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Limitando la nostra attenzione alla conquista del Messico, vediamo anzitutto le tappe della definitiva sconfitta dell’impero azteco.
La spedizione di Cortés, iniziata nel 1519, è la terza che tocca le coste messicane, e vi partecipano alcune centinaia di uomini; Cortés è inviato dal governatore di Cuba, che però, ad un certo momento, dopo la partenza, cambia idea, e cerca di farlo tornare indietro, ma Cortés, di fronte a questo tentativo,  si rifiuta di obbedire, dichiarandosi sotto la diretta autorità del re di Spagna; venuto a conoscenza della esistenza dell’impero azteco, decide di sottometterlo ed inizia a penetrare verso l’interno, guadagnando alla sua causa le popolazioni di cui attraversa i territori, in particolare i tlxcaltechi, che diverranno i suoi migliori alleati, ed arrivando infine a Città del Messico; dopo essere stato ben ricevuto, decide di far prigioniero il sovrano azteco Moctezuma, riuscendovi; venuto a conoscenza dell’arrivo di una spedizione spagnola inviata sulla costa contro di lui da parte del governatore di Cuba, Cortés lascia una parte dei suoi soldati nella capitale, e con gli altri muove contro i suoi compatrioti, sconfiggendoli e prendendo il loro capo Narvàez prigioniero; viene però a sapere che a Città del Messico è scoppiata la guerra, a causa del massacro di alcuni messicani compiuto dalle sue truppe, rimaste sotto il comando di Alvarado; ricongiuntosi con le sue truppe assediate, ed in seguito alla morte di Moctezuma prigioniero, Cortés decide di abbandonare nottetempo la città, a causa della intensità degli attacchi aztechi, ma viene scoperto e metà del suo esercito annientata: è la cosiddetta Noche triste; egli allora si ritira tra i suoi alleati a Tlaxcala e ricostruisce il suo esercito, tornando ad assediare la città, e tagliando inoltre tutte le vie di accesso alla capitale grazie a veloci brigantini (la città all’epoca si trova, infatti, in mezzo ai laghi); Città del Messico, dopo alcuni mesi d’assedio cade: la conquista è durata poco più di due anni.

Circa la controversa questione della conquista, la prima domanda che sorge spontanea è il modo in cui un numero assai ridotto di uomini, non più di alcune centinaia, ha avuto ragione di quello che probabilmente era lo Stato più potente del continente, che poteva disporre di centinaia di migliaia di guerrieri, che per giunta si battevano sulla loro terra, in luoghi a loro famigliari, sconosciuti invece ai conquistadores spagnoli.

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Vengono date a questa domanda diverse risposte: una prima ragione è sicuramente il comportamento esitante di Moctezuma, che, fino al momento della sua morte, non oppone quasi nessuna resistenza a Cortés; in molte cronache il sovrano azteco è rappresentato come un uomo malinconico e rassegnato, che probabilmente sente di espiare di persona un episodio poco glorioso della storia azteca: gli aztechi, infatti, malgrado amino presentarsi come i legittimi successori della precedente dinastia dei toltechi, in realtà sono degli usurpatori, ed è plausibile che questo "senso di colpa" collettivo abbia fatto immaginare a Moctezuma che gli spagnoli fossero i legittimi discendenti dei toltechi, venuti a riprendersi i loro domini.
Il comportamento di Moctezuma diviene veramente singolare all’arrivo dei soldati di Cortés a Città del Messico: non solo egli si lascia imprigionare, ma, una volta prigioniero, cerca soltanto di evitare ogni spargimento di sangue, senza cercare di approfittare della situazione per sbarazzarsi degli spagnoli neanche quando Cortés è costretto ad allontanarsi con una parte delle sue truppe per affrontare la spedizione di Narvàez: ci mancano purtroppo i documenti per meglio comprendere l’universo mentale di Moctezuma, ed è quindi impossibile esprimere un giudizio definitivo.

L’operato del sovrano azteco ebbe sicuramente la sua grande importanza in questa mancata resistenza agli invasori, ma non dimentichiamo che egli morì nel bel mezzo della guerra, e che i suoi successori dichiararono immediatamente una guerra totale contro gli spagnoli: in questa seconda fase del conflitto, però, un ruolo decisivo viene giocato dai contrasti tra le diverse popolazioni che abitano il Messico, contrasti che Cortés sa sfruttare con grande abilità, tanto da avere, nella fase finale della campagna, un esercito di alleati indiani numericamente equivalente a quello azteco, in cui gli spagnoli svolgono solo un ruolo logistico e di comando.

Dopo aver mostrato che alcune popolazioni messicane, invece di combattere con tutte le energie contro gli invasori, li appoggiano e ne rendono possibile la vittoria, possiamo legittimamente domandarci per quale ragione essi non hanno resistito di più, invece di consegnare la loro terra ad una dominazione che si dimostrerà foriera di misfatti incredibili.
Ma in realtà, il comportamento degli spagnoli non è affatto atipico, ed essi, anzi, si comportano esattamente come gli aztechi, a cui queste altre popolazioni sono sottomesse; per farlo vediamo due episodi raccontati da Bernal Dìaz: dopo la caduta di Città del Messico "[…] egli fece osservare che molti capitani e soldati […] si erano portati via parecchie figli e mogli di ricchi messicani" (142); ma è esattamente di questo che si lamentano gli indiani delle altre parti del Messico quando parlavano dei misfatti degli aztechi: "Gli abitanti di quei villaggi […] elevarono le più vive lamentele contro gli esattori che rubavano tutto ciò che essi possedevano, e, se le loro moglie e le loro figlie sembravano degne di attenzione, le violavano in presenza dei mariti e dei genitori e talvolta le rapivano; per loro erano obbligati a lavorare come schiavi […]" (86).
Le donne, l’oro e le pietre preziose, che attirano la rapacità degli spagnoli, erano già prelevati dai funzionari di Moctezuma, e Cortés, per delle popolazioni che già hanno subito la colonizzazione azteca, non incarnerà certo il male assoluto, ma anzi il male minore, quasi un salvatore in grado di liberare dal giogo della tirannia presente.

Vi sono dunque moltissime somiglianze tra vecchi e nuovi conquistatori, così come ve ne sono sempre, anche se implicite, tra ogni conquistatore ed il suo predecessore: gli spagnoli, ad esempio, bruceranno i libri dei messicani e distruggeranno i loro monumenti per eliminare ogni ricordo della passata grandezza, ma anche gli aztechi avevano distrutto i libri antichi, per poter riscrivere a modo loro la storia; gli aztechi poi, mostrano spesso di considerarsi i continuatori dei toltechi, ed allo stesso modo gli spagnoli manifestano una certa fedeltà al passato, conservando, ad esempio, la stessa capitale, Città del Messico, e utilizzando i registri fiscali dell’impero azteco: Cortés pare quasi cercare una legittimità agli occhi della popolazione locale, conservando anche gli stessi luoghi di culto, e limitandosi a sostituire gli idoli con statue cristiane: "I maggiori di quegli idoli […] io li abbattei e li scaraventai giù dalle scale e feci pulire le cappelle in cui stavano e misi in esse statue della Madonna e di altri Santi" (Cortés, 2); un’altra testimonianza dice anche che "Fu allora dato l’ordine di incensare con l’incenso indigeno l’immagine di Nostra Signora e la Santa Croce" (Bernal Dìaz, 52).

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Tornando alle cause della sconfitta azteca, aggiungiamo, oltre alle esitazioni di Moctezuma nella prima fase della guerra ed alle divisioni in campo messicano nella seconda, anche la superiorità degli spagnoli in materia di armi, giacché gli aztechi non conoscono la lavorazione dei metalli, e dunque le loro spade e le loro corazze sono poco efficaci, così come non conoscono archibugi e cannoni; essi poi sono sempre più lenti, a terra perché gli spagnoli hanno i cavalli, e sull’acqua perché hanno i brigantini; senza saperlo poi, gli spagnoli conducono una sorta di guerra batteriologica, diffondendo tra gli indiani il vaiolo, che compie nelle file nemiche delle stragi enormi.
Ma tale superiorità, per quanto innegabile, non è ancora sufficiente a spiegare tutto, poiché la potenza delle armi da fuoco non è neanche lontanamente paragonabile a quella cui siamo abituati a pensare noi oggi, le polveri sono spesso bagnate, e poi il rapporto numerico tra i due campi non può essere riequilibrato da questi fattori.

I racconti indiani danno alla domanda sulle ragioni della sconfitta una risposta diversa: tutto è avvenuto perché gli aztechi hanno perso il controllo della comunicazione, e la parola degli dei è divenuta inintelligibile, come dice il libro delle profezie indiano, il Chilam Balam: "La comprensione è perduta, la saggezza è perduta" (22), e ancora "Non c’era più nessun gran maestro, nessun grande oratore, nessun gran sacerdote […]" (5): leggendo queste parole, viene dunque il sospetto che, tra le ragioni della vittoria degli spagnoli, vi sia anche la loro padronanza dei segni.
Analizzando questo aspetto, vediamo subito che spagnoli ed indiani praticano la comunicazione in modo diverso: guardiamo prima alla comunicazione indiana, e poi andremo ad esaminare quella degli invasori spagnoli.

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Dobbiamo anzitutto premettere che, malgrado si sia precedentemente detto che una delle ragioni della sconfitta indiana è stata la padronanza spagnola dei segni, non possiamo parlare sic et sempliciter di inferiorità indiana nel campo della comunicazione, né tantomeno di scarso interesse nella comunicazione, almeno nella comunicazione umana, come era invece nel caso di Colombo.
Gli indiani dedicano, infatti, moltissimo tempo ed energia alla interpretazione dei messaggi, con tecniche notevolmente elaborate e legate ad una specie di divinazione: gli aztechi possiedono un calendario religioso composto di tredici mesi di venti giorni ciascuno, ed ognuno di questi giorni ha un suo carattere, fasto o nefasto che si trasmette, ad esempio, alle persone nate in quel giorno, tanto che, sapere il giorno in cui qualcuno è nato, significa conoscere il suo destino, ed ecco che comprendiamo il perché, appena nasce un bambino, egli venga portato da un professionista dell’interpretazione, in genere il sacerdote.
A questa forma di divinazione, data dalla interpretazione di ciascun giorno del calendario, si affiancano i presagi: è sufficiente leggere qualche cronaca indiana per vedere che molti personaggi affermano di essere stati in comunicazione con gli dèi e profetizzano l’avvenire, e che, addirittura, tutta la storia degli aztechi è considerata come la realizzazione di profezie antecedenti, quasi come se un evento non potesse aver luogo senza essere stato prima profetizzato.

Non sorprendiamoci, dunque, che il mondo sia posto fin da principio come determinato, e che gli uomini si adeguino a tale determinazione regolamentando la loro vita sociale nel modo più minuzioso: la parola chiave delle società indiana è "ordine", come si legge in una pagina del Chilam Balam: "Essi conoscono l’ordine dei loro giorni. Completo era il mese, completo l’anno, completo il giorno, completa la notte. […] In buon ordine recitavano le preghiere, in buon ordine cercavano i giorni fasti […]" (5); ed ancora in Duràn è raccontato questo aneddoto: "Un giorno chiesi ad un vecchio perché seminava una specie di piccoli fagioli negli ultimi mesi dell’anno, dato che abitualmente c’era il gelo […]. Mi rispose che tutto era regolato, che tutto aveva la sua ragione ed il suo giorno particolare" (Duràn, II, 2): tale regolamentazione investe dunque anche i minimi particolari della vita quotidiana.

Gli aztechi poi non apprezzano certo l’opinione personale e l’iniziativa individuale, come si evince dalla importanza attribuita alla famiglia, importanza che permette bene di capire la preminenza del sociale sull’individuale; anche la solidarietà famigliare non è però il valore supremo, poiché la famiglia non è ancora tutta la società: i legami famigliari passano in secondo piani rispetto agli obblighi verso la società, tanto che i genitori accettano di buon grado le punizioni che colpiscono le infrazioni dei figli, che pure essi amano sopra ogni cosa: "I genitori, pur essendo afflitti nel vedere maltrattati i figli che tanto amavano, non osavano lamentarsi, anzi riconoscevano che la punizione era stata giusta e buona" (Duràn, I, 21).
Possiamo dire che, date le due forme di comunicazione, una tra uomo e uomo e l’altra tra uomo e mondo, gli spagnoli coltivano soprattutto la prima e gli indiani la seconda? L’affermazione del Todorov è maggiormente accettabile se intendiamo per "comunicazione tra uomo e mondo" la comunicazione tra individuo e gruppo sociale, individuo e natura ed individuo e mondo religioso: questo secondo tipo di comunicazione è dunque predominante nella vita dell’uomo azteco, il quale interpreta il divino, il naturale e il sociale attraverso indizi e presagi, con l’ausilio di un professionista, il sacerdote-indovino.

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Non bisogna però pensare che il predominio di tale forma di comunicazione escluda la conoscenza dei fatti, cioè la raccolta di informazioni: è vero semmai il contrario, poiché per gli indiani una guerra deve essere sempre preceduta dall’invio di spie, e lo stesso Moctezuma, dopo l’arrivo degli spagnoli, non manca mai di inviare le sue spie nel campo nemico ed è sempre al corrente dei fatti, e conosce l’arrivo delle spedizioni mentre esse ancora non sanno nulla della sua esistenza; anche quando Cortès si trova a Città del Messico, Moctezuma è informato dell’arrivo della spedizione di Narvàez, mentre gli spagnoli ancora la ignorano.
I pur notevoli e costanti buoni risultati nella raccolta delle informazioni, non vanno però di pari passo con la padronanza della comunicazione interumana, come si vede, ad esempio, dal costante rifiuto di Moctezuma di comunicare con gli spagnoli: in lui, infatti, si associano la paura dell’informazione ricevuta e la paura dell’informazione richiesta dagli altri, specie quando essa riguardava la sua persona; egli inoltre, quando riceve l’informazione, il più delle volte punisce coloro che gliela recano, fallendo così costantemente sul piano dei rapporti umani.
Quand’anche poi l’informazione arrivi a Moctezuma, la sua interpretazione avviene nel quadro della comunicazione col mondo, non di quella con gli uomini: egli infatti, per avere consigli su come comportarsi con gli spagnoli, cioè in questioni che noi riteniamo totalmente umane, si rivolge ai suoi dèi.

Perché questo modo inspiegabile di comportarsi? Moctezuma sapeva bene informarsi sui suoi nemici quando essi erano taraschi o tlaxcaltechi (cioè due delle popolazioni che abitavano il Messico all’epoca dell’impero azteco), poiché in questo caso si trattava di un sistema di informazioni definito; l’identità degli spagnoli è, invece, così diversa ed il loro comportamento così imprevedibile, che l’intero sistema di comunicazione azteco è sconvolto, ed essi falliscono in pieno proprio nel campo nel quale prima ottenevano ottimi risultati, cioè la raccolta di informazioni: Bernal Dìaz si chiede più volte cosa sarebbe stato di loro se gli indiani avessero saputo quanto erano pochi, deboli e spossati.
Una conferma di questo atteggiamento la vediamo nella costruzione, da parte degli indiani, dei racconti della conquista: esse cominciano tutte invariabilmente con l’enumerazione dei molti presagi che annunciano la venuta degli spagnoli, così invariabilmente che si sospetta fortemente che siano tutte posteriori agli effettivi anni della conquista: ma proprio il fatto che tali cronache siano state scritte a cose avvenute, ci permette di capire molte cose, cioè che gli aztechi devono percepire la conquista, perché essa risulti spiegabile, inserendola in una rete di rapporti sovrannaturali, di modo che il presente, annunciato già dal passato, divenga intelligibile e meno inammissibile: ma proprio queste profezie sortiscono un effetto paralizzante sugli indiani e ne indeboliscono la resitenza.

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Questo comportamento contrasta fortemente con quello di Cortés, come poi vedremo, ma è invece assai vicino a quello, ad esempio di Colombo, che, come Moctezuma, raccoglie attentamente informazioni concernenti le cose ma fallisce nella comunicazione con gli uomini: Colombo inoltre, subito dopo il ritorno dal primo viaggio, si affrettò a scrivere una sorta di Chilam Balam, il Libro delle profezie, costituito da formule estratte dalla Sacre Scritture che predicevano la sua scoperta.
Per la sua struttura mentale, dunque, Colombo è assai più vicino agli uomini da lui scoperti che non ad alcuni dei suoi compagni, ma non è di sicuro il solo: anche il Machiavelli, per molti altri aspetti così straordinariamente moderno e vicino al nostro modo di pensare, scrive qualche tempo dopo nei suoi Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio: "Donde ei si nasca io non so, ma ei si vede per gli antichi e per gli moderni esempli che mai non venne alcuno grave accidente […] che non sia stato, o da indovini o da rivelazioni o da prodigi o da altri segni celesti, predetto" (Discorsi, I, 56); persino Las Casas dedica un intero capitolo della sua Historia de las Indias agli infiniti esempi di come "la Provvidenza Divina non permette mai che degli avvenimenti importanti […] avvengano senza che sino stati prima annunciati e predetti […]" (I, 15).

Al modo di comunicare degli aztechi, che trascura la comunicazione interumana per privilegiare il contatto con il mondo, è da ricondurre l’immagine che essi ebbero degli spagnoli, ed in particolare l’idea che essi fossero degli dèi.
La cosa ci stupisce, anche perché siamo abituati a pensare che la prima reazione spontanea nei confronti dello straniero sia di immaginarlo come inferiore, cioè come un "non-essere umano" o, al più, come un barbaro inferiore, che, se non sa la nostra lingua, non ne parla alcuna e non sa parlare, come pensava Colombo; per questo gli slavi europei chiamano il vicino tedesco nemec, cioè "il muto", e i maya dello Yucatàn chiamano gli invasori toltechi nunob, cioè "i muti", e la nostra stessa parola barbaro, indicava in origine chi non sapeva pronunciare la lingua greca e dunque si esprimeva con un incomprensibile "bar-bar".

Mentre gli aztechi riuscivano senza fatica a percepire le differenze tra loro stessi e i tlaxcaltechi, cioè li giudicavano i sottomessi, l’alterità degli spagnoli è terribilmente radicale, come mostrano tutte le testimonianze dei racconti indiani: "Dobbiamo dire a lui [cioè a Moctezuma] quello che abbiamo veduto, ed è terrificante: nulla di simile è mai stato visto" (CF, XII, 6).
[Con l’abbreviazione CF si intende Codice fiorentino, cioè la massa di informazioni raccolte da Bernardino de Sahagùn, di cui parleremo nell’ultima parte di questo lavoro].

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Non riuscendo ad assimilare gli spagnoli agli altri popoli di cui avevano conoscenza, gli aztechi rinunciano al loro sistema di alterità umane e si sentono spinti a ricorrere all’unico altro dispositivo possibile, cioè la comunicazione con gli dèi: l’errore degli indiani non durerà a lungo, ma abbastanza da far perdere loro la battaglia in modo irrimediabile, e rendere l’America sottomessa all’Europa; bene si era espresso al riguardo proprio il Chilam Balam: "Chi non saprà comprendere morrà; chi capirà, vivrà" (9).

Dicevamo sopra che gli aztechi dedicano grande importanza e spazio alla interpretazione dei segni, ma essi fanno altrettanto anche per ciò che riguarda la produzione degli stessi, come dimostra il fatto che imparare a parlar bene fa parte dell’educazione impartita dalla famiglia ed è la prima cosa a cui pensano i genitori: ci sono rimaste infinite testimonianze della attentissima cura riservata a tale educazione, che non viene certo lasciata ai soli genitori, ma viene impartita anche in scuole speciali, dette calmecac; gli alti funzionari aztechi, poi, sono scelti in funzione delle loro doti di eloquenza.
Il legame tra potere e padronanza del linguaggio è infatti ben chiaro agli indiani, che chiamano il loro capo di Stato tlatoani, parola che letteralmente significa "colui che possiede la parola", analogamente alla nostra parola dittatore; la abilità oratoria che raggiungono, è così grande che gli spagnoli, anche dopo la conquista, non possono fare a meno di ammirarla.

Il tipo di discorso privilegiato dagli aztechi è, però, quello rituale, memorizzato, che assume il più delle volte le forme degli huehuetlatolli, cioè di discorsi imparati a memoria che coprono un vasto arco di temi e di situazioni sociali: essi hanno la funzione di conservare, in una società priva di scrittura, le leggi, le norme e i valori che vanno trasmessi alle future generazioni.

È proprio la mancanza di scrittura l’elemento forse più importante della situazione, tanto che le tre grandi civiltà americane incontrate dagli spagnoli non si trovano allo stesso livello di evoluzione della scrittura (gli incas ne sono completamente privi, ed usano un elaborato sistema di cordicelle, gli aztechi usano i pittogrammi ed i maya hanno qualche rudimento di scrittura fonetica), ed infatti non reagiranno nello stesso modo alla credenza che gli spagnoli fossero degli dèi: gli incas vi credono fermamente, mentre gli aztechi vi credono solo in un primo momento ed i maya si pongono la domanda ma vi rispondono negativamente; i maya poi, sono l’unica fra queste tre civiltà ad avere subito una invasione, quella dei messicani, e sanno cosa sia una civiltà diversa e superiore.

Tornando però al discorso sugli huehuetlatolli, possiamo dire che la loro caratteristica essenziale è, dunque, la loro provenienza dal passato, e la subordinazione del presente al passato, così come quelle già esaminate dell’individuo rispetto alla famiglia e della famiglia alla società, è una delle caratteristiche della mentalità azteca dell’epoca.
Questa subordinazione del presente al passato si vede, ad esempio, da un interessante racconto datato 1524 ed inserito in un documento titolato Dialoghi e dottrina cristiana, in cui si racconta di una disputa teologica avvenuta tra un gruppo di frati francescani e gli esperti indiani di "cose divine": ora, l’argomento usato dei religiosi aztechi per giustificare la loro persistenza nel seguire la religione pagana, è la sua antichità: "È una nuova parola quella che ci dite […]. I nostri antichi padri che hanno vissuto su questa terra, non avevano l’abitudine di parlare così" (7, 950-56).
Ed ancora, un racconto di Duràn, di cinquant’anni posteriore, ci dà sempre le stesse notizie: "Interrogai alcuni vecchi sull’origine delle loro conoscenze intorno al destino umano, ed essi mi risposero che gli antichi gliele avevano insegnate […]" (II, 2).

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In questo mondo che abbiamo definito rivolto al passato e dominato dalla tradizione, sopraggiunge la conquista, cioè un evento imprevedibile ed unico, e di fronte a tale imprevisto tutta la conoscenza rituale degli aztechi è assolutamente inutile, ed essi non sanno adattarsi ad una situazione che richiede molta capacità di improvvisazione piuttosto che di arte rituale.
Le comunicazioni rivolte dagli aztechi agli spagnoli, infatti, colpiscono a prima vista per la loro inefficacia: per convincerli a lasciare il paese, ad esempio, Moctezuma invia agli spagnoli dell’oro, che era proprio ciò che più di ogni altra cosa poteva indurli a restare; per scoraggiare gli invasori, poi, i guerrieri aztechi dichiarano che essi saranno tutti sacrificati o mangiati, e, per dimostrarlo, quando prendono dei prigionieri, si apprestano a sacrificarli sotto gli occhi dei soldati di Cortés: ma proprio questa azione non può sortire altro effetto sugli spagnoli che quello di spingerli a battersi con una determinazione ancora maggiore, poiché l’alternativa alla vittoria è una non invidiabile morte "in pentola".

Accanto a questi messaggi volontari, che sortiscono effetti decisamente diversi da quanto i loro autori avrebbero voluto, ve ne sono altri non volontari, ma che producono effetti altrettanto sgradevoli: ci riferiamo in sostanza alla incapacità degli aztechi di dissimulare la verità.
Questa incapacità si vede bene, ad esempio, dal fatto che essi, prima di impegnarsi in battaglia, lanciano un grido di guerra, che ottiene in pratica solo l’effetto di rivelare la loro presenza, o dalle circostanze dell’arresto di Cuauhtemoc, succeduto a Moctezuma sul trono azteca, arresto avvenuto solo perché egli tentò la fuga su una nave riccamente ornata con le insegne reali.
Il gesto di Cuauhtemoc non è dovuto alla ingenuità di un singolo, tanto che un intero capitolo del Codice fiorentino è dedicato agli ornamenti portati dai sovrani in battaglia, ornamenti invero tutt’altro che modesti; non desta meraviglia, dunque, che Cortés, poco dopo la sua fuga da Città del Messico, riesca a vincere una battaglia decisiva proprio grazie a questa incapacità di dissimulazione degli indiani: "Cortés, aprendosi un cammino tra gli indiani, riusciva a meraviglia ad individuare e ad uccidere i loro capi, riconoscibili per i loro scudi d’oro […]" (F. de Aguilar).

Tutto questo avviene come se i segni, per gli aztechi, derivassero in modo automatico e necessario dal mondo che essi designano, anziché essere un arma di manipolazione degli altri; tale caratteristica della comunicazione azteca è all’origine della leggenda secondo la quale gli indiani sono un popolo che ignora la menzogna: Las Casas, per citare un nome, insiste sulla totale mancanza di doppiezza da parte degli indiani.

Un esempio del diverso modo di comportarsi di indiani e spagnoli si vede da questo racconto: gli spagnoli, quando entrano per la prima volta in contatto con gli indiani, dichiararono ipocritamente loro che non cercavano la guerra, ma la pace, e gli indiani "non si curarono di risponderci con parole, ma lo fecero con un nugolo di frecce" (Cortés, I): gli indiani non si rendono conto del fatto che, in realtà, le parole possono essere un’arma pericolosa almeno quanto le frecce, se non di più, e questo si vede anche alcuni giorni prima della caduta di Città del Messico, quando Cortés, ormai inevitabilmente vincitore, formula proposte di pace ai pochi superstiti aztechi, ed essi rispondono di non parlare più di pace, in quanto "le parole vanno bene per le femmine; agli uomini convengono solo le armi" (Bernal Dìaz, 154). La divisione concettuale azteca è chiara: le parole alle donne e le armi agli uomini.

La guerra poi, è in fondo soggetta agli stessi principi che si possono osservare in tempo di pace, e dunque non stupisce che gli aztechi conducano, almeno all’inizio, una guerra soggetta alla ritualizzazione e al cerimoniale, con il combattimento che inizia ad una certa ora e finisce ad un’altra: gli aztechi, dunque, non sono in grado neppure di concepire la guerra totale di assimilazione che gli spagnoli conducono nei loro confronti, poiché per loro la guerra deve terminare con un trattato che fissi la misura del tributo che il vinto dovrà pagare al vincitore.

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Gli spagnoli vincono la guerra, in quanto indiscutibilmente superiori agli indiani nella comunicazione interumana: l’incontro tra Moctezuma e Cortés, tra indiani e spagnoli, è un incontro umano, e dunque non vi è da stupirsi se gli specialisti della comunicazione umana riportano la vittoria; ma tale vittoria arreca contemporaneamente un grave colpo alla nostra capacità di sentirci in armonia con il mondo, e di appartenere ad un ordine prestabilito.

Vincendo da un lato, gli europei perdevano dall’altro, ed imponendo il loro dominio su tutto il globo in forza della loro superiorità, schiacciavano in loro stessi la capacità di integrazione col mondo: nei secoli successivi l’europeo sognerà il buon selvaggio, ma il selvaggio era morto o era stato assimilato, e quel sogno era destinato a restare sterile: "la vittoria era già gravida della sconfitta", ma Cortés non poteva saperlo.

Parlando ora della comunicazione degli spagnoli, diciamo anzitutto che non si può dire che tutti loro comunichino in un modo completamente diverso da quello azteco: Colombo, come abbiamo visto, in molte circostanze andrebbe posto sullo stesso piano degli indiani, e lo stesso discorso si potrebbe fare per quei gruppi di spagnoli che cercano di raccogliere la maggior quantità d’oro nel minor tempo possibile, senza preoccuparsi di che cosa siano gli indiani.
Juan Dìaz, cronista della seconda spedizione sbarcata nel Messico, ci ha lasciato questo racconto: "C’era sul fiume una moltitudine di indiani che portavano degli stendardi, che alzavano ed abbassavano per farci segno di andarli a trovare: ma il comandante non volle. […] Il nostro comandante disse loro che volevamo soltanto l’oro".

Questi spagnoli ci ricordano appunto Colombo, sia in questo n