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Cortés comprende il mondo azteco certamente meglio di quanto Moctezuma comprenda quello spagnolo, ma pare proprio che questa comprensione abbia avuto come conseguenza la conquista e la distruzione della civiltà messicana e non certo rispetto per essa. Questa terribile concatenazione dal comprendere al prendere, e dal prendere al distruggere, non pare ineluttabile ma è stata responsabile del più grande genocidio della storia dell’umanità; questo non ci stupirebbe se in realtà gli spagnoli avessero espresso un giudizio critico totalmente negativo sugli aztechi, ma basta leggere qualche testimonianza dell’epoca per accorgersi che era esattamente il contrario: lo stesso Cortés dice infatti: "Nel comportamento e nei modi della gente c’è quasi la maniera di vivere che c’è in Spagna, e con tanto ordine e disciplina che in Spagna; e considerando che questa è gente barbara e lontana dalla conoscenza di Dio e dalla comunicazione con altre nazioni civili, è cosa ammirevole vedere quell’ordine che hanno in tutte le cose".

Lungi dal dissiparsi, dunque, il mistero si infittisce: gli spagnoli non solo comprendevano piuttosto bene gli aztechi, ma addirittura li ammiravano, e tuttavia li hanno annientati; rileggendo le frasi di Cortés, una cosa ci colpisce, cioè che le sue esclamazioni di ammirazione riguardano quasi tutte degli oggetti. Egli va in estasi davanti alle produzioni azteche, ma non riconosce i loro autori come individui umani da porre sul suo stesso piano: quando fa ritorno in Spagna, infatti, mette insieme un campionario di tutto ciò che vi era di notevole nel paese conquistato, e nell’elenco vediamo scritti insieme tigri, uccelli, botti di balsami, ed indiani danzatori, gobbi e nani.
Rispetto a Colombo, che riportava in Spagna indiani a gruppi di mezze dozzine, sei uomini e sei donne qualunque, riducendoli così al rango di oggetto, le cose sono cambiate, dato che Cortés considera che occupino uno statuto intermedio, cioè sì dei soggetti, ma ridotti al ruolo di produttori di oggetti, e non certo dei soggetti paragonabili all’io che li concepisce

Per riassumere, dunque, nel migliore dei casi gli autori spagnoli parlano bene degli indiani ma non parlano mai agli indiani, non riconoscendo loro la qualità di soggetto, cosa che si può fare solamente parlando all’altro; in mancanza di tale riconoscimento, il comprendere diventa solo uno strumento del prendere.

L’esistenza del genocidio degli indiani non può essere ormai assolutamente negata, e le sue proporzioni, circa 70 milioni di individui, lo fanno diventare il più grande della storia: le sue cause sono fondamentalmente di tre tipi, cioè per uccisione diretta, durante le guerre o al di fuori di esse, con responsabilità diretta, in seguito a maltrattamenti, e per malattie, causa della morte della maggioranza della popolazione.

Per quanto riguarda poi la seconda relazione, dal prendere al distruggere, analizziamo qualche racconto riportato da Las Casas nella sua Brevissima relazione sulla distruzione delle Indie: il frate domenicano racconta di come un gruppo di spagnoli "si fermarono al mattino per far colazione nel letto prosciugato di un torrente, disseminato ancora qua e là da alcune piccole pozze d’acqua e pieno di pietre da molare: ciò suggerì loro l’idea di affilare le spade"; arrivati al villaggio dopo la colazione sull’erba, gli spagnoli hanno una nuova idea: verificare se le spade sono così affilate come sembrano: "All’improvviso uno spagnolo (nel quale si può pensare fosse entrato il demonio) trae la spada dal fodero, e subito gli altri cento fanno altrettanto; e cominciano a sventrare, a trafiggere e a massacrare pecore e agnelli, uomini e donne, vecchi e bambini che se ne stavano seduti tranquillamente lì vicino, guardando pieni di meraviglia i cavalli e gli spagnoli. In pochi istanti non rimase vivo nessuno. Entrati allora nella grande casa vicina gli spagnoli si misero ad uccidere, colpendoli di taglio e di punta, tutti coloro che vi si trovavano: il sangue colava dappertutto come se fosse stata scannata una mandria di vacche".

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Vediamo ora un racconto del vescovo dello Yucatàn, Diego de Landa: "…un grande albero ai rami del quale un capitano aveva impiccato un gran numero di indiane; e alle loro caviglie aveva appeso per la gola i loro figlioletti. [] commisero crudeltà inaudite, mozzando mani, braccia e gambe, tagliando i seni alle donne, gettandole in laghi profondi e trafiggendo con la spada i bambini perché non camminavano abbastanza svelti insieme alle madri. E se gli indiani trascinati con la corda al collo non camminavano abbastanza svelti, tagliavano loro la testa per non fermarsi a slegarli".

Quali sono le motivazioni di questo comportamento? Una è incontestabilmente il desiderio di arricchirsi presto e molto senza curarsi del benessere e della stessa vita altrui; questo perché il denaro può tutto.
Il desiderio di arricchirsi non è certo una novità, e la passione per l’oro non ha nulla di moderno; lo è invece questa subordinazione ad essa di ogni altro valore: il conquistador non ha cessato di aspirare ai titoli nobiliari agli onori e alla stima, ma ha capito perfettamente che tutto può essere ottenuto col denaro.

Comunque il desiderio di arricchirsi non spiega tutto, e si potrebbero richiamare alcune caratteristiche immutabili della natura umana, che la psicanalisi definisce con i termini di "aggressività", "pulsione di morte", "istinto di padronanza". Si potrebbe anche sostenere che ogni popolo possiede le sue vittime e conosce la follia omicida, e discriminare tra società del sacrificio e società del massacro: è ormai indubbio che gli aztechi compissero sacrifici umani di proporzioni anche notevoli, ma il sacrificio è un delitto religioso e pubblico, mentre i delitti degli spagnoli sono diversi, sono massacri, delitti atei, non rivendicati, la cui esistenza viene negata, e la cui giustificazione si trova negli stessi: si maneggia la sciabola per il piacere di maneggiarla, così come si mozzano il naso, la lingua e il sesso degli indiani.

Lontani dal potere centrale, tutti i divieti cadono, ed il legame sociale si sfalda e rivela non una natura primitiva ma un essere moderno, che non ha alcuna morale e che uccide perché e quando gli piace.
Il desiderio di arricchirsi e l’istinto di padronanza sono dunque all’origine del comportamento degli spagnoli, ma esso è condizionato dall’idea che i conquistatori si fanno degli indiani, idea secondo la quale questi ultimi sono degli esseri inferiori, delle creature a mezza strada tra gli uomini e gli animali: senza questa premessa essenziale la distruzione non avrebbe potuto aver luogo.

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Andiamo ora ad esaminare più da vicino il dibattito, scoppiato già all’indomani della scoperta, tra i sostenitori dell’eguaglianza e quelli dell’ineguaglianza tra indiani ed europei.
Il primo documento interessante in proposito è il celebre Requerimiento, un’ingiunzione indirizzata agli indiani, opera del 1514 del giurista regio Palacios Rubios, testo nato dalla necessità di regolamentare le conquiste: da allora, prima di conquistare un paese, sarebbe stato necessario dare ai suoi abitanti lettura di questo testo. Esso comincia con una breve storia dell’umanità, il cui punto culminante è rappresentato dall’apparizione di Gesù Cristo, definito "capo della stirpe umana"; Gesù ha trasmesso il suo potere a San Pietro e questi ai papi suoi successori, uno degli ultimi dei quali ha fatto dono del continente americano parte agli spagnoli, parte ai portoghesi (il riferimento è qui al trattato di Tordesillas stipulato nel 1494 con la benedizione del papa Alessandro VI).

Dopo aver così stabilito le ragioni giuridiche della dominazione spagnola, resta da assicurarsi che gli indiani siano informati della situazione, e a questo scopo, è prevista la lettura del Requerimiento, fatta in presenza di un funzionario regio, mentre non viene menzionato neppure un interprete; se gli indiani non si fossero sottomessi dopo questa lettura, gli spagnoli avrebbero potuto costringerli con le armi "con l’aiuto di Dio" e ridurli in schiavitù.
C’è un’evidente contraddizione tra l’essenza della religione su cui gli spagnoli fondano i loro diritti e le conseguenze di questa pubblica lettura: il cristianesimo è una religione egualitaria e in suo nome gli uomini sono ridotti in schiavitù.
Il testo di Palacios Rubios non sarà mantenuto come base giuridica della conquista, ma tracce del suo spirito si trovano anche negli avversari dei conquistadores.

Ad esempio, vediamo l’opinione del de Vitoria: egli demolisce le giustificazioni correnti delle guerre condotte in America, ma ritiene tuttavia che delle guerre giuste siano possibili: nel caso in cui venga violato il "diritto naturale di socievolezza e comunicazione", oppure qualora l’intervento venga fatto per proteggere degli innocenti contro la tirannia dei capi e delle leggi indigene, che consiste ad esempio "nel sacrificare uomini innocenti o addirittura nel mettere a morte persone non colpevoli per mangiarle". Non vi è ancora, naturalmente, una vera eguaglianza fra spagnoli e indiani, come si vede dalla giustificazione ultima della guerra nelle americhe: "Benché questi barbari non siano affatto pazzi, non sono tuttavia lontani dalla follia […]; Non sono più capaci di governarsi da sé di quanto lo siano i pazzi, gli animali e le bestie feroci, visto che il loro cibo non è più gradevole ed è appena migliore di quello delle belve".
È dunque lecito intervenire nel loro paese per esercitarvi un diritto di tutela; si vede così che Vitoria, a lungo considerato un difensore degli indiani, in realtà fornisce una base legale alle guerre di colonizzazione.

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Accanto alle formulazioni giuridiche della dottrina dell’ineguaglianza se ne trovano moltissime d’altro genere che tendono tutte a presentare gli indiani come esseri umani imperfetti. Due testimonianze esplicano a pieno questo atteggiamento, testimonianze tra l’altro di un religioso e di un uomo di lettere e di scienze, cioè i rappresentanti dei due gruppi sociali che, in generale, sono più benevoli nei confronti degli indiani: la prima è del domenicano Tomàs Ortiz, la seconda di Oviedo: Ortiz scrive al Consiglio delle Indie che gli indiani "Mangiano, sulla terraferma, carne umana. Sono sodomiti più di qualsiasi altro popolo. Non vi è giustizia fra di loro. Vanno tutti nudi. Non rispettano l'amore né la verginità. Sono stupidi e sbadati [...] sono brutali [...] mangiano pidocchi, ragni e vermi ovunque li trovino, senza farli cuocere [...]. Posso dunque affermare che Dio non ha mai creato una razza così ricolma di vizi e di bestialità, senza alcune tracce di bontà e di cultura" (Pietro Martire, VII, 4); Oviedo poi, non abbassa gli indiani al livello dei cavalli o degli asini, ma li considera più o meno simili a materiali da costruzione, come dimostrano alcuni suoi scritti: "Quando si fa la guerra contro di loro e si viene al combattimento faccia a faccia, bisogna stare molto attenti a non colpirli con la spada sul capo, perché ho visto molte spade spezzate in questa maniera [...]" (V, Prefazione); non desta meraviglia che egli sostenga che molto presto Dio stesso verrà a distruggere questa razza, e che scriva "Chi vorrà mai negare che usare la polvere da sparo contro i pagani è come offrire incenso a Nostro Signore?".

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Il dibattito tra sostenitori dell'uguaglianza e i partigiani dell'ineguaglianza tra indiani e Spagnoli tocca il culmine e al tempo stesso trova un'incarnazione concreta nella celebre controversia di Valladolid, che oppone, nel 1550, Bartolomé de Las Casas, abate domenicano e vescovo di Chiapas, e Ginés de Sepùlveda, erudito e filosofo.
A Sepùlveda era stato negato il diritto di stampare il suo trattato che ha per argomento le giuste cause delle guerre contro gli indiani, e quindi pensò di cercare una sorta di giudizio di appello; alla fine, dopo aver ascoltato un discorso di Las Casas durato cinque giorni, i giudici non prendono alcuna decisione e a Sepùlveda, dunque, è ancora negato l'imprimatur.
Egli si appoggia, nelle sue argomentazioni ad Aristotele, precisamente all’Aristotele della Politica, il quale stabilisce una netta distinzione tra coloro che sono nati padroni e quelli che invece sono nati schiavi (1254b); una analoga posizione era riscontrabile nel trattato De regimine, opera di Tolomeo da Lucca ma attribuito all'epoca a san Tommaso d'Aquino.
Sepùlveda crede che non l’eguaglianza ma la gerarchia sia lo stato naturale della società umana, e l'unica relazione gerarchica che egli conosce è la semplice relazione superiorità-inferiorità; ispirandosi alla Politica, egli dichiara che tutte le gerarchie si basano su un unico e medesimo principio, cioè "il dominio della perfezione sull’imperfezione, della forza sulla debolezza, della virtù eminente sul vizio" (p. 20), e che il corpo dev’essere sottomesso all’anima, la materia alla forma, i figli ai genitori, la donna all'uomo e gli schiavi ai padroni (cioè gli indiani agli spagnoli); in un pensiero così schematico, non ci stupisce vedere gli indiani e le donne accanto ai corpi e agli animali, poiché l'altro è anzitutto il nostro corpo.

Egli ci fornisce inoltre quattro argomentazioni a favore della guerra giusta condotta dagli spagnoli:

  1. è legittimo assoggettare uomini la cui condizione naturale è quella di dover obbedire agli altri, e se essi rifiutano tale obbedienza non vi è altro rimedio cui ricorrere
  2. è legittimo mettere al bando il crimine abominevole consistente nel mangiare carne umana, e mettere fine al culto dei demoni e al rito mostruoso dei sacrifici umani
  3. è legittimo salvare gli innumerevoli innocenti che quei barbari immolavano ogni anno per placare l’ira dei loro dèi con l’offerta dei loro cuori
  4. la guerra contro gli infedeli è giustificata perché apre la via alla propagazione della religione cristiana e facilita il compito dei missionari

Le quattro proposizioni, riassunte, dicono: gli indiani hanno una natura subalterna, praticano il cannibalismo, sacrificano esseri umani, ignorano la religione cristiana: ergo, noi abbiamo il diritto, anzi il dovere, di imporre agli altri il bene, cioè quello che noi consideriamo il bene, senza chiedere loro se lo sia anche dal loro punto di vista.
Per Sepùlveda esiste chiaramente un valore assoluto, cioè la religione cristiana e la sua appartenenza ad essa, e l'acquisizione di tale valore pesa molto di più di quello che la persona singola considera il suo bene.
Per quanto riguarda poi la sua percezione dei tratti specifici della società indiana c’è da dire che egli è sensibile alle differenze ed anzi le ricerca: da lui veniamo a sapere molte cose riguardo ai riti e alle credenze azteche, e sarebbe allettante vedere in lui i germi di una descrizione etnologica degli indiani, facilitata dall'attenzione che egli rivolge alle differenze, ma la sua descrizione perde molto del suo interesse, poiché la differenza si riduce sempre in lui in inferiorità: le sue informazioni sono dunque falsate da giudizi di valore, dall’identificazione della differenza con l’inferiorità, ma, nonostante ciò, il suo ritratto degli indiani non è privo di interesse.

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Se la concezione gerarchica di Sepùlveda risente delle influenze del pensiero aristotelico, la concezione egualitaria di Las Casas dev’essere presentata come una derivazione dall’insegnamento di Cristo: è lo stesso Las Casas che ce lo dice, nel suo discorso di Valladolid: "Addio Aristotele! Il Cristo, che è verità eterna, ci ha lasciato questo comandamento: amerai il tuo prossimo come te stesso. […] Benché fosse un filosofo profondo, Aristotele non era degno di essere salvato e di giungere a Dio attraverso la conoscenza dell’antica fede" (Apologia, 3).
Infatti, anche se il cristianesimo non ignora le opposizioni e ineguaglianze, le riduce tutte alla opposizione fondamentale tra il cristiano e il non cristiano, e chiunque può diventarlo; al contrario, nel caso dell’opposizione tra padrone e schiavo in Aristotele, lo schiavo è un essere intrinsecamente inferiore, dato che gli manca la ragione, che non si può acquisire, come invece può avvenire con la fede.
Las Casas non è comunque il solo a difendere i diritti degli indiani e a proclamare che essi non possono essere ridotti in schiavitù, anzi, anche gli stessi documenti ufficiali della corona si pronunciano in questo modo; parimenti, il pontefice Paolo III, in una bolla del 1537, afferma che "La Verità […] inviando i predicatori della fede ad adempire questo precetto, dice: và e fà dei discepoli in tutte le nazioni. Dice tutte le nazioni, senza distinzione alcuna, poiché tutti sono idonei a ricevere la disciplina della fede. […] Gli indiani, essendo uomini come tutti gli altri, non possono essere in alcun modo privati della loro libertà e del possesso dei loro beni": questa affermazione deriva dai fondamentali princìpi cristiani, poiché, se Dio a creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, offendere l’uomo significa offendere Dio stesso.
Las Casas adotta questa posizione, arrivando ad affermare non solo una eguaglianza astratta, ma precisando persino che si tratta di una eguaglianza tra noi e gli altri, cioè tra spagnoli e indiani: nei suoi scritti si trovano frequenti formule come questa: "Tutti gli indiani devono essere considerati liberi: perché in verità lo sono, in base allo stesso diritto per cui io stesso sono libero" (Lettera al principe Filippo, 20 aprile 1544).

Quest’affermazione dell’eguaglianza di tutti gli uomini, però, è fatta in nome di una religione particolare, il cristianesimo, senza che questo particolarismo sia riconosciuto: vi è dunque il pericolo di vedere affermare non solo la natura umana degli indiani, ma anche la loro natura cristiana; il pericolo dell’assimilazione è sempre costante, poiché l’identità biologica porta quasi ad una sorta d’identità culturale dinanzi alla religione.
Egli infatti, inizia con il constatare che la religione cristiana può essere adottata da tutti, ma afferma subito dopo che tutte le nazioni sono destinate alla religione cristiana, ripetendo poi instancabilmente che gli indiani sono già dotati di caratteristiche cristiane, sono obbedienti e pacifici.
La percezione di Las Casas non è dunque più sfumata di quella di Colombo, quando questi credeva all’esistenza del "buon selvaggio": "Mi sembrava di vedere in lui il nostro padre Adamo, quando viveva ancora in stato di innocenza" (Historia, II, 44).
La sua Apologetica Historia contiene invero una massa d’informazioni sulla vita materiale e spirituale degli indiani, ma se essa ha il valore di un documento etnografico, si ha la sensazione che ciò avvenga contro le intenzioni dell’autore, sempre impegnato a distruggere ogni differenza: il ritratto degli indiani che possiamo ricavare dalle opere di Las Casas è in realtà molto più povero di quello lasciatoci da Sepùlveda.

Infatti egli, nella maggior parte dei casi disconosce le differenze tra indiani e spagnoli, e quand’anche le riconosca, subito le riconduce ad un unico schema evolutivo (essi sono ora come noi eravamo una volta): il postulato d’eguaglianza sbocca così in un’affermazione d’identità, e la seconda grande figura "dell’alterità", sebbene più simpatica, ci fornisce una conoscenza dell’altro ancora minore di quella fornitaci dalla prima.

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Las Casas ama gli indiani ed è cristiano, ed ama gli indiani proprio perché è cristiano, senza che le due cose siano in contrasto: il suo amore illustra la sua fede, ma la questione non è proprio così semplice: proprio perché cristiano, Las Casas non aveva una buona percezione degli indiani, e viene spontaneo chiedersi se si può davvero amare qualcuno se si ignora la sua identità, oppure se non si rischi di voler trasformare l’altro in nome della propria personalità, e quindi sottometterlo.
Il titolo del primo trattato da lui dedicato alla causa indiana, De unico vocationis modo omnium gentium ad veram religionem, bene esprime l’ambivalenza della posizione del suo autore: l'unico modo è naturalmente la dolcezza, e Las Casas rifiuta la violenza dei conquistadores, che giustificano le guerre in considerazione del fine perseguito, l’evangelizzazione, ma nello stesso tempo per lui esiste una vera religione, cioè la sua, che non è solo personale ma universale.
Tutta la sua vita è ricca di iniziative a favore degli indiani, ma alcune di queste ci appaiono quanto mai ambigue, come ad esempio il massacro di Caonao, di cui fu testimone quand'era al seguito delle truppe di Narvàez: per alleviare il dolore degli indiani massacrati egli, mentre un indios ha subito un colpo al fianco che "gli mette a nudo gli intestini", gli parla "seduta stante delle cose della fede, per quel tanto che l'angosciosa situazione lo permetteva, facendogli capire che, se voleva essere battezzato, sarebbe andato in cielo a vivere con Dio" (Historia, III, 29): agli occhi di un credente non è indifferente sapere se un'anima andrà in paradiso, perché battezzata, o all'inferno, ma quel battesimo in extremis, come riconosce in più occasioni lo stesso Las Casas, ha qualcosa di derisorio.

Dopo la conversione poi, Las Casas si lancia nella colonizzazione pacifica della regione di Cumanà, in Venezuela: al posto dei soldati dovevano esserci dei religiosi e dei contadini venuti dalla Spagna, ma la spedizione si dimostra un fallimento completo, poiché da un lato egli è costretto a dover fare concessioni sempre maggiori agli spagnoli e, dall’altro, gli indiani non si mostrano così docili come egli aveva sperato: la spedizione, quindi, si conclude nel sangue, ma ciò non lo dissuaderà dal fare un altro tentativo analogo, quindici anni più tardi, che finirà allo stesso modo.

Las Casas dunque non vuole porre fine all'annessione degli indiani, ma vuole soltanto che sia compiuta da religiosi e non da soldati: il suo sogno è quello di uno Stato teocratico, nel quale il potere spirituale sovrasti il potere temporale.
E' illuminante un paragone che egli stesso fa, in una lettera al vescovo di Santa Maria: "bisogna strappare questa terra al potere dei padri snaturati e darle un marito che la tratterà in modo ragionevole e secondo i suoi meriti": la colonia è dunque come una donna, e non si parla affatto di emancipazione, ma di sostituire il padre, dimostratosi crudele, con un marito che si dimostrerà ragionevole.
La colonizzazione e la sottomissione devono restare, ma gestite altrimenti, di modo che a guadagnarci saranno sia gli indiani, che non verranno più torturati o sterminati, sia il re di Spagna, che potrà godere di utili maggiori: questo non significa dare un giudizio totalmente negativo su Las Casas, anzi, se vi è qualcuno che ha contribuito a migliorare la sorte degli indiani, è stato proprio lui.
Non toglie nulla alla grandezza del personaggio riconoscere che l'ideologia di Las Casas e di altri difensori degli indiani è colonialista, mentre quella di altri indiani è schiavista: la differenza non è di poco conto, giacché nel secondo caso l'altro è soltanto un oggetto, un essere inferiore, che può essere ucciso per nutrire degli altri indiani o addirittura i cani, oppure per estrarne il grasso, a cui si mozzano tutte le estremità, dal naso, alle mani, ai seni, alla lingua, al sesso, così come si pota un albero, di cui si usa il sangue per innaffiare i campi come fosse l'acqua di un fiume.
Questo modo di utilizzare l'uomo non è però il più redditizio: se anziché ridurre l’uomo al rango di oggetto lo si ritiene un soggetto intermedio capace di produrre oggetti, diventerà allora possibile moltiplicare all’infinito il numero degli oggetti appropriabili, e dunque il profitto crescerà: il soggetto deve rimanere intermedio e gli deve essere vietato di diventare come noi, ed a ciò penserà l'esercito, e il soggetto sarà tanto più produttivo quanto meglio sarà curato, scopo a cui sono preposti i religiosi: l'efficacia del colonialismo è superiore a quella dello schiavismo.

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Se Colombo è da annoverare tra le fila degli schiavisti, possiamo dire che due personaggi tra loro diversissimi (come dimostra anche questo affresco, conservato al Palazzo Nazionale di Città del Messico) come Cortés e Las Casas, sono legati entrambi alla ideologia colonialista: anche se molte cose li dividono, a cominciare dal fatto che Las Casas ama gli indiani ma non li conosce e Cortés invece li conosce ma non prova per loro alcun amore particolare, entrambi sono d’accordo su un punto essenziale: la sottomissione dell’America alla Spagna, l’assimilazione degli indiani alla religione cristiana, la preferenza per il colonialismo a danno dello schiavismo.
Si potrebbe dire che è scorretto definire con il termine colonialismo, che oggi ha assunto valenza negativa, tutte le forme assunte dalla presenza spagnola in America, anche se queste hanno eliminato i sacrifici umani, il cannibalismo, la poligamia, hanno introdotto il cristianesimo, le usanze europee, animali domestici ed utensili: è innegabile che, sebbene certi doni siano stati pagati a caro prezzo, alcuni di tali apporti siano stati positivi.
Se il colonialismo, da un lato, si contrappone allo schiavismo, dall'altro si oppone ad una pura e semplice comunicazione, il diritto della quale è sancito dal principio di Vitoria, secondo cui bisogna permettere una libera circolazione degli uomini, delle idee e dei beni

È però possibile stabilire un criterio etico in base al quale esprimere un giudizio sulla forma delle influenze, basandosi sul fatto che esse siano imposte o proposte, cioè, alla lunga, riconoscano o rifiutino di riconoscere agli altri una libera volontà e la stessa umanità: non è dunque necessario rinchiudersi nella sterile alternativa della giustificazione delle guerre coloniali nel nome della superiorità della civiltà occidentale, o del rifiuto di ogni comunicazione con lo straniero nel nome della propria identità: esiste sempre, secondo il Todorov, e va difesa come un valore, la comunicazione non violenta, di modo che la triade schiavismo-colonialismo-comunicazione possa essere non solo uno strumento di analisi concettuale, ma anche una successione nel tempo.

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