I Promessi Sposi
Capitolo XXXII
Divenendo sempre più difficile il supplire all'esigenze dolorose della
circostanza, era stato, il 4 di maggio, deciso nel consiglio de' decurioni, di
ricorrer per aiuto al governatore. E, il 22, furono spediti al campo due di quel
corpo, che gli rappresentassero i guai e le strettezze della città: le spese
enormi, le casse vote, le rendite degli anni avvenire impegnate, le imposte
correnti non pagate, per la miseria generale, prodotta da tante cause, e dal
guasto militare in ispecie; gli mettessero in considerazione che, per leggi e
consuetudini non interrotte, e per decreto speciale di Carlo V, le spese della
peste dovevan essere a carico del fisco: in quella del 1576 avere il
governatore, marchese d'Ayamonte, non solo sospese tutte le imposizioni
camerali, ma data alla città una sovvenzione di quaranta mila scudi della stessa
Camera; chiedessero finalmente quattro cose: che l'imposizioni fossero sospese,
come s'era fatto allora; la Camera desse danari; il governatore informasse il
re, delle miserie della città e della provincia; dispensasse da nuovi
alloggiamenti militari il paese già rovinato dai passati. Il governatore scrisse
in risposta condoglianze, e nuove esortazioni: dispiacergli di non poter
trovarsi nella città, per impiegare ogni sua cura in sollievo di quella; ma
sperare che a tutto avrebbe supplito lo zelo di que' signori: questo essere il
tempo di spendere senza risparmio, d'ingegnarsi in ogni maniera. In quanto alle
richieste espresse, proueeré en el mejor modo que el tiempo y necesidades
presentes permitieren. E sotto, un girigogolo, che voleva dire Ambrogio Spinola,
chiaro come le sue promesse. Il gran cancelliere Ferrer gli scrisse che quella
risposta era stata letta dai decurioni, con gran desconsuelo; ci furono altre
andate e venute, domande e risposte; ma non trovo che se ne venisse a più
strette conclusioni. Qualche tempo dopo, nel colmo della peste, il governatore
trasferì, con lettere patenti, la sua autorità a Ferrer medesimo, avendo lui,
come scrisse, da pensare alla guerra. La quale, sia detto qui incidentemente,
dopo aver portato via, senza parlar de' soldati, un milion di persone, a dir
poco, per mezzo del contagio, tra la Lombardia, il Veneziano, il Piemonte, la
Toscana, e una parte della Romagna; dopo aver desolati, come s'è visto di sopra,
i luoghi per cui passò, e figuratevi quelli dove fu fatta; dopo la presa e il
sacco atroce di Mantova; finì con riconoscerne tutti il nuovo duca, per
escludere il quale la guerra era stata intrapresa. Bisogna però dire che fu
obbligato a cedere al duca di Savoia un pezzo del Monferrato, della rendita di
quindici mila scudi, e a Ferrante duca di Guastalla altre terre, della rendita
di sei mila; e che ci fu un altro trattato a parte e segretissimo, col quale il
duca di Savoia suddetto cedé Pinerolo alla Francia: trattato eseguito qualche
tempo dopo, sott'altri pretesti, e a furia di furberie.
Insieme con quella risoluzione, i decurioni ne avevan presa un'altra: di
chiedere al cardinale arcivescovo, che si facesse una processione solenne,
portando per la città il corpo di san Carlo.
Il buon prelato rifiutò, per molte ragioni. Gli dispiaceva quella fiducia in un
mezzo arbitrario, e temeva che, se l'effetto non avesse corrisposto, come pure
temeva, la fiducia si cambiasse in iscandolo. Temeva di più, che, se pur c'era
di questi untori, la processione fosse un'occasion troppo comoda al delitto:
se
non ce n'era, il radunarsi tanta gente non poteva che spander sempre più il
contagio: pericolo ben più reale. Ché il sospetto sopito dell'unzioni s'era
intanto ridestato, più generale e più furioso di prima.
S'era visto di nuovo, o questa volta era parso di vedere, unte muraglie, porte
d'edifizi pubblici, usci di case, martelli. Le nuove di tali scoperte volavan di
bocca in bocca; e, come accade più che mai, quando gli animi son preoccupati, il
sentire faceva l'effetto del vedere. Gli animi, sempre più amareggiati dalla
presenza de' mali, irritati dall'insistenza del pericolo, abbracciavano più
volentieri quella credenza: ché la collera aspira a punire: e, come osservò
acutamente, a questo stesso proposito, un uomo d'ingegno, le piace più
d'attribuire i mali a una perversità umana, contro cui possa far le sue
vendette, che di riconoscerli da una causa, con la quale non ci sia altro da
fare che rassegnarsi. Un veleno squisito, istantaneo, penetrantissimo, eran
parole più che bastanti a spiegar la violenza, e tutti gli accidenti più oscuri
e disordinati del morbo. Si diceva composto, quel veleno, di rospi, di serpenti,
di bava e di materia d'appestati, di peggio, di tutto ciò che selvagge e
stravolte fantasie sapessero trovar di sozzo e d'atroce. Vi s'aggiunsero poi le
malìe, per le quali ogni effetto diveniva possibile, ogni obiezione perdeva la
forza, si scioglieva ogni difficoltà. Se gli effetti non s'eran veduti subito
dopo quella prima unzione, se ne capiva il perché; era stato un tentativo
sbagliato di venefici ancor novizi: ora l'arte era perfezionata, e le volontà
più accanite nell'infernale proposito. Ormai chi avesse sostenuto ancora ch'era
stata una burla, chi avesse negata l'esistenza d'una trama, passava per cieco,
per ostinato; se pur non cadeva in sospetto d'uomo interessato a stornar dal
vero l'attenzion del pubblico, di complice, d'untore: il vocabolo fu ben presto
comune, solenne, tremendo. Con una tal persuasione che ci fossero untori, se ne
doveva scoprire, quasi infallibilmente: tutti gli occhi stavano all'erta; ogni
atto poteva dar gelosia. E la gelosia diveniva facilmente certezza, la certezza
furore.
Due fatti ne adduce in prova il Ripamonti, avvertendo d'averli scelti, non come
i più atroci tra quelli che seguivano giornalmente, ma perché dell'uno e
dell'altro era stato pur troppo testimonio.
Nella chiesa di sant'Antonio, un giorno di non so quale solennità, un vecchio
più che ottuagenario, dopo aver pregato alquanto inginocchioni, volle mettersi a
sedere; e prima, con la cappa, spolverò la panca. "Quel vecchio unge le panche!"
gridarono a una voce alcune donne che vider l'atto. La gente che si trovava in
chiesa (in chiesa!), fu addosso al vecchio; lo prendon per i capelli, bianchi
com'erano; lo carican di pugni e di calci; parte lo tirano, parte lo spingon
fuori; se non lo finirono, fu per istrascinarlo, così semivivo, alla prigione,
ai giudici, alle torture. "Io lo vidi mentre lo strascinavan così," dice il
Ripamonti: "e non ne seppi piu altro: credo bene che non abbia potuto
sopravvivere più di qualche momento."
L'altro caso (e seguì il giorno dopo) fu ugualmente strano, ma non ugualmente
funesto. Tre giovani compagni francesi, un letterato, un pittore, un meccanico,
venuti per veder l'Italia, per istudiarvi le antichità, e per cercarvi occasion
di guadagno, s'erano accostati a non so qual parte esterna del duomo, e stavan
lì guardando attentamente. Uno che passava, li vede e si ferma; gli accenna a un
altro, ad altri che arrivano: si formò un crocchio, a guardare, a tener d'occhio
coloro, che il vestiario, la capigliatura, le bisacce, accusavano di stranieri
e, quel ch'era peggio, di francesi. Come per accertarsi ch'era marmo, stesero
essi la mano a toccare. Bastò. Furono circondati, afferrati, malmenati, spinti,
a furia di percosse, alle carceri. Per buona sorte, il palazzo di giustizia è
poco lontano dal duomo; e, per una sorte ancor più felice, furon trovati
innocenti, e rilasciati.
Né tali cose accadevan soltanto in città: la frenesia s'era propagata come il
contagio. Il viandante che fosse incontrato da de' contadini, fuor della strada
maestra, o che in quella si dondolasse a guardar in qua e in là, o si buttasse
giú per riposarsi; lo sconosciuto a cui si trovasse qualcosa di strano, di
sospetto nel volto, nel vestito, erano untori: al primo avviso di chi si fosse,
al grido d'un ragazzo, si sonava a martello, s'accorreva; gl'infelici eran
tempestati di pietre, o, presi, venivan menati, a furia di popolo, in prigione.
Così il Ripamonti medesimo. E la prigione, fino a un certo tempo, era un porto
di salvamento.
Ma i decurioni, non disanimati dal rifiuto del savio prelato, andavan replicando
le loro istanze, che il voto pubblico secondava rumorosamente. Federigo
resistette ancor qualche tempo, cercò di convincerli; questo è quello che poté
il senno d'un uomo, contro la forza de' tempi, e l'insistenza di molti. In
quello stato d'opinioni, con l'idea del pericolo, confusa com'era allora,
contrastata, ben lontana dall'evidenza che ci si trova ora, non è difficile a
capire come le sue buone ragioni potessero, anche nella sua mente, esser
soggiogate dalle cattive degli altri. Se poi, nel ceder che fece, avesse o non
avesse parte un po' di debolezza della volontà, sono misteri del cuore umano.
Certo, se in alcun caso par che si possa dare in tutto l'errore all'intelletto,
e scusarne la coscienza, è quando si tratti di que' pochi (e questo fu ben del
numero), nella vita intera de' quali apparisca un ubbidir risoluto alla
coscienza, senza riguardo a interessi temporali di nessun genere. Al replicar
dell'istanze, cedette egli dunque, acconsentì che si facesse la processione,
acconsentì di più al desiderio, alla premura generale, che la cassa dov'eran
rinchiuse le reliquie di san Carlo, rimanesse dopo esposta, per otto giorni,
sull'altar maggiore del duomo.
Non trovo che il tribunale della sanità, né altri, facessero rimostranza né
opposizione di sorte alcuna. Soltanto, il tribunale suddetto ordinò alcune
precauzioni che, senza riparare al pericolo, ne indicavano il timore. Prescrisse
più strette regole per l'entrata delle persone in città; e, per assicurarne
l'esecuzione, fece star chiuse le porte: come pure, affine d'escludere, per
quanto fosse possibile, dalla radunanza gli infetti e i sospetti, fece inchiodar
gli usci delle case sequestrate: le quali, per quanto può valere, in un fatto di
questa sorte, la semplice affermazione d'uno scrittore, e d'uno scrittore di
quel tempo, eran circa cinquecento.
Tre giorni furono spesi in preparativi: l'undici di giugno, ch'era il giorno
stabilito, la processione uscì, sull'alba, dal duomo. Andava dinanzi una lunga
schiera di popolo, donne la più parte, coperte il volto d'ampi zendali, molte
scalze, e vestite di sacco. Venivan poi l'arti, precedute da' loro gonfaloni, le
confraternite, in abiti vari di forme e di colori; poi le fraterie, poi il clero
secolare, ognuno con l'insegne del grado, e con una candela o un torcetto in
mano. Nel mezzo, tra il chiarore di più fitti lumi, tra un rumor più alto di
canti, sotto un ricco baldacchino, s'avanzava la cassa, portata da quattro
canonici, parati in gran pompa, che si cambiavano ogni tanto. Dai cristalli
traspariva il venerato cadavere, vestito di splendidi abiti pontificali, e
mitrato il teschio; e nelle forme mutilate e scomposte, si poteva ancora
distinguere qualche vestigio dell'antico sembiante, quale lo rappresentano
l'immagini, quale alcuni si ricordavan d'averlo visto e onorato in vita. Dietro
la spoglia del morto pastore (dice il Ripamonti, da cui principalmente prendiamo
questa descrizione), e vicino a lui, come di meriti e di sangue e di dignità,
così ora anche di persona, veniva l'arcivescovo Federigo. Seguiva l'altra parte
del clero; poi i magistrati, con gli abiti di maggior cerimonia; poi i nobili,
quali vestiti sfarzosamente, come a dimostrazione solenne di culto, quali, in
segno di penitenza, abbrunati, o scalzi e incappati, con la buffa sul viso;
tutti con torcetti. Finalmente una coda d'altro popolo misto.
Tutta la strada era parata a festa; i ricchi avevan cavate fuori le
suppellettili più preziose; le facciate delle case povere erano state ornate da
de' vicini benestanti, o a pubbliche spese; dove in luogo di parati, dove sopra
i parati, c'eran de' rami fronzuti; da ogni parte pendevano quadri, iscrizioni,
imprese; su' davanzali delle finestre stavano in mostra vasi, anticaglie, rarità
diverse; per tutto lumi. A molte di quelle finestre, infermi sequestrati
guardavan la processione, e l'accompagnavano con le loro preci. L'altre strade,
mute, deserte; se non che alcuni, pur dalle finestre, tendevan l'orecchio al
ronzìo vagabondo; altri, e tra questi si videro fin delle monache, eran saliti
sui tetti, se di lì potessero veder da lontano quella cassa, il corteggio,
qualche cosa.
La processione passò per tutti i quartieri della città: a ognuno di que'
crocicchi, o piazzette, dove le strade principali sboccan ne' borghi, e che
allora serbavano l'antico nome di carrobi, ora rimasto a uno solo, si faceva una
fermata, posando la cassa accanto alla croce che in ognuno era stata eretta da
san Carlo, nella peste antecedente, e delle quali alcune sono tuttavia in piedi:
di maniera che si tornò in duomo un pezzo dopo il mezzogiorno.
Ed ecco che, il giorno seguente, mentre appunto regnava quella presontuosa
fiducia, anzi in molti una fanatica sicurezza che la processione dovesse aver
troncata la peste, le morti crebbero, in ogni classe, in ogni parte della città,
a un tal eccesso, con un salto così subitaneo, che non ci fu chi non ne vedesse
la causa, o l'occasione, nella processione medesima. Ma, oh forze mirabili e
dolorose d'un pregiudizio generale! non già al trovarsi insieme tante persone, e
per tanto tempo, non all'infinita moltiplicazione de' contatti fortuiti,
attribuivano i più quell'effetto; l'attribuivano alla facilità che gli untori ci
avessero trovata d'eseguire in grande il loro empio disegno. Si disse che,
mescolati nella folla, avessero infettati col loro unguento quanti più avevan
potuto. Ma siccome questo non pareva un mezzo bastante, né appropriato a una
mortalità così vasta, e così diffusa in ogni classe di persone; siccome, a quel
che pare, non era stato possibile all'occhio così attento, e pur così
travedente, del sospetto, di scorgere untumi, macchie di nessuna sorte, su'
muri, né altrove; così si ricorse, per la spiegazion del fatto, a quell'altro
ritrovato, già vecchio, e ricevuto allora nella scienza comune d'Europa, delle
polveri venefiche e malefiche; si disse che polveri tali, sparse lungo la
strada, e specialmente ai luoghi delle fermate, si fossero attaccate agli
strascichi de' vestiti, e tanto più ai piedi, che in gran numero erano quel
giorno andati in giro scalzi. "Vide pertanto," dice uno scrittore contemporaneo,
"l'istesso giorno della processione, la pietà cozzar con l'empietà, la perfidia
con la sincerità, la perdita con l'acquisto." Ed era in vece il povero senno
umano che cozzava co' fantasmi creati da sé.
Da quel giorno, la furia del contagio andò sempre crescendo: in poco tempo, non
ci fu quasi più casa che non fosse toccata: in poco tempo la popolazione del
lazzeretto, al dir del Somaglia citato di sopra, montò da duemila a dodici mila:
più tardi, al dir di quasi tutti, arrivò fino a sedici mila. Il 4 di luglio,
come trovo in un'altra lettera de' conservatori della sanità al governatore, la
mortalità giornaliera oltrepassava i cinquecento. Più innanzi, e nel colmo,
arrivò, secondo il calcolo più comune, a mille dugento, mille cinquecento; e a
più di tremila cinquecento, se vogliam credere al Tadino. Il quale anche afferma
che, "per le diligenze fatte o, dopo la peste, si trovò la popolazion di Milano
ridotta a poco più di sessantaquattro mila anime, e che prima passava le dugento
cinquanta mila." Secondo il Ripamonti, era di sole dugento mila: de' morti, dice
che ne risultava cento quaranta mila da' registri civici, oltre quelli di cui
non si poté tener conto. Altri dicon più o meno, ma ancor più a caso.
Si pensi ora in che angustie dovessero trovarsi i decurioni, addosso ai quali
era rimasto il peso di provvedere alle pubbliche necessità, di riparare a ciò
che c'era di riparabile in un tal disastro. Bisognava ogni giorno sostituire,
ogni giorno aumentare serventi pubblici di varie specie: monatti, apparitori,
commissari. I primi erano addetti ai servizi più penosi e pericolosi della
pestilenza: levar dalle case, dalle strade, dal lazzeretto, i cadaveri; condurli
sui carri alle fosse, e sotterrarli; portare o guidare al lazzeretto gl'infermi,
e governarli; bruciare, purgare la roba infetta e sospetta. Il nome, vuole il
Ripamonti che venga dal greco monos; Gaspare Bugatti (in una descrizion della
peste antecedente), dal latino monere; ma insieme dubita, con più ragione, che
sia parola tedesca, per esser quegli uomini arrolati la più parte nella Svizzera
e ne' Grigioni. Né sarebbe infatti assurdo il crederlo una troncatura del
vocabolo monathlich (mensuale); giacché, nell'incertezza di quanto potesse
durare il bisogno, è probabile che gli accordi non fossero che di mese in mese.
L'impiego speciale degli apparitori era di precedere i carri, avvertendo, col
suono d'un campanello, i passeggieri, che si ritirassero. I commissari
regolavano gli uni e gli altri, sotto gli ordini immediati del tribunale della
sanità. Bisognava tener fornito il lazzeretto di medici, di chirurghi, di
medicine, di vitto, di tutti gli attrezzi d'infermeria; bisognava trovare e
preparar nuovo alloggio per gli ammalati che sopraggiungevano ogni giorno. Si
fecero a quest'effetto costruire in fretta capanne di legno e di paglia nello
spazio interno del lazzeretto; se ne piantò un nuovo, tutto di capanne, cinto da
un semplice assito, e capace di contener quattromila persone. E non bastando, ne
furon decretati due altri; ci si mise anche mano; ma, per mancanza di mezzi
d'ogni genere, rimasero in tronco. I mezzi, le persone, il coraggio, diminuivano
di mano in mano che il bisogno cresceva.
E non solo l'esecuzione rimaneva sempre addietro de' progetti e degli ordini;
non solo, a molte necessità, pur troppo riconosciute, si provvedeva scarsamente,
anche in parole; s'arrivò a quest'eccesso d'impotenza e di disperazione, che a
molte, e delle più pietose, come delle più urgenti, non si provvedeva in nessuna
maniera. Moriva, per esempio, d'abbandono una gran quantità di bambini, ai quali
eran morte le madri di peste: la Sanità propose che s'istituisse un ricovero per
questi e per le partorienti bisognose, che qualcosa si facesse per loro; e non
poté ottener nulla. "Si doueua non di meno," dice il Tadino, "compatire ancora
alli Decurioni della Città, li quali si trouauano afflitti, mesti et lacerati
dalla Soldatesca senza regola, et rispetto alcuno; come molto meno nell'infelice
Ducato, atteso che aggiutto alcuno, né prouisione si poteua hauere dal
Gouernatore, se non che si trouaua tempo di guerra, et bisognaua trattar bene li
Soldati." Tanto importava il prender Casale! Tanto par bella la lode del
vincere, indipendentemente dalla cagione, dallo scopo per cui si combatta!
Così pure, trovandosi colma di cadaveri un'ampia, ma unica fossa, ch'era stata
scavata vicino al lazzeretto; e rimanendo, non solo in quello, ma in ogni parte
della città, insepolti i nuovi cadaveri, che ogni giorno eran di più, i
magistrati, dopo avere invano cercato braccia per il tristo lavoro, s'eran
ridotti a dire di non saper più che partito prendere. Né si vede come sarebbe
andata a finire, se non veniva un soccorso straordinario. Il presidente della
Sanità ricorse, per disperato, con le lacrime agli occhi, a que' due bravi frati
che soprintendevano al lazzeretto; e il padre Michele s'impegnò a dargli, in
capo a quattro giorni, sgombra la città di cadaveri; in capo a otto, aperte
fosse sufficienti, non solo al bisogno presente, ma a quello che si potesse
preveder di peggio nell'avvenire. Con un frate compagno, e con persone del
tribunale, dategli dal presidente, andò fuor della città, in cerca di contadini;
e, parte con l'autorità del tribunale, parte con quella dell'abito e delle sue
parole, ne raccolse circa dugento, ai quali fece scavar tre grandissime fosse;
spedì poi dal lazzeretto monatti a raccogliere i morti; tanto che, il giorno
prefisso, la sua promessa si trovò adempita.
Una volta, il lazzeretto rimase senza medici; e, con offerte di grosse paghe e
d'onori, a fatica e non subito, se ne poté avere; ma molto men del bisogno. Fu
spesso lì lì per mancare affatto di viveri, a segno di temere che ci s'avesse a
morire anche di fame; e più d'una volta, mentre non si sapeva più dove batter la
testa per trovare il bisognevole, vennero a tempo abbondanti sussidi, per
inaspettato dono di misericordia privata: ché, in mezzo allo stordimento
generale, all'indifferenza per gli altri, nata dal continuo temer per sé, ci
furono degli animi sempre desti alla carità, ce ne furon degli altri in cui la
carità nacque al cessare d'ogni allegrezza terrena; come, nella strage e nella
fuga di molti a cui toccava di soprintendere e di provvedere, ce ne furono
alcuni, sani sempre di corpo, e saldi di coraggio al loro posto: ci furon pure
altri che, spinti dalla pietà, assunsero e sostennero virtuosamente le cure a
cui non eran chiamati per impiego.
Dove spiccò una più generale e più pronta e costante fedeltà ai doveri difficili
della circostanza, fu negli ecclesiastici. Ai lazzeretti, nella città, non mancò
mai la loro assistenza: dove si pativa, ce n'era; sempre si videro mescolati,
confusi co' languenti, co' moribondi, languenti e moribondi qualche volta loro
medesimi; ai soccorsi spirituali aggiungevano, per quanto potessero, i
temporali; prestavano ogni servizio che richiedessero le circostanze. Più di
sessanta parrochi, della città solamente, moriron di contagio: gli otto noni,
all'incirca.
Federigo dava a tutti, com'era da aspettarsi da lui, incitamento ed esempio.
Mortagli intorno quasi tutta la famiglia arcivescovile, e facendogli istanza
parenti, alti magistrati, principi circonvicini, che s'allontanasse dal
pericolo, ritirandosi in qualche villa, rigettò un tal consiglio, e resistette
all'istanze, con quell'animo, con cui scriveva ai parrochi: "siate disposti ad
abbandonar questa vita mortale, piuttosto che questa famiglia, questa
figliolanza nostra: andate con amore incontro alla peste, come a un premio, come
a una vita, quando ci sia da guadagnare un'anima a Cristo." Non trascurò quelle
cautele che non gl'impedissero di fare il suo dovere (sulla qual cosa diede
anche istruzioni e regole al clero); e insieme non curò il pericolo, né parve
che se n'avvedesse, quando, per far del bene, bisognava passar per quello. Senza
parlare degli ecclesiastici, coi quali era sempre per lodare e regolare il loro
zelo, per eccitare chiunque di loro andasse freddo nel lavoro, per mandarli ai
posti dove altri eran morti, volle che fosse aperto l'adito a chiunque avesse
bisogno di lui. Visitava i lazzeretti, per dar consolazione agl'infermi, e per
animare i serventi; scorreva la città, portando soccorsi ai poveri sequestrati
nelle case, fermandosi agli usci, sotto le finestre, ad ascoltare i loro
lamenti, a dare in cambio parole di consolazione e di coraggio. Si cacciò in
somma e visse nel mezzo della pestilenza, maravigliato anche lui alla fine,
d'esserne uscito illeso.
Così, ne' pubblici infortuni, e nelle lunghe perturbazioni di quel qual si sia
ordine consueto, si vede sempre un aumento, una sublimazione di virtú; ma, pur
troppo, non manca mai insieme un aumento, e d'ordinario ben più generale, di
perversità. E questo pure fu segnalato. I birboni che la peste risparmiava e non
atterriva, trovarono nella confusion comune, nel rilasciamento d'ogni forza
pubblica, una nuova occasione d'attività, e una nuova sicurezza d'impunità a un
tempo. Che anzi, l'uso della forza pubblica stessa venne a trovarsi in gran
parte nelle mani de' peggiori tra loro. All'impiego di monatti e d'apparitori
non s'adattavano generalmente che uomini sui quali l'attrattiva delle rapine e
della licenza potesse più che il terror del contagio, che ogni naturale
ribrezzo. Erano a costoro prescritte strettissime regole, intimate severissime
pene, assegnati posti, dati per superiori de' commissari, come abbiam detto;
sopra questi e quelli eran delegati in ogni quartiere, magistrati e nobili, con
l'autorità di provveder sommariamente a ogni occorrenza di buon governo. Un tal
ordin di cose camminò, e fece effetto, fino a un certo tempo; ma, crescendo,
ogni giorno, il numero di quelli che morivano, di quelli che andavan via, di
quelli che perdevan la testa, venner coloro a non aver quasi piu nessuno che li
tenesse a freno; si fecero, i monatti principalmente, arbitri d'ogni cosa.
Entravano da padroni, da nemici nelle case, e, senza parlar de' rubamenti, e
come trattavano gl'infelici ridotti dalla peste a passar per tali mani, le
mettevano, quelle mani infette e scellerate, sui sani, figliuoli, parenti,
mogli, mariti, minacciando di strascinarli al lazzeretto, se non si
riscattavano, o non venivano riscattati con danari. Altre volte, mettevano a
prezzo i loro servizi, ricusando di portar via i cadaveri già putrefatti, a meno
di tanti scudi. Si disse (e tra la leggerezza degli uni e la malvagità degli
altri, è ugualmente malsicuro il credere e il non credere), si disse, e
l'afferma anche il Tadino (Pag. 102.), che monatti e apparitori lasciassero
cadere apposta dai carri robe infette, per propagare e mantenere la pestilenza,
divenuta per essi un'entrata, un regno, una festa. Altri sciagurati, fingendosi
monatti, portando un campanello attaccato a un piede, com'era prescritto a
quelli, per distintivo e per avviso del loro avvicinarsi, s'introducevano nelle
case a farne di tutte le sorte. In alcune, aperte e vote d'abitanti, o abitate
soltanto da qualche languente, da qualche moribondo, entravan ladri, a man
salva, a saccheggiare: altre venivan sorprese, invase da birri che facevan lo
stesso, e anche cose peggiori.
Del pari con la perversità, crebbe la pazzia: tutti gli errori già dominanti piu
o meno, presero dallo sbalordimento, e dall'agitazione delle menti, una forza
straordinaria, produssero effetti piu rapidi e piu vasti. E tutti servirono a
rinforzare e a ingrandire quella paura speciale dell'unzioni, la quale, ne' suoi
effetti, ne' suoi sfoghi, era spesso, come abbiam veduto, un'altra perversità.
L'immagine di quel supposto pericolo assediava e martirizzava gli animi, molto
più che il pericolo reale e presente. "E mentre," dice il Ripamonti, "i cadaveri
sparsi, o i mucchi di cadaveri, sempre davanti agli occhi, sempre tra' piedi,
facevano della città tutta come un solo mortorio, c'era qualcosa di più brutto,
di più funesto, in quell'accanimento vicendevole, in quella sfrenatezza e
mostruosità di sospetti... Non del vicino soltanto si prendeva ombra,
dell'amico, dell'ospite; ma que' nomi, que' vincoli dell'umana carità, marito e
moglie, padre e figlio, fratello e fratello, eran di terrore: e, cosa orribile e
indegna a dirsi! la mensa domestica, il letto nuziale, si temevano, come
agguati, come nascondigli di venefizio."
La vastità immaginata, la stranezza della trama turbavan tutti i giudizi,
alteravan tutte le ragioni della fiducia reciproca. Da principio, si credeva
soltanto che quei supposti untori fosser mossi dall'ambizione e dalla cupidigia;
andando avanti, si sognò, si credette che ci fosse una non so quale voluttà
diabolica in quell'ungere, un'attrattiva che dominasse le volontà. I
vaneggiamenti degl'infermi che accusavan se stessi di ciò che avevan temuto
dagli altri, parevano rivelazioni, e rendevano ogni cosa, per dir così,
credibile d'ognuno. E più delle parole, dovevan far colpo le dimostrazioni, se
accadeva che appestati in delirio andasser facendo di quegli atti che s'erano
figurati che dovessero fare gli untori: cosa insieme molto probabile, e atta a
dar miglior ragione della persuasion generale e dell'affermazioni di molti
scrittori. Così, nel lungo e tristo periodo de' processi per stregoneria, le
confessioni, non sempre estorte, degl'imputati, non serviron poco a promovere e
a mantener l'opinione che regnava intorno ad essa: ché, quando un'opinione regna
per lungo tempo, e in una buona parte del mondo, finisce a esprimersi in tutte
le maniere, a tentar tutte l'uscite, a scorrer per tutti i gradi della
persuasione; ed è difficile che tutti o moltissimi credano a lungo che una cosa
strana si faccia, senza che venga alcuno il quale creda di farla.
Tra le storie che quel delirio dell'unzioni fece immaginare, una merita che se
ne faccia menzione, per il credito che acquistò, e per il giro che fece. Si
raccontava, non da tutti nell'istessa maniera (che sarebbe un troppo singolar
privilegio delle favole), ma a un di presso, che un tale, il tal giorno, aveva
visto arrivar sulla piazza del duomo un tiro a sei, e dentro, con altri, un gran
personaggio, con una faccia fosca e infocata, con gli occhi accesi, coi capelli
ritti, e il labbro atteggiato di minaccia. Mentre quel tale stava intento a
guardare, la carrozza s'era fermata; e il cocchiere l'aveva invitato a salirvi;
e lui non aveva saputo dir di no. Dopo diversi rigiri, erano smontati alla porta
d'un tal palazzo, dove entrato anche lui, con la compagnia, aveva trovato
amenità e orrori, deserti e giardini, caverne e sale; e in esse, fantasime
sedute a consiglio. Finalmente, gli erano state fatte vedere gran casse di
danaro, e detto che ne prendesse quanto gli fosse piaciuto, con questo però, che
accettasse un vasetto d'unguento, e andasse con esso ungendo per la città. Ma,
non avendo voluto acconsentire, s'era trovato, in un batter d'occhio, nel
medesimo luogo dove era stato preso. Questa storia, creduta qui generalmente dal
popolo, e, al dir del Ripamonti, non abbastanza derisa da qualche uomo di peso,
girò per tutta Italia e fuori. In Germania se ne fece una stampa: l'elettore
arcivescovo di Magonza scrisse al cardinal Federigo, per domandargli cosa si
dovesse credere de' fatti maravigliosi che si raccontavan di Milano; e n'ebbe in
risposta ch'eran sogni.
D'ugual valore, se non in tutto d'ugual natura, erano i sogni de' dotti; come
disastrosi del pari n'eran gli effetti. Vedevano, la più parte di loro,
l'annunzio e la ragione insieme de' guai in una cometa apparsa l'anno 1628, e in
una congiunzione di Saturno con Giove, "inclinando," scrive il Tadino, "la
congiontione sodetta sopra questo anno 1630, tanto chiara, che ciascun la poteua
intendere. Mortales parat morbos, miranda videntur." Questa predizione, cavata,
dicevano, da un libro intitolato Specchio degli almanacchi perfetti, stampato in
Torino, nel 1623, correva per le bocche di tutti. Un'altra cometa, apparsa nel
giugno dell'anno stesso della peste, si prese per un nuovo avviso; anzi per una
prova manifesta dell'unzioni. Pescavan ne' libri, e pur troppo ne trovavano in
quantità, esempi di peste, come dicevano, manufatta: citavano Livio, Tacito,
Dione, che dico? Omero e Ovidio, i molti altri antichi che hanno raccontati o
accennati fatti somiglianti: di moderni ne avevano ancor più in abbondanza.
Citavano cent'altri autori che hanno trattato dottrinalmente, o parlato
incidentemente di veleni, di malìe, d'unti, di polveri: il Cesalpino, il
Cardano, il Grevino, il Salio, il Pareo, lo Schenchio, lo Zachia e, per finirla,
quel funesto Delrio, il quale, se la rinomanza degli autori fosse in ragione del
bene e del male prodotto dalle loro opere, dovrebb'essere uno de' più famosi;
quel Delrio, le cui veglie costaron la vita a più uomini che l'imprese di
qualche conquistatore: quel Delrio, le cui Disquisizioni Magiche (il ristretto
di tutto ciò che gli uomini avevano, fino a' suoi tempi, sognato in quella
materia), divenute il testo più autorevole, più irrefragabile, furono, per più
d'un secolo, norma e impulso potente di legali, orribili, non interrotte
carnificine.
Da' trovati del volgo, la gente istruita prendeva ciò che si poteva accomodar
con le sue idee; da' trovati della gente istruita, il volgo prendeva ciò che ne
poteva intendere, e come lo poteva; e di tutto si formava una massa enorme e
confusa di pubblica follia.
Ma ciò che reca maggior maraviglia, è il vedere i medici, dico i medici che fin
da principio avevan creduta la peste, dico in ispecie il Tadino, il quale
l'aveva pronosticata, vista entrare, tenuta d'occhio, per dir così, nel suo
progresso, il quale aveva detto e predicato che l'era peste, e s'attaccava col
contatto, che non mettendovi riparo, ne sarebbe infettato tutto il paese,
vederlo poi, da questi effetti medesimi cavare argomento certo dell'unzioni
venefiche e malefiche; lui che in quel Carlo Colonna, il secondo che morì di
peste in Milano, aveva notato il delirio come un accidente della malattia,
vederlo poi addurre in prova dell'unzioni e della congiura diabolica, un fatto
di questa sorte: che due testimoni deponevano d'aver sentito raccontare da un
loro amico infermo, come, una notte, gli eran venute persone in camera, a
esibirgli la guarigione e danari, se avesse voluto unger le case del contorno; e
come al suo rifiuto quelli se n'erano andati, e in loro vece, era rimasto un
lupo sotto il letto, e tre gattoni sopra, "che sino al far del giorno vi
dimororno."
Se fosse stato uno solo che connettesse così, si dovrebbe dire che
aveva una testa curiosa; o piuttosto non ci sarebbe ragion di parlarne; ma
siccome eran molti, anzi quasi tutti, così è storia dello spirito umano, e dà
occasion d'osservare quanto una serie ordinata e ragionevole d'idee possa essere
scompigliata da un'altra serie d'idee, che ci si getti a traverso. Del resto,
quel Tadino era qui uno degli uomini più riputati del suo tempo.
Due illustri e benemeriti scrittori hanno affermato che il cardinal Federigo
dubitasse del fatto dell'unzioni . Noi vorremmo poter dare a quell'inclita e
amabile memoria una lode ancor più intera, e rappresentare il buon prelato, in
questo, come in tant'altre cose, superiore alla più parte de' suoi
contemporanei, ma siamo in vece costretti di notar di nuovo in lui un esempio
della forza d'un'opinione comune anche sulle menti più nobili. S'è visto, almeno
da quel che ne dice il Ripamonti, come da principio, veramente stesse in dubbio:
ritenne poi sempre che in quell'opinione avesse gran parte la credulità,
l'ignoranza, la paura, il desiderio di scusarsi d'aver così tardi riconosciuto
il contagio, e pensato a mettervi riparo; che molto ci fosse d'esagerato, ma
insieme, che qualche cosa ci fosse di vero. Nella biblioteca ambrosiana si
conserva un'operetta scritta di sua mano intorno a quella peste; e questo
sentimento c'è accennato spesso, anzi una volta enunciato espressamente. "Era
opinion comune," dice a un di presso, "che di questi unguenti se ne componesse
in vari luoghi, e che molte fossero l'arti di metterlo in opera: delle quali
alcune ci paion vere, altre inventate."
Ci furon però di quelli che pensarono fino alla fine, e fin che vissero, che
tutto fosse immaginazione: e lo sappiamo, non da loro, ché nessuno fu abbastanza
ardito per esporre al pubblico un sentimento così opposto a quello del pubblico;
lo sappiamo dagli scrittori che lo deridono o lo riprendono o lo ribattono, come
un pregiudizio d'alcuni, un errore che non s'attentava di venire a disputa
palese, ma che pur viveva; lo sappiamo anche da chi ne aveva notizia per
tradizione. "Ho trovato gente savia in Milano," dice il buon Muratori, nel luogo
sopraccitato, "che aveva buone relazioni dai loro maggiori, e non era molto
persuasa che fosse vero il fatto di quegli unti velenosi." Si vede ch'era uno
sfogo segreto della verità, una confidenza domestica: il buon senso c'era; ma se
ne stava nascosto, per paura del senso comune.
I magistrati, scemati ogni giorno, e sempre più smarriti e confusi, tutta, per
dir così, quella poca risoluzione di cui eran capaci, l'impiegarono a cercar di
questi untori. Tra le carte del tempo della peste, che si conservano
nell'archivio nominato di sopra, c'è una lettera (senza alcun altro documento
relativo) in cui il gran cancelliere informa, sul serio e con gran premura, il
governatore d'aver ricevuto un avviso che, in una casa di campagna de' fratelli
Girolamo e Giulio Monti, gentiluomini milanesi, si componeva veleno in tanta
quantità, che quaranta uomini erano occupati en este exercicio, con l'assistenza
di quattro cavalieri bresciani, i quali facevano venir materiali dal veneziano,
para la fábrica del veneno. Soggiunge che lui aveva preso, in gran segreto, i
concerti necessari per mandar là il podestà di Milano e l'auditore della Sanità,
con trenta soldati di cavalleria; che pur troppo uno de' fratelli era stato
avvertito a tempo per poter trafugare gl'indizi del delitto, e probabilmente
dall'auditor medesimo, suo amico; e che questo trovava delle scuse per non
partire; ma che non ostante, il podestà co' soldati era andato a reconocer la
casa, y a ver si hallará algunos vestigios, e prendere informazioni, e arrestar
tutti quelli che fossero incolpati.
La cosa dové finire in nulla, giacché gli scritti del tempo che parlano de'
sospetti che c'eran su que' gentiluomini, non citano alcun fatto. Ma pur troppo,
in un'altra occasione, si credé d'aver trovato.
I processi che ne vennero in conseguenza, non eran certamente i primi d'un tal
genere: e non si può neppur considerarli come una rarità nella storia della
giurisprudenza. Ché, per tacere dell'antichità, e accennar solo qualcosa de'
tempi più vicini a quello di cui trattiamo, in Palermo, del 1526; in Ginevra,
del 1530, poi del 1545, poi ancora del 1574; in Casal Monferrato, del 1536; in
Padova, del 1555; in Torino, del 1599, e di nuovo, in quel medesim'anno 1630,
furon processati e condannati a supplizi, per lo più atrocissimi, dove
qualcheduno, dove molti infelici, come rei d'aver propagata la peste, con
polveri, o con unguenti, o con malìe, o con tutto ciò insieme. Ma l'affare delle
così dette unzioni di Milano, come fu il più celebre, così è fors'anche il più
osservabile; o, almeno, c'è più campo di farci sopra osservazione, per esserne
rimasti documenti più circostanziati e più autentici. E quantunque uno scrittore
lodato poco sopra se ne sia occupato, pure, essendosi lui proposto, non tanto di
farne propriamente la storia, quanto di cavarne sussidio di ragioni, per un
assunto di maggiore, o certo di più immediata importanza, c'è parso che la
storia potesse esser materia d'un nuovo lavoro. Ma non è cosa da uscirne con
poche parole; e non è qui il luogo di trattarla con l'estensione che merita. E
oltre di ciò, dopo essersi fermato su que' casi, il lettore non si curerebbe più
certamente di conoscere ciò che rimane del nostro racconto. Serbando però a un
altro scritto la storia e l'esame di quelli , torneremo finalmente a' nostri
personaggi, per non lasciarli più, fino alla fine.