che la sua opera può dare, e, più in generale, circa il modo di rapportarsi all'altro.
Noi, consapevoli che in questo punto, più che in ogni altro del suo lavoro, il Todorov ha espresso convinzioni ed idee personali, e dunque qualcosa di soggettivo, abbiamo ritenuto opportuno seguire, come nel resto del lavoro, i suoi ragionamenti e lo sviluppo del discorso, indicando sotto forma di citazioni le affermazioni che abbiamo ritenuto essere maggiormente "sue".

"Credo che, a causa di queste opere empie, scellerate e ignominiose, perpetrate in modo così ingiusto, barbaro e tirannico, Dio riverserà sulla Spagna la sua ira e il suo furore, giacché tutta la Spagna si è presa la sua parte, grande e piccola, delle sanguinose ricchezze usurpate a prezzo di tante rovine e di tanti massacri".

Queste parole, a mezza strada tra la profezia e la maledizione, sono di Bartolomé de Las Casas; se i lettori pensano che la questione non li riguardi, sostituiamo a "Spagna" le parole "Europa occidentale", e vedremo che in realtà ne siamo tutti coinvolti.Forse ancora oggi non possiamo giudicare se la profezia si sia avverata in modo univoco, ma possiamo sempre adottare apertamente la mia visione delle cose senza travestirla in una descrizione delle stesse.
Molti avvenimenti della storia recente paiono dare ragione a Las Casas, la schiavitù è stata abolita da circa cent'anni, e il colonialismo vecchio stile è scomparso da trenta o quarant'anni. Molte vendette sono state compiute e vengono compiute ancora, contro i cittadini delle antiche potenze coloniali, spesso colpevoli solo di avere un certo passaporto: tali atti non potranno mai saldare il bilancio dei crimini perpetrati dagli europei, ma non fanno altro che riprodurre quanto di più condannabile gli europei hanno compiuto, ed è sempre triste vedere la storia ripetersi.

Scrivo questo libro perché vorrei che venisse ricordato quel che può accadere se non si riesce a scoprire l'altro. Perché l'altro deve essere scoperto. E poiché la scoperta dell'altro percorre diversi gradi, è possibile trascorrere la vita senza mai giungere alla piena scoperta dell'altro, sempreché ad essa si possa realmente arrivare.
Ognuno di noi deve sempre ricominciarla personalmente, le scoperte anteriori non ce ne dispensano. Ma la scoperta dell'altro deve essere assunta in proprio da ciascun individuo.

La storia della conquista dell'America fa notare come sia avvenuto un grande cambiamento, all'inizio del XVI° secolo: a partire da quell'epoca, per circa trecentocinquant'anni, l'Europa occidentale ha cercato di assimilare l'altro, di far scomparire l'alterità esteriore, e in gran parte c'è riuscita: i suoi valori ed il suo modo di vita si sono diffusi in tutto il mondo, e, come voleva Colombo, i colonizzati hanno adottato le nostre usanze e si sono vestiti.
Questo successo straordinario è dovuto, fra le altre cose, ad una specifica caratteristica della civiltà occidentale, cioè alla capacità degli europei di capire gli altri: Cortés ce ne fornisce un ottimo esempio, consapevole com'era del fatto che l'arte dell'adattamento e dell'improvvisazione regolava il suo comportamento.
La sua condotta si organizza in due tempi: il primo è l'interesse per l'altro, anche al prezzo di una certa identificazione provvisoria: Cortés si assicura la comprensione della lingua e la conoscenza della politica, fino ad inviare messaggi in codice appropriato, facendosi passare per Quetzalcoatl tornato a vivere sulla terra. Comportandosi in tal modo, però, Cortés non ha mai abbandonato il suo senso di superiorità, che risulta anzi confermato dalla sua capacità di comprendere l'altro.
Nel secondo momento poi, egli riafferma la propria identità e assimila gli indiani al proprio mondo, così come fanno i frati francescani, che adottano gli stessi costumi degli indiani, per meglio convertirli alla religione cristiana.
Gli europei dimostrano notevoli qualità di elasticità e di improvvisazione, che permettono loro di imporre dovunque con facilità il proprio modo di vita; la civiltà occidentale, dimenticando l'estraneità dell'altro esteriore, assimilato o distrutto, si trovava un altro interiore, scoprendo la bestia nell'uomo, quella che, nell'opera di Melville Pierre, o delle ambiguità (IV, 2), è definita "misterioso elemento dell'anima che non sembra riconoscere alcuna giurisdizione umana, ma che, nonostante l'innocenza dell'individuo in cui esso alberga, sogna orribili sogni e mormora i pensieri più proibiti": l'instaurazione dell'inconscio può essere considerata come il punto culminante di questa scoperta dell'altro in noi stessi.

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Oggi questo periodo della storia europea è, forse, in via di esaurimento, giacché i rappresentanti della civiltà occidentale non credono più alla sua superiorità, e dunque il movimento di assimilazione si va spegnendo, anche se i paesi colonizzati continuano a voler vivere come gli europei: qualcuno può vedere in questo la superiorità dei nostri valori, ma sul piano ideologico abbiamo il dovere di combinare quanto di meglio abbiamo, cercando l'uguaglianza senza identità e la differenza senza che degeneri in superiorità ed inferiorità.
Vivere la differenza nell'eguaglianza è cosa più facile a dirsi che a farsi, ma, nella storia della conquista dell'America, molti vi si stavano avvicinando: sul piano assiologico, il vecchio Las Casas era giunto ad amare e stimare gli indiani non in funzione del proprio ideale, ma del loro, ad un amore "neutro" [l'espressione "neutro" riferita ad amore, rimanda al pensiero di Blanchot e Barthes]; sul piano invece della assimilazione dell'altro o della identificazione con lui, Cabeza de Vaca arrivò anche lui ad un punto neutro, non perché indifferente alle due culture, ma perché le aveva vissute entrambe dal loro interno: senza diventare indiano, egli non era più spagnolo.
La sua esperienza simboleggia quella del moderno esule, che a sua volta personifica una tendenza tipica della nostra società: è un essere che ha perduto una patria senza acquistarne un'altra, uno che vive in una doppia esteriorità; parimenti, la nostra società ha perduto o sta perdendo i suoi vecchi valori, senza peraltro acquisirne di nuovi.

Oggi l'esule è colui che incarna meglio, modificandone il senso originario, l'ideale che Ugo di San Vittore così formulava nel XII secolo: "L'uomo che trova dolce la sua patria non è che un tenero principiante; colui per il quale ogni terra è come la sua propria è già un uomo forte; ma solo è perfetto colui per il quale tutto il mondo non è che un paese straniero" (io che sono un bulgaro che abita in Francia, prendo a prestito questa citazione da Edward Saìd, palestinese che vive negli Stati Uniti, il quale l'aveva trovata, a sua volta, in Erich Auerbach, tedesco esule in Turchia)".

Sul piano conoscitivo, invece, Duràn e Sahagùn preannunciavano, senza peraltro realizzarlo pienamente, il dialogo delle culture caratteristico del nostro tempo: l'etnologia è figlia di questo dialogo in cui nessuna delle due voci ha l'ultima parola.
L'altro lato della medaglia è che il prospettivismo porta, nella nostra società, alla indifferenza e alla rinuncia a qualsiasi valore, alla nascita di una società di esiliati, in cui il dialogo delle culture cessa per la morte di queste: ad esso si sostituiscono l'eclettismo, il comparativismo, la capacità di amare di tutto un po' e di simpatizzare per qualsiasi opzione senza abbracciarne mai alcuna.

La storia esemplare della conquista dell'America ci insegna che la civiltà occidentale ha vinto, tra le altre cose, anche grazie alla sua superiorità nella comunicazione umana, ma ci insegna anche che questa superiorità si è affermata a spese della comunicazione col mondo: usciti dal periodo coloniale, proviamo il confuso desiderio di rivalorizzare questa comunicazione col mondo, come dimostra il boom della new age, o, per fare un esempio un po' più vecchio, l'epoca degli hippies americani degli anni sessanta, che, come gli indiani di Sepùlveda, volevano fare a meno del denaro, dimenticare i libri e la scrittura, mostrare indifferenza per il modo di vestire e rinunciare all'uso delle macchine.
Queste comunità votate al primitivismo, erano destinate all'insuccesso, poiché coniugavano questi aspetti primitivi materiali con una mentalità individualistica moderna: maggiore successo, ricorda il Todorov, ha una formula offerta dal Club Méditerranée, che permette di vivere un tuffo nel mondo primitivo, con la mancanza di denaro, libri ed eventualmente vestiti, senza mettere in discussione la propria vita di esseri "civili". Analogamente, i ritorni alle religioni primitive od orientali non si contano più, ma il ritorno al passato è sempre impossibile.

Il desiderio di superare l'individualismo della nostra società egualitaria e di accedere alla socialità propria delle società gerarchiche si ritrova, tra l'altro, negli Stati totalitari.

Essi somigliano al bambino mostruoso che Bernard Shaw temeva sarebbe nato da una sua ipotetica unione con Isadora Duncan (che ne aveva sondato le intenzioni matrimoniali): brutto come lui e stupido come lei.
Questi Stati, indubbiamente moderni e come tali non assimilabili né alle società del sacrificio né a quelle del massacro, riuniscono in sé caratteristiche di entrambe, e meritano la creazione di una parola-baule: società del "massacrificio". Come nelle prime, vi si professa una religione di Stato; come nelle seconde, il comportamento di ognuno si fonda sul principio karamazoviano del "tutto è permesso"; come nelle società del sacrificio si uccide anzitutto a casa propria; come nelle società del massacro, si occulta o si nega l'esistenza di queste uccisioni; come nelle prime si scelgono individualmente le vittime; come nelle seconde, lo sterminio è compiuto senza alcuna idea rituale".

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Circa l'identità della sua opera poi, il Todorov osserva che l'adagio historia magistra vitae si sente ripetere dall'epoca di Cicerone: se si ignora la storia, dice l'adagio, si rischia di ripeterla, ma, oltre al fatto che noi non siamo più simili a coloro di cui parliamo, non è conoscendola che sappiamo realmente cosa fare: non possiamo essere sicuri che, non comportandoci come i conquistadores, non li imiteremo adattandoci alle nuove circostanze.
La loro storia è esemplare nel senso che ci permette di riflettere su noi stessi, di scoprire le somiglianze e le differenze: ancora una volta la conoscenza di noi stessi passa attraverso quella dell'altro.

Riconoscere la superiorità dei conquistadores non significa elogiarli, poiché è necessario analizzare le armi della conquista se si vuole che essa un giorno abbia fine: le conquiste non appartengono solo al passato.
Non credo che la storia obbedisca ad un sistema, né che le sue pretese leggi consentano di dedurre le forme sociali future o presenti. Credo invece che prendere coscienza della relatività, e quindi dell'arbitrarietà, di un segmento della nostra cultura, significhi già modificarlo un poco; e che la storia (non la scienza, ma il suo oggetto) altro non sia che una serie di tali impercettibili modificazioni.

A conclusione del lavoro possiamo esprimere la speranza, non sappiamo quanto utopica, che questa storia sia davvero, come il Todorov si augura, esemplare, e che dunque ciascuno di noi possa arrivare personalmente, ogni giorno, a scoprire l'altro, ad accettarlo per quello che è, per i suoi valori e le sue convinzioni, anche quelle che ci paiono le più assurde: sappiamo bene che non è facile, ma crediamo con altrettanta forza che distruggere l'altro significa riconoscerne la pericolosità, e dunque pensare che le sue idee, in realtà, non siano affatto più sbagliate delle proprie, ma anzi, che rischino concretamente di soppiantarle; riteniamo sia dovere dell'uomo moderno cercare una strada alternativa, il dialogo invece della distruzione, quotidianamente e con fatica: auguriamo a tutti noi di riuscirvi.

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