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LA FABULA MILESIA
Il termine "romanzo", nell’ambito della narrativa d’amore e d’avventura in lingua greca e latina fiorita nel periodo ellenistico e greco-romano, è improprio, dal momento che si riferisce a canoni di narrazioni in termini moderni. Nella retorica greca esso è definito διήγημα o μῦθος, in quella latina fabula o fabella. Tuttavia il fatto che non ne esista una descrizione è segno che la fabula non era considerata un genere autonomo con regole proprie.

Il romanzo più antico di cui abbiamo testimonianza, il romanzo di Nino, risale al I secolo a.C. Tuttavia sappiamo che fin dal II secolo a.C. circolavano in Grecia racconti di carattere spregiudicato e licenzioso definiti generalmente Μιλησιακά.

La fabula milesia nasce appunto nel II secolo a.C. in Grecia; si tratta di brevi racconti realistici e divertenti a sfondo erotico e avventuroso narrati in prima persona.

Massimo esponente del genere è Aristide di Mileto (da cui Μιλησιακά), che legò il suo nome alle fabulae perché ne fece una raccolta nel II secolo a.C., mentre prima esse circolavano per lo più in forma orale.

Dalla Ionia arrivarono poi a Roma attraverso la traduzione in latino di Lucio Sisenna, storico e oratore del I secolo a.C., e qui ebbero un’ampia diffusione e un notevole successo.

Ne siamo certi poiché Plutarco, nella Vita di Crasso, racconta che, durante la battaglia contro i Parti a Carre (53 a.C.), racconta che la truppa nelle pause della battaglia, si distraeva con la lettura delle fabulae milesiae tradotte da Lucio Sisenna.

Altra testimonianza di questa grande diffusione ci è fornita da Ovidio.

Ovidio, nei Tristia, per protestare espressamente contro le motivazioni del suo esilio, al quale sarebbe stato condannato probabilmente a causa dell’eccessiva licenziosità dell’Ars Amatoria, afferma che sia Aristide sia Sisenna avevano legato il proprio nome ad un genere più sfrontato del suo, eppure non erano stati esiliati:

 

"iunxit Aristides milesia crimina secum / pulsus Aristides nec tamen urbe sua est" (Trist., II, 413-414)

"vertit Aristiden Sisenna nec obfuit illi historiae turpes inseruisse iocos" (Trist., II, 443-444)

La prima citazione chiarisce un punto importante della tecnica utilizzata dagli scrittori di fabulae milesiae, ovvero la narrazione in prima persona con impostazione autobiografica.

E’ interessante rilevare come Ovidio definisca milesia crimina e turpes iocos le favole in questione con termini simili a quelli utilizzati da Plutarco, Crassus, XXXII, ἀκόλαστα βιβλία vale a dire "libri sfrenati, licenziosi".

Alla tradizione milesia risale anche una tecnica ad incastro in cui un personaggio narra una novella all’interno della vicenda. Questo artificio di fondere diverse novelle è qualificato appunto da Apuleio come sermo milesius: "At ego tibi sermone isto milesio varias fabulas conseram".

Le fabulae milesiae trattavano casi erotici e magici, con interessi per gli eventi soprannaturali e metamorfici.

L’aspetto magico della fabula milesia in Apuleio sembra confermare l’attenzione e il gusto per il macabro e l’orrido testimoniati in età neroniana anche dalle tragedie senecane e dal Bellum Civile di Lucano.

La produzione favolistica latina si può rintracciare anche in altri autori.

In primo luogo Fedro, che nel corso della sua attività letteraria si allontana sempre di più dalle favole esopiche di carattere moralistico, evidenziando nelle sue novelle non tanto il carattere erotico ma quello umoristico.

Riscontriamo caratteri ascrivibili alla fabula milesia anche in Valerio Massimo, nei suoi Factorum Memorabilium Libri, in Plinio il Vecchio e Plinio il Giovane, ma soprattutto in Gellio, vissuto nel II secolo d.C., nelle cui Noctes Atticae, tra aneddoti, ricordi, brevi trattati grammaticali e linguistici, compaiono "admiranda", cioè casi mirabili, degni di essere narrati.

La novità dello schema di tale produzione favolistica è testimoniata anche dal fatto che sarà utilizzato nella letteratura agiografica medievale come modello per l’exemplum edificante.