Abbiamo detto nella sezione precedente che il comportamento di Las
Casas e quello di Cortés nei confronti degli indiani, possono essere assimilati: ciò
suona paradossale solo se non si comprende che il rapporto con l'altro non si costruisce
entro una sola dimensione, giacché si possono individuare almeno tre assi: il giudizio di
valore o piano assiologico (l'altro mi piace o non mi piace, è mio pari o
è un mio inferiore), l'azione di avvicinamento o di allontanamento nei confronti
dell'altro o piano prasseologico (io abbraccio i valori dell'altro e mi
identifico con lui oppure assimilo l'altro a me stesso), e la conoscenza o la non
conoscenza dell'identità dell'altro o piano epistemologico (conosco o ignoro
l'identità dell'altro).
Las Casas conosce gli indiani meno di Cortés e li ama di più, ma entrambi si riconoscono
in una stessa politica di assimilazione, poiché la conoscenza non implica amore né
questo quella: conquistare, amare, conoscere sono comportamenti del tutto autonomi.
Per quanto riguarda il primo di
questi assi, il piano assiologico, la figura emblematica è Las Casas, anche se
bisogna premettere che, nel corso della sua lunga vita, egli attraversò una serie di
crisi e trasformazioni, che lo portarono ad assumere posizioni tra loro distinte nei
confronti degli indiani: il suo atteggiamento nei loro confronti non è lo stesso prima o
dopo la sua rinuncia agli schiavi che possedeva, nel 1514, ma neppure prima e dopo il
1523, anno in cui diventa domenicano, ed ancora, cambia nel 1550, dopo il fallimento di
molti dei suoi progetti politici, in seguito allo studio dei sacrifici umani presso gli
aztechi.
E' interessante aggiungere che, per Sepùlveda, erano proprio questi riti che dimostravano
nel modo più inequivocabile la inferiorità degli indiani.
Il suo ragionamento, in un un primo lo porta a dire che, sebbene il
cannibalismo ed i sacrifici umani fossero condannabili, ciò non significava che si
dovesse muovere guerra a coloro che li praticavano, affermando poi che è necessario anche
considerare il rispetto per le leggi, uguale sia per gli spagnoli sia per gli indiani, che
evidentemente imponevano, nella civiltà indiana, il sacrificio: se la legge imponeva il
sacrificio, ovviamente non si poteva biasimare il singolo per questo; egli ricorda inoltre
che il sacrificio umano non è poi così estraneo neppure alla religione cristiana, come
dimostra il comando dato da Dio ad Abramo di sacrificare suo figlio Isacco (Apologia,
37), o il sacrificio della figlia di Jefte in Giudici, 11, 30-40.Analogamente,
Las Casas rendeva più vicino agli spagnoli il cannibalismo ricordando i casi in cui gli
stessi soldati di Cortés, a causa della fame, erano stati costretti a mangiare chi il
fegato chi la coscia di un compatriota.
Las Casas poi, dopo aver mostrato la non eccezionalità sia dei sacrifici sia del
cannibalismo, si spinge a dire che il sacrificio umano è accettabile non solo per ragioni
di fatto, ma anche per ragioni di diritto: il suo ragionamento si articola in tre punti:
Las Casas finisce, con tali ragionamenti, per adottare una nuova
posizione, inventando quello che oggi si chiama "prospettivismo"
religioso: ciò che è ora in comune non è il dio cristiano, ma l'idea di divinità,
quella che noi chiameremmo religiosità, più che religione.
Egli, dunque, pur affermando l'esistenza di un unico Dio, non privilegia a priori la via
cristiana a Dio, e l'eguaglianza non si paga più, come invece capitava nelle fasi
precedenti della sua vita, al prezzo dell'identità, poiché ciascuno ha il diritto di
avvicinarsi a Dio per la strada che più gli si confà.
Una volta applicato questo principio alla religione, risulterà assai
facile a Las Casas provare la relatività della nozione di "barbarie",
poiché ognuno è il barbaro di un altro, se parla una lingua che l'altro ignora: "Come
dice San Paolo nella sua Prima epistola ai Corinzi (14, 10-11), per quanto
numerose possano essere al mondo le diverse lingue, non ve n'è alcuna che non sia una
lingua; se dunque non conosco il senso di una certa lingua, sarò un barbaro per colui che
la parla, e colui che la parla sarà un barbaro per me" (Historia, III,
254): in questa affermazione dell'eguaglianza a danno della gerarchia, Las Casas si
ricollega ad un tema cristiano classico, come dimostra il riferimento a san Paolo.
Giova notare però che questo tema dell'egualitarismo cristiano era all'epoca assai
ambiguo, poiché tutti si richiamavano allo spirito del cristianesimo, sia i cattolici, lo
stesso Las Casas in primis, che partendo da questo presupposto vedevano gli
indiani come propri uguali e dunque tentavano di assimilarli, sia i protestanti, che
mettevano in luce le differenze ed isolavano le loro comunità da quelle degli indigeni:
questi casi, benché antitetici, negano una identità all'altro, sul piano dell'esistenza,
per i cattolici, o sul piano dei giudizi di valore, per i protestanti.
Las Casas invece, negli ultimi anni della sua vita, scopre quella forma superiore di
egualitarismo che è il prospettivismo, nel quale ognuno è messo in rapporto con i propri
valori, anziché essere commisurato ad un ideale unico.
E' interessante, per meglio capire lo spirito di un epoca, occuparci
della disputa sulla natura finita o infinita del mondo, e, di conseguenza, sull'esistenza
o meno di una gerarchia interna al mondo: Giordano Bruno, domenicano come Las Casa, nel
suo trattato De l'infinito, universo e mondi, contrappone le due concezioni, la
prima, di matrice aristotelica, che affermava il carattere finito del mondo e la
necessità della gerarchia (difesa, in questo dialogo, da un aristotelico come
Supùlveda), e la seconda che affermava la relatività delle posizioni nello spazio
fisico, e negava l'esistenza di qualsiasi posizione privilegiata: "Cossì non è
più centro la terra che qualsivoglia altro corpo mondano [...]" (De
l'infinito, II): non solo la terra non è il centro dell'universo (come già
aveva detto, quarant'anni prima, l'astronomo Copernico), ma nessun punto fisico lo è, ed
anzi, la stessa nozione di centro ha senso solo in relazione ad un punto di vista
particolare, e sia centro sia periferia sono nozioni puramente relative, ancora più di
quanto lo siano quelle di civiltà e barbarie: "Nell'universo non è mezzo né
circonferenza, ma, se vuoi, in tutto è mezzo [...]" (De l'infinito,
V).
Mentre Giordano Bruno, non dimentichiamolo, pagò con la vita queste sue affermazioni, Las
Casas non ebbe fastidi, neppure nei suoi ultimi anni: i suoi progetti politici non
suscitano obiezioni, anche se consigliavano al re di Spagna di rinunciare ai suoi possessi
oltre l'Atlantico, lasciando agli Stati indiani i loro vecchi governanti, predicandovi il
Vangelo senza l'appoggio degli eserciti: Las Casas arriva così ad affermare che gli
indiani devono decidere autonomamente del loro destino, così come già aveva detto della
loro vita religiosa.
Riguardo al secondo asse, quello dell'assimilazione o di
identificazione con l'altro, la prima figura che prendiamo in esame è quella di Vasco de
Quiroga, membro della seconda Udienza del Messico, ed appartenente cioè al potere
amministrativo: egli resta fermo in una posizione assimilazionista, ma non vuole
assimilare gli indiani alla Spagna del suo tempo, ma ad una terza realtà, ricreando una
sorta di età dell'oro sulla base degli insegnamenti dell'Utopia di Tommaso Moro:
il suo assimilazionismo, dunque, è incondizionato, anche se originale.
Gli esempi invece di identificazione totale con la cultura e la società indiane sono
assai rari, ed il più puro è quello di Gonzalo Guerrero, naufragato sulle coste del
Messico nel 1511 e divenuto, come ci racconta Diego de Landa, un capo militare indiano: "Egli
riportò numerose vittorie sui nemici del suo signore e insegnò agli indiani a
combattere, a costruire forti e bastioni [...]. Si coprì il corpo di pitture, si
lasciò crescere i capelli, si forò gli orecchi per portare gli orecchini come gli
indiani, ed è anche possibile che diventasse idolatra come loro" (III); sposato
con una donna indiana d'alto rango, egli si rifiutò di raggiungere le truppe di Cortés
quando questi sbarcò nello Yucatàn, e si dice anche che egli combatté a lungo con gli
eserciti dei conquistadores.
Il caso di Alvar Nùnez Cabeza de Vaca è invece più complesso:
anch'egli, come Guerrero, si trova ad essere isolato e senza possibilità di contatto con
la Spagna, in seguito ad un naufragio in Florida: con alcuni compagni, allora, si trova
costretto a vivere fra gli indiani e come gli indiani, intraprendendo un viaggio a piedi
durato otto anni, al termine del quale riuscirà a raggiungere il Messico.
I suoi giudizi sugli indiani non sono originali, e appaiono simili a quelli di Las Casas:
egli li stima e non vuole far loro dei torti, ritenendo che l'evangelizzazione deve
avvenire senza violenza; la sua diversità dal frate domenicano sta nel fatto che egli ha
una conoscenza precisa e diretta del modo di vivere indiano, e la sua narrazione dei paesi
che via via attraversa, è per noi assai ricca di notizie sulla vita spirituale e
materiale delle popolazioni.
Il piano che però ci interessa di più, nei suoi riguardi, è quello della
identificazione, poiché egli, per sopravvivere, è costretto ad esercitare due mestieri,
il primo di venditore ambulante, che percorre incessantemente l'itinerario tra la costa e
l'interno, portando a ciascuno gli oggetti che gli mancano e che sono invece disponibili
presso gli altri, ed il secondo di guaritore: egli dunque adotta i mestieri degli indiani,
si veste o resta nudo come loro, mangia come loro, ma l'identificazione non è mai
completa, poiché c'è una giustificazione europea che gli rende gradevole il mestiere di
guaritore (il potere, con questo sistema, proseguire il viaggio e raggiungere i suoi
compatrioti) e vi sono preghiere cristiane nei riti di guarigione da lui operati; egli,
inoltre, tiene un diario, prassi tipicamente occidentale, e si dimostra, malgrado la forte
integrazione con gli indiani, straordinariamente felice di incontrare altri spagnoli: "Quel
giorno, dopo tante disgrazie, fu il più felice della nostra vita" (I, 17).
Egli non ha nulla di un Guerrero, e quando riuscirà a raggiungere il Messico, non
rimetterà più piede in quelle terre; è però assai interessante l'episodio, raccontato
da Cabeza de Vaca, dell'incontro tra indiani, che lo accompagnano, ed un gruppo di
spagnoli: egli, dopo aver assicurato agli indiani che i suoi compatrioti non avevano
alcuna intenzione ostile, si vede ingannato da questi, ed arriva a scrivere: "Costoro,
infatti, avevano deciso di assalire gli indios che noi, invece, avevamo lasciato con
parole di pace. I cristiani non ebbero alcuno scrupolo a mettere in atto il loro piano [...]"
(I, 34): in questo caso non ci sono più due parti, noi (i cristiani) e loro (gli
indiani), ma tre, cioè i cristiani, gli indiani e noi, che non sappiamo chi
esattamente siano, se esterni ad entrambi i mondi per averli entrambi vissuti
dall'interno.
Un altro ottimo esempio di come si possa andare lontano sulla strada della conoscenza
degli indiani, rimanendo però assai distanti dalla identificazione, ce lo dà Diego de
Landa, che deve infatti la sua fama ad un duplice gesto: egli è, da un lato, l'autore
della Relaciòn de las cosas de Yucatàn, il più prezioso documento sul passato
dei maya che noi possediamo, e, dall'altro lato, è l'istigatore di numerosi autodafé,
nel corso dei quali furono bruciati tutti i libri maya esistenti all'epoca, come egli
stesso riferisce, proprio nella sua Relaciòn (41).
Due personaggi, che meritano una trattazione più ampia, ci paiono assai significativi di questo interesse per la conoscenza degli indiani affiancato però da un totale disconoscimento di ogni identificazione: Diego Duràn e Bernardino Sahagùn.
Diego Duràn nacque in Spagna verso il
1537, ed andò a vivere in Messico all'età di cinque o sei anni, ed acquisì una
comprensione della cultura indiana, data la sua lunghissima permanenza sul continente
americano, che nessuno poté eguagliare nel XVI° secolo.
Qualche anno prima della sua morte, avvenuta nel 1588, Duràn compilò, per il periodo
compreso tra il 1576 ed il 1581, una monumentale Historia de las Indias de Nueva
Espana e Islas de Tierre Firme, composta di tre sezioni, le prime due sulla religione
azteca e la terza sulla loro storia; quest'opera fu pubblicata sono nel XIX° secolo.
Le motivazioni della stesura di un'opera di tale mole sono molteplici:
da un lato, Duràn è il convinto evangelizzatore, che sostiene che la conversione degli
indiani deve passare attraverso una migliore conoscenza della loro antica religione, dato
che, secondo lui, per imporre la religione cristiana bisogna estirpare ogni traccia di
paganesimo, e per farlo è necessario anzitutto conoscerlo bene: "Se vogliamo
seriamente cancellare la memoria d'Amalech, non potremo mai riuscirci se non avremo prima
considerato tutte le modalità della religione nella quale essi vivevano" (I, Introduzione).
Per potere estirpare le idolatrie, dunque, bisogna conoscerle, ma il clero dell'epoca è
ignorante, e spesso i preti si accontentano di una conoscenza della lingua estremamente
superficiale: Duràn racconta che, ad esempio, i monaci scambiavano un certo tipo di
tonsura, legato alle pratiche pagane, con un omaggio nei loro riguardi, perché simile
alla loro tonsura.
Egli dunque rimprovera aspramente coloro che avevano bruciato i libri antichi, poiché
essi non avevano fatto altro che rendere più difficile il lavoro di evangelizzazione: "Coloro
che, all'inizio, con fervido zelo ma scarso discernimento, hanno bruciato e distrutto
tutti i disegni contenenti le antiche tradizioni degli indiani, hanno commesso un errore.
Ci hanno lasciato senza una luce che ci guidi; in questo modo, gli indiani adorano gli
idoli in nostra presenza e noi non comprendiamo nulla" (I, Introduzione).
Egli non è contrario in linea di principio agli autodafé, cioè ai roghi dei libri degli
indiani, e dubita invece che siano il mezzo più adatto per lottare contro il paganesimo;
Duràn, poi, nella lotta tra domenicani e francescani, sceglie il partito rigorista e
sostiene l'idea di una conversione totale.
Quello fino ad ora descritto è uno dei volti di Duràn, quello del
cristiano rigido, intransigente, difensore della purezza religiosa, contrario ad ogni
forma di sincretismo: ma vi sono moltissimi passi, nella sua opera, in cui, con meraviglia
dei lettori, egli si dilunga nell'elencare tutti i numerosi punti di contatto tra spagnoli
ed indiani: Duràn arriva a scoprire, negli antichi riti pagani, un numero di elementi
cristiani così numeroso da apparire sconcertante: così, la festa di Tezcatlipoca
assomiglia al nostro giovedì santo, il sacrificio in onore di Chicomecoatl "sembrava
quasi la notte di Natale" (I, 14), la purificazione azteca per mezzo dell'acqua
corrisponde al nostro battesimo, e Tezcatlipoca, con le sue molteplici incarnazioni, altro
non è che un travestimento della Trinità: "Veneravano il Padre, il Figlio e lo
Spirito Santo, e li chiamavano Tota, Topiltzin e Yolometl. Queste parole significavano
Padre Nostro, Figlio Nostro e Cuore degli dèi: [...] ecco la prova che questa
gente sapeva qualcosa della Trinità" (I, 8).
Duràn dunque si appellava alla Inquisizione e scagliava anatemi contro coloro che
mescolavano i riti, proprio mentre esprimeva in lungo e in largo le infinite somiglianze
tra la religione indiana e quella cristiana.
Di tante somiglianze non potevano che esistere due spiegazioni: o gli
indiani hanno ricevuto, in un lontano passato, un insegnamento cristiano, ad opera di un
qualche predicatore, oppure è stato il demonio stesso a fare loro conoscere i riti
cristiani, travestendoli e facendo così adorare lui stesso.
Chiaramente Duràn propende per la prima ipotesi, individuando addirittura l'immaginario
predicatore in san Tommaso, ed arrivando infine, all'epoca in cui scrive il suo libro di
storia, a stabilire che gli aztechi, in realtà, altro non sono se non una perduta tribù
di Israele: il primo capitolo della sua storia si apre infatti con queste parole: "In
fin dei conti potremmo affermare che, per natura, essi sono ebrei ed appartengono al
popolo ebraico. [...]" (III, 1): le prove di tale origine comune sono
ancora delle analogie, a cominciare dal fatto che sia gli ebrei e sia gli aztechi si
moltiplicano in gran numero, entrambi hanno avuto un profeta e dei terremoti, entrambi
hanno ricevuto la manna dal cielo e conoscono i sacrifici umani.
Proveniente forse da una famiglia di ebrei convertiti, Duràn doveva già aver cercato di
conciliare religione cristiana e religione ebraica, e dunque vi è già forse in lui una
predisposizione all'ibridazione delle culture, che lo renderà un luogo di incontro tra
civiltà europea e civiltà indiana, l'esempio più compiuto, secondo il Todorov, di "meticcio
culturale del XVI° secolo".
La sua ibridazione culturale si manifesta in vari modi, dei quali il
primo e più evidente è il fatto che egli condivide il modo di vita degli indiani, le
loro privazioni e le loro difficoltà, e vivendo quella vita, gli capita di accettare e
persino di adottare quei comportamenti di cui sospetta il carattere idolatrico; inoltre,
Duràn è uno dei pochi individui in grado di comprendere veramente l'una e l'altra
cultura, ed in grado cioè di tradurre i segni dell'una in quelli dell'altra: il risultato
di questa comprensione è l'inestimabile opera scritta da Duràn sulla religione azteca,
inestimabile perché è praticamente l'unica a non accontentarsi di una descrizione
dall'esterno, ma che cerca di capire il perché delle cose.
Un'altra dimostrazione della sua ibridazione culturale è data dalla evoluzione del punto
di vista in base al quale è scritta la sua opera: nei suoi libri sulla religione, ad
esempio, i due punti di vista, quello spagnolo e quello azteco, sono distinti, ma il
naturale sincretismo di Duràn mette sempre in pericolo ogni netta differenziazione; nel
libro di storia poi, il discorso è ancora più complesso, dato che Duràn ha sott'occhio
un manoscritto in lingua nahuatl e lo sta traducendo in spagnolo, confrontandolo se
necessario con altre fonti; questo progetto, però, di compiere una pura e semplice
traduzione, non viene mantenuto nel corso del libro, tanto che egli scrive: "Il
mio unico desiderio è di parlare della nazione azteca, delle sue grandi imprese e del
triste destino che l'ha condotta alla rovina" (III, 77), e ancora "In
questa mia storia ho voluto anch'io narrare la loro gloria e perpetuare la loro memoria,
affinché esse durino quanto durerà il mio libro" (III, 11): evidentemente
qualcosa di più di una semplice traduzione, giacché Duràn rivendica per sé il ruolo di
storico, il cui compito è perpetuare la gloria degli eroi.
Duràn, da un lato, si è completamente identificato con il punto di
vista azteco, ma dall'altro lato, non è così, dato che non rimette mai in causa la sua
fede cristiana: egli non è né spagnolo né azteco, ma uno dei primi messicani, così
come la Malinche.
Non bisogna dunque stupirsi se il giudizio da lui espresso sugli indiani e la loro cultura
sia profondamente contraddittorio: egli di sicuro non vede in essi né i buoni selvaggi
né i bruti sprovvisti di ragione, ma dice che, malgrado possiedano una mirabile
organizzazione sociale ed una notevole intelligenza, tuttavia persistono nella loro fede
pagana, decidendo in tutta onestà di conservare l'ambivalenza dei suoi sentimenti: "Costoro
erano, da un lato, bene organizzati e amministrati, ma erano, dall'altro, tirannici e
crudeli" (I, Introduzione): egli resta per noi una figura esemplare di
ciò che egli stesso chiama "il desiderio di sapere" (I, 14).
Bernardino de Sahagùn nacque in
Spagna nel 1499, divenne, dopo gli studi all'università di Salamanca, un frate
francescano e, nel 1529, giunse in Messico, dove rimase fino alla morte, avvenuta nel
1590.
La sua attività segue due grandi direttrici: l'insegnamento e lo scrivere. Appena giunto
in Messico impara a fondo la lingua nahuatl e diventa professore di latino al collegio
francescano di Tlateloco; il livello degli studi diventa, in breve tempo molto alto, ed è
lo stesso Sahagùn a dirci che, già intorno al 1540, dopo pochi anni di studi, i nobili
messicani sono in grado di parlare, capire e scrivere il latino e persino di comporre
versi eroici (X, 27).
La seconda direzione lungo cui si orientano gli sforzi di Sahagùn è l'arte dello
scrivere, attività in cui egli sfrutta tutte le conoscenze acquisite nel corso
dell'insegnamento: anche questa attività, così come quella di insegnamento, incontra una
serie di ostacoli, tanto che quasi tutte le sue opere sono andate perdute, ed è quasi un
miracolo che la sua Historia si sia conservata fino ai nostri giorni.
La sua opera principale è la Histora general de las cosas de la
Nueva Espana, ed il suo progetto nasce, come per Duràn, da considerazioni religiose
e dal desiderio di facilitare l'espansione del cristianesimo: è necessario, per Sahagùn,
se si vuole estirpare l'idolatria, conoscere a fondo le usanze pagane, così come per un
medico è necessario, per guarire una malattia, conoscere il malato: "Il medico
non può prescrivere i giusti rimedi al suo malato se non conosce l'umore e le cause da
cui è derivata la malattia [...]; i predicatori e i confessori sono i medici
dell'anima e, per guarire le malattie spirituale, conviene che essi conoscano queste
malattie ed i loro rimedi" (I, Prologo).
Accanto a questo chiaro motivo, però, ne esiste un altro, e cioè il desiderio di
conoscere e conservare la cultura nahuatl, e tale desiderio, ben più che in Duràn avrà
il sopravvento sull'interesse pragmatico, inducendo Sahagùn a prendere importanti
decisioni: il testo della sua Historia sarà redatto in base alle informazioni
acquisite dai testimoni più degni di fede, e sarà scritto in nahuatl.
Sahagùn, dunque, sceglie bene i propri informatori e si assicura della veridicità dei
loro racconti, consulta gli antichi codici e se li fa spiegare, e, solo dopo aver
stabilito definitivamente il testo in lingua nahuatl, decide di aggiungervi una traduzione
in spagnolo: contrariamente poi agli altri autori come Motolinia e lo stesso Duràn, il
contenuto delle cui opere proviene dagli informatori, ma il cui punto di vista è sempre
quello di loro stessi, Sahagùn sceglie la strada della fedeltà integrale e riproduce i
discorsi da lui effettivamente ascoltati, aggiungendovi e non sostituendovi la sua
traduzione.
Il manoscritto, alla fine, viene illustrato, e tutto questo enorme lavoro dura circa
quarant'anni: il risultato è una enciclopedia della vita spirituale e materiale degli
aztechi prima della conquista, il ritratto di una civiltà destinata a sparire
definitivamente nel giro di pochi anni.
Non bisogna pensare, dato che l'opera presenta sia una parte in lingua
nahuatl sia una parte in spagnolo, che nella prima siano solo gli informatori a parlare, e
che gli interventi di Sahagùn si possano riscontrare solo nella seconda: naturalmente la
sua presenza è sempre costante, seppur più discreta nella versione in nahuatl, ma è
interessante notare le differenze tra le due versioni, cioè i passi che in una delle due
sono riportati e nell'altra mancano.
Nel testo spagnolo, infatti, subito dopo la descrizione del panteon azteco, Sahagùn
aggiunge questa apostrofe: "Voi, abitanti di questa Nuova Spagna, messicani
tlaxcaltechi [...] sappiate che avete vissuto nelle grandi tenebre
dell'infedeltà e dell'idolatria, in cui vi hanno lasciato i vostri antenati [...].
Ascoltate ora con attenzione..." (I, Appendice); a questo punto egli
trascrive fedelmente in latino quattro capitoli della Bibbia sulla idolatria ed i suoi
nefasti effetti, a cui segue la vera e propria confutazione del paganesimo.
Questi interventi meritano attenzione soprattutto perché sono assai poco numerosi, e poi
perché sono nettamente separati dal testo che li circonda.
Sahagùn infatti, nella descrizione dei riti aztechi, rinuncia a qualsiasi giudizio di
valore, e fornisce soltanto il punto di vista degli indiani; osserviamo ad esempio come
presenta la scena di un sacrificio Motolinia (I, 6), Duràn (III, 23) e lo stesso Sahagùn
(III, 2).
Ecco il
racconto di Motolinia: "Su quella pietra essi mettevano, sdraiati sul dorso, i
poveri infelici da sacrificare [...] quando il petto del povero infelice era teso
al massimo, lo aprivano a forza con l'aiuto di quel coltello crudele e gli strappavano
rapidamente il cuore; l'officiante di quell'atto vile sbatteva allora il cuore sulla parte
esterna della soglia dell'altare [...]. Nessuno pensi che coloro che venivano
sacrificati [...] andassero a morire di propria volontà; vi erano costretti con
la forza e subivano violentemente la morte e il suo tremendo dolore":
evidentemente Motolinia ha sotto gli occhi un racconto azteco, ma introduce, nel racconto
del rito, il proprio punto di vista, usando le parole "crudele", "vile"
e "poveri infelici".
Vediamo invece come Duràn descrive una scena analoga: "L'indiano prendeva il suo
piccolo carico di doni [...] e cominciava a salire verso la sommità del tempio,
rappresentando così il percorso del sole da est a ovest. Quando giungeva in cima e si
collocava al centro della grande pietra solare [...] i sacrificatori lo
raggiungevano e gli squarciavano il petto. Ne toglievano il cuore e lo offrivano al sole,
gettando il sangue in direzione di esso. Poi, per rappresentare la discesa del sole verso
ovest, facevano rotolare il cadavere giù per la scalinata": nessun aggettivo
aggiunto dall'autore, ma una narrazione in tono tranquillo, senza alcun giudizio di
valore; fa invece comparsa l'interpretazione, che era invece assente in Motolinia, con cui
Duràn fa partecipe il lettore delle sue conoscenze.
Lo stile di Sahagùn è ancora differente: "Giunti al ceppo, che era una pietra
alta tre spanne o poco più e larga due o quasi, venivano rovesciati sul dorso e cinque
persone li afferravano [...]; sopraggiungeva allora il prete che doveva ucciderli
e li colpiva nel petto impugnando a due mani una selce a forma di punta di lancia;
nell'apertura così praticata introduceva una mano e strappava il cuore, poi lo offriva al
sole e lo gettava in un recipiente a forma di zucca [...]": rispetto a
Motolinia, sono ancora assenti i giudizi di valore, ma non troviamo più neanche
l'interpretazione: Sahagùn descrive tutto dall'esterno, con molta precisione tecnica.
Abbiamo visto come, nella descrizione di un sacrificio, Sahagùn non
aggiunga nessun giudizio di valore, ma quando si trova di fronte al panteon azteco, la sua
scelta si fa ancora più difficile: egli si compromette sia traducendo "dio" sia
"diavolo", e dunque, non esistendo alcun termine neutro, sceglie di usarli
alternativamente entrambi: se il titolo del capitolo suona "L'origine degli
dèi", la prima frase di esso è "Ecco ciò che i vecchi indigeni
sapevano e ci hanno detto sulla nascita e l'origine del diavolo chiamato
Huitzilopochtli".
Parlando poi dell'acquisizione delle informazioni, ci accade di vedere che i questionari
di cui evidentemente Sahagùn si serviva, chiedendo, ad esempio, i poteri e i riti di un
determinato dio, escludono de facto alcuni temi, che non vengono mai neppure
accennati: per fare un esempio macroscopico, non veniamo a sapere nulla sulla vita
sessuale degli aztechi, e, per giunta, fa quasi sorridere come gli editori del XIX°
secolo di questo libro, abbiano esercitato una consapevole censura dei rari passi
dell'opera contenenti dei riferimenti alla sessualità: nella prefazione all'edizione
francese, il traduttore si sente obbligato a giustificare i contrasti "tra la
purezza dell'anima e la libertà di espressione" dell'autore, e in alcuni casi
sono introdotte alcune note che dicono "Il traduttore ritiene qui necessario
sopprimere un passo scabroso che la delicatezza delle lingua francese renderebbe
insostenibile alla lettura", ed il passo è riportato solo in lingua spagnola,
che evidentemente è meno delicata; un'ultima chicca, "la sostituzione della
parola nudità alla espressione più realistica che Sahagùn ritenne opportuno usare...":
il testo spagnolo diceva semplicemente miembro genital (III, 5), e dobbiamo
essere felici che Sahagùn non fosse così pudico come i suoi editore trecento anni dopo,
poiché altrimenti brancoleremmo, su questo tema, nell'ignoranza più completa.
Venendo poi alla scelta degli argomenti operata da Sahagùn, gioverà
ricordare che, anche se il suo progetto dichiarato era la evangelizzazione degli indiani
attraverso lo studio della loro religione, non più di un terzo dell'opera tratta di
questi argomenti: egli, forse data la ricchezza dei materiali, decise infine di sostituire
il suo vecchio progetto con un altro, cioè la creazione di una enciclopedia del sapere
azteco, in cui trovassero posto sia le cose divine sia le cose umane; se non accettassimo
l'esistenza di questa evoluzione degli intenti, dovremmo chiederci l'utilità cristiana di
una lunga ed approfondita descrizione del serpente acquatico (XI, 4, 3).
Sahagùn evidentemente inserisce tutto ciò che viene a sapere, senza pre