I Promessi Sposi
Capitolo XXXIII
Una notte, verso la fine d'agosto, proprio nel colmo della
peste, tornava don Rodrigo a casa sua, in Milano, accompagnato dal fedel Griso,
l'uno de' tre o quattro che, di tutta la famiglia, gli eran rimasti vivi.
Tornava da un ridotto d'amici soliti a straviziare insieme, per passar la
malinconia di quel tempo: e ogni volta ce n'eran de' nuovi, e ne mancava de'
vecchi. Quel giorno, don Rodrigo era stato uno de' piú allegri; e tra l'altre
cose, aveva fatto rider tanto la compagnia, con una specie d'elogio funebre del
conte Attilio, portato via dalla peste, due giorni prima.
Camminando però, sentiva un mal essere, un abbattimento, una fiacchezza di
gambe, una gravezza di respiro, un'arsione interna, che avrebbe voluto attribuir
solamente al vino, alla veglia, alla stagione. Non aprì bocca, per tutta la
strada; e la prima parola, arrivati a casa, fu d'ordinare al Griso che gli
facesse lume per andare in camera. Quando ci furono, il Griso osservò il viso
del padrone, stravolto, acceso, con gli occhi in fuori, e lustri lustri; e gli
stava alla lontana: perché, in quelle circostanze, ogni mascalzone aveva dovuto
acquistar, come si dice, l'occhio medico.
"Sto bene, ve'," disse don Rodrigo, che lesse nel fare del Griso il pensiero che
gli passava per la mente. "Sto benone; ma ho bevuto, ho bevuto forse un po'
troppo. C'era una vernaccia!... Ma, con una buona dormita, tutto se ne va. Ho un
gran sonno... Levami un po' quel lume dinanzi, che m'accieca... mi dà una
noia...!"
"Scherzi della vernaccia," disse il Griso, tenendosi sempre alla larga. "Ma vada
a letto subito, ché il dormire le farà bene."
"Hai ragione: se posso dormire... Del resto, sto bene. Metti qui vicino, a buon
conto, quel campanello, se per caso, stanotte avessi bisogno di qualche cosa: e
sta' attento, ve', se mai senti sonare. Ma non avrò bisogno di nulla... Porta
via presto quel maledetto lume," riprese poi, intanto che il Griso eseguiva
l'ordine, avvicinandosi meno che poteva. "Diavolo! che m'abbia a dar tanto
fastidio !"
Il Griso prese il lume, e, augurata la buona notte al padrone, se n'andò in
fretta, mentre quello si cacciava sotto.
Ma le coperte gli parvero una montagna. Le buttò via, e si rannicchiò, per
dormire; ché infatti moriva dal sonno. Ma, appena velato l'occhio, si svegliava
con un riscossone, come se uno, per dispetto, fosse venuto a dargli una
tentennata; e sentiva cresciuto il caldo, cresciuta la smania. Ricorreva col
pensiero all'agosto, alla vernaccia, al disordine; avrebbe voluto poter dar loro
tutta la colpa; ma a queste idee si sostituiva sempre da sé quella che allora
era associata con tutte, ch'entrava, per dir così, da tutti i sensi, che s'era
ficcata in tutti i discorsi dello stravizio, giacché era ancor piú facile
prenderla in ischerzo, che passarla sotto silenzio: la peste.
Dopo un lungo rivoltarsi, finalmente s'addormentò, e cominciò a fare i piú
brutti e arruffati sogni del mondo. E d'uno in un altro, gli parve di trovarsi
in una gran chiesa, in su, in su, in mezzo a una folla; di trovarcisi, ché non
sapeva come ci fosse andato, come gliene fosse venuto il pensiero, in quel tempo
specialmente; e n'era arrabbiato. Guardava i circostanti; eran tutti visi
gialli, distrutti, con cert'occhi incantati, abbacinati, con le labbra
spenzolate; tutta gente con certi vestiti che cascavano a pezzi; e da' rotti si
vedevano macchie e bubboni. "Largo canaglia!" gli pareva di gridare, guardando
alla porta, ch'era lontana lontana, e accompagnando il grido con un viso
minaccioso, senza però moversi, anzi ristringendosi, per non toccar que' sozzi
corpi, che già lo toccavano anche troppo da ogni parte. Ma nessuno di quegl'insensati
dava segno di volersi scostare, e nemmeno d'avere inteso; anzi gli stavan piú
addosso: e sopra tutto gli pareva che qualcheduno di loro, con le gomita o con
altro, lo pigiasse a sinistra, tra il cuore e l'ascella, dove sentiva una
puntura dolorosa, e come pesante. E se si storceva, per veder di liberarsene,
subito un nuovo non so che veniva a puntarglisi al luogo medesimo. Infuriato,
volle metter mano alla spada; e appunto gli parve che, per la calca, gli fosse
andata in su, e fosse il pomo di quella che lo premesse in quel luogo; ma,
mettendoci la mano, non ci trovò la spada, e sentì in vece una trafitta piú
forte. Strepitava, era tutt'affannato, e voleva gridar piú forte; quando gli
parve che tutti que' visi si rivolgessero a una parte. Guardò anche lui; vide un
pulpito, e dal parapetto di quello spuntar su un non so che di convesso, liscio
e luccicante; poi alzarsi e comparir distinta una testa pelata, poi due occhi,
un viso, una barba lunga e bianca, un frate ritto, fuor del parapetto fino alla
cintola, fra Cristoforo. Il quale, fulminato uno sguardo in giro su tutto
l'uditorio, parve a don Rodrigo che lo fermasse in viso a lui, alzando insieme
la mano, nell'attitudine appunto che aveva presa in quella sala a terreno del
suo palazzotto. Allora alzò anche lui la mano in furia, fece uno sforzo, come
per islanciarsi ad acchiappar quel braccio teso per aria; una voce che gli
andava brontolando sordamente nella gola, scoppiò in un grand'urlo; e si destò.
Lasciò cadere il braccio che aveva alzato davvero; stentò alquanto a ritrovarsi,
ad aprir ben gli occhi; ché la luce del giorno già inoltrato gli dava noia,
quanto quella della candela, la sera avanti; riconobbe il suo letto, la sua
camera; si raccapezzò che tutto era stato un sogno: la chiesa, il popolo, il
frate, tutto era sparito; tutto fuorché una cosa, quel dolore dalla parte
sinistra. Insieme si sentiva al cuore una palpitazion violenta, affannosa, negli
orecchi un ronzìo, un fischìo continuo, un fuoco di dentro, una gravezza in
tutte le membra, peggio di quando era andato a letto. Esitò qualche momento,
prima di guardar la parte dove aveva il dolore; finalmente la scoprì, ci diede
un'occhiata paurosa; e vide un sozzo bubbone d'un livido paonazzo.
L'uomo si vide perduto: il terror della morte l'invase, e, con un senso per
avventura piú forte, il terrore di diventar preda de' monatti, d'esser portato,
buttato al lazzeretto. E cercando la maniera d'evitare quest'orribile sorte,
sentiva i suoi pensieri confondersi e oscurarsi, sentiva avvicinarsi il momento
che non avrebbe piú testa, se non quanto bastasse per darsi alla disperazione.
Afferrò il campanello, e lo scosse con violenza. Comparve subito il Griso, il
quale stava all'erta. Si fermò a una certa distanza dal letto; guardò
attentamente il padrone, e s'accertò di quello che, la sera, aveva congetturato.
"Griso!" disse don Rodrigo, rizzandosi stentatamente a sedere: "tu sei sempre
stato il mio fido."
"Sì, signore."
"T'ho sempre fatto del bene."
"Per sua bontà."
"Di te mi posso fidare...!"
"Diavolo!"
"Sto male, Griso."
"Me n'ero accorto."
"Se guarisco, ti farò del bene ancor piú di quello che te n'ho fatto per il
passato."
Il Griso non rispose nulla, e stette aspettando dove andassero a parare questi
preamboli.
"Non voglio fidarmi d'altri che di te," riprese don Rodrigo: "fammi un piacere,
Griso."
"Comandi," disse questo, rispondendo con la formola solita a quell'insolita.
"Sai dove sta di casa il Chiodo chirurgo?"
"Lo so benissimo."
"E' un galantuomo, che, chi lo paga bene, tien segreti gli ammalati. Va' a
chiamarlo: digli che gli darò quattro, sei scudi per visita, di piú, se di piú
ne chiede; ma che venga qui subito; e fa' la cosa bene, che nessun se n'avveda."
"Ben pensato," disse il Griso: "vo e torno subito."
"Senti, Griso: dammi prima un po' d'acqua. Mi sento un'arsione, che non ne posso
piú."
"No, signore," rispose il Griso: "niente senza il parere del medico. Son mali
bisbetici: non c'è tempo da perdere. Stia quieto: in tre salti son qui col
Chiodo."
Così detto, uscì, raccostando l'uscio.
Don Rodrigo, tornato sotto, l'accompagnava con l'immaginazione alla casa del
Chiodo, contava i passi, calcolava il tempo. Ogni tanto ritornava a guardare il
suo bubbone; ma voltava subito la testa dall'altra parte, con ribrezzo. Dopo
qualche tempo, cominciò a stare in orecchi, per sentire se il chirurgo arrivava:
e quello sforzo d'attenzione sospendeva il sentimento del male, e teneva in
sesto i suoi pensieri. Tutt'a un tratto, sente uno squillo lontano, ma che gli
par che venga dalle stanze, non dalla strada. Sta attento; lo sente piú forte,
piú ripetuto, e insieme uno stropiccìo di piedi: un orrendo sospetto gli passa
per la mente. Si rizza a sedere, e si mette ancor piú attento; sente un rumor
cupo nella stanza vicina, come d'un peso che venga messo giú con riguardo; butta
le gambe fuor del letto, come per alzarsi, guarda all'uscio, lo vede aprirsi,
vede presentarsi e venire avanti due logori e sudici vestiti rossi, due facce
scomunicate, due monatti, in una parola; vede mezza la faccia del Griso che,
nascosto dietro un battente socchiuso, riman lì a spiare.
"Ah traditore infame!... Via, canaglia! Biondino! Carlotto! aiuto! son
assassinato!" grida don Rodrigo; caccia una mano sotto il capezzale, per cercare
una pistola; l'afferra, la tira fuori; ma al primo suo grido, i monatti avevan
preso la rincorsa verso il letto; il piú pronto gli è addosso, prima che lui
possa far nulla; gli strappa la pistola di mano, la getta lontano, lo butta a
giacere, e lo tien lì, gridando, con un versaccio di rabbia insieme e di
scherno: " ah birbone! contro i monatti! contro i ministri del tribunale! contro
quelli che fanno l'opere di misericordia!"
"Tienlo bene, fin che lo portiam via," disse il compagno, andando verso uno
scrigno. E in quella il Griso entrò, e si mise con colui a scassinar la
serratura.
"Scellerato!" urlò don Rodrigo, guardandolo per di sotto all'altro che lo
teneva, e divincolandosi tra quelle braccia forzute. "Lasciatemi ammazzar quell'infame,"
diceva quindi ai monatti, "e poi fate di me quel che volete." Poi ritornava a
chiamar con quanta voce aveva, gli altri suoi servitori; ma era inutile, perché
l'abbominevole Griso gli aveva mandati lontano, con finti ordini del padrone
stesso, prima d'andare a fare ai monatti la proposta di venire a quella
spedizione, e divider le spoglie.
"Sta' buono, sta' buono," diceva allo sventurato Rodrigo l'aguzzino che lo
teneva appuntellato sul letto. E voltando poi il viso ai due che facevan
bottino, gridava: "fate le cose da galantuomini!"
"Tu! tu!" mugghiava don Rodrigo verso il Griso, che vedeva affaccendarsi a
spezzare, a cavar fuori danaro, roba, a far le parti, "Tu! dopo...! Ah diavolo
dell'inferno! Posso ancora guarire! posso guarire!" Il Griso non fiatava, e
neppure, per quanto poteva, si voltava dalla parte di dove venivan quelle
parole.
"Tienlo forte," diceva l'altro monatto: "è fuor di sé."
Ed era ormai vero. Dopo un grand'urlo, dopo un ultimo e piú violento sforzo per
mettersi in libertà, cadde tutt'a un tratto rifinito e stupido: guardava però
ancora, come incantato, e ogni tanto si riscoteva, o si lamentava.
I monatti lo presero, uno per i piedi, e l'altro per le spalle, e andarono a
posarlo sur una barella che avevan lasciata nella stanza accanto; poi uno tornò
a prender la preda; quindi, alzato il miserabil peso, lo portaron via.
Il Griso rimase a scegliere in fretta quel di piú che potesse far per lui; fece
di tutto un fagotto, e se n'andò. Aveva bensì avuto cura di non toccar mai i
monatti, di non lasciarsi toccar da loro; ma, in quell'ultima furia del frugare,
aveva poi presi, vicino al letto, i panni del padrone, e gli aveva scossi, senza
pensare ad altro, per veder se ci fosse danaro. C'ebbe però a pensare il giorno
dopo, che, mentre stava gozzovigliando in una bettola, gli vennero a un tratto
de' brividi, gli s'abbagliaron gli occhi, gli mancaron le forze, e cascò.
Abbandonato da' compagni, andò in mano de' monatti, che, spogliatolo di quanto
aveva indosso di buono, lo buttarono sur un carro; sul quale spirò, prima
d'arrivare al lazzeretto, dov'era stato portato il suo padrone.
Lasciando ora questo nel soggiorno de' guai, dobbiamo andare in cerca d'un
altro, la cui storia non sarebbe mai stata intralciata con la sua, se lui non
l'avesse voluto per forza; anzi si può dir di certo che non avrebbero avuto
storia né l'uno né l'altro: Renzo, voglio dire, che abbiam lasciato al nuovo
filatoio, sotto il nome d'Antonio Rivolta.
C'era stato cinque o sei mesi, salvo il vero; dopo i quali, dichiarata
l'inimicizia tra la repubblica e il re di Spagna, e cessato quindi ogni timore
di ricerche e d'impegni dalla parte di qui, Bortolo s'era dato premura d'andarlo
a prendere, e di tenerlo ancora con sé, e perché gli voleva bene, e perché
Renzo, come giovine di talento, e abile nel mestiere, era, in una fabbrica, di
grande aiuto al factotum, senza poter mai aspirare a divenirlo lui, per
quella benedetta disgrazia di non saper tener la penna in mano. Siccome anche
questa ragione c'era entrata per qualche cosa, così abbiam dovuto accennarla.
Forse voi vorreste un Bortolo piú ideale: non so che dire: fabbricatevelo.
Quello era così.
Renzo era poi sempre rimasto a lavorare presso di lui. Piú d'una volta, e
specialmente dopo aver ricevuta qualcheduna di quelle benedette lettere da parte
d'Agnese, gli era saltato il grillo di farsi soldato, e finirla: e l'occasioni
non mancavano; ché, appunto in quell'intervallo di tempo, la repubblica aveva
avuto bisogno di far gente. La tentazione era qualche volta stata per Renzo
tanto piú forte, che s'era anche parlato d'invadere il milanese; e naturalmente
a lui pareva che sarebbe stata una bella cosa, tornare in figura di vincitore a
casa sua, riveder Lucia, e spiegarsi una volta con lei. Ma Bortolo, con buona
maniera, aveva sempre saputo smontarlo da quella risoluzione.
"Se ci hanno da andare," gli diceva, "ci anderanno anche senza di te, e tu
potrai andarci dopo, con tuo comodo; se tornano col capo rotto, non sarà meglio
essere stato a casa tua? Disperati che vadano a far la strada, non ne mancherà.
E, prima che ci possan mettere i piedi...! Per me, sono eretico: costoro
abbaiano; ma sì; lo stato di Milano non è un boccone da ingoiarsi così
facilmente. Si tratta della Spagna, figliuolo mio: sai che affare è la Spagna?
San Marco è forte a casa sua; ma ci vuol altro. Abbi pazienza: non istai bene
qui?... Vedo cosa vuoi dire; ma, se è destinato lassú che la cosa riesca, sta'
sicuro che, a non far pazzie, riuscirà anche meglio. Qualche santo t'aiuterà.
Credi pure che non è mestiere per te. Ti par che convenga lasciare d'incannar
seta, per andare a ammazzare? Cosa vuoi fare con quella razza di gente? Ci vuol
degli uomini fatti apposta."
Altre volte Renzo si risolveva d'andar di nascosto, travestito, e con un nome
finto. Ma anche da questo, Bortolo seppe svolgerlo ogni volta, con ragioni
troppo facili a indovinarsi.
Scoppiata poi la peste nel milanese, e appunto, come abbiam detto, sul confine
del bergamasco, non tardò molto a passarlo; e... non vi sgomentate, ch'io non vi
voglio raccontar la storia anche di questa: chi la volesse, la c'è, scritta per
ordine pubblico da un certo Lorenzo Ghirardelli: libro raro però e sconosciuto,
quantunque contenga forse piú roba che tutte insieme le descrizioni piú celebri
di pestilenze: da tante cose dipende la celebrità de' libri! Quel ch'io volevo
dire è che Renzo prese anche lui la peste, si curò da sé, cioè non fece nulla;
ne fu in fin di morte, ma la sua buona complessione vinse la forza del male: in
pochi giorni, si trovò fuor di pericolo. Col tornar della vita, risorsero piú
che mai rigogliose nell'animo suo le memorie, i desidèri, le speranze, i disegni
della vita; val a dire che pensò piú che mai a Lucia. Cosa ne sarebbe di lei, in
quel tempo, che il vivere era come un'eccezione? E, a così poca distanza, non
poterne saper nulla? E rimaner, Dio sa quanto, in una tale incertezza! E
quand'anche questa si fosse poi dissipata, quando, cessato ogni pericolo,
venisse a risaper che Lucia fosse in vita; c'era sempre quell'altro mistero,
quell'imbroglio del voto. "Anderò io, anderò a sincerarmi di tutto in una
volta," disse tra sé, e lo disse prima d'essere ancora in caso di reggersi.
"Purché sia viva! Trovarla, la troverò io; sentirò una volta da lei proprio,
cosa sia questa promessa, le farò conoscere che non può stare, e la conduco via
con me, lei e quella povera Agnese, se è viva! che m'ha sempre voluto bene, e
son sicuro che me ne vuole ancora. La cattura? eh! adesso hanno altro da
pensare, quelli che son vivi. Giran sicuri, anche qui, certa gente, che n'hann'addosso...
Ci ha a esser salvocondotto solamente per i birboni? E a Milano, dicono tutti
che l'è una confusione peggio. Se lascio scappare una occasion così bella," (La
peste! Vedete un poco come ci fa qualche volta adoprar le parole quel benedetto
istinto di riferire e di subordinar tutto a noi medesimi!) "non ne ritorna piú
una simile!"
Giova sperare, caro il mio Renzo.
Appena poté strascicarsi, andò in cerca di Bortolo, il quale, fino allora, aveva
potuto scansar la peste, e stava riguardato. Non gli entrò in casa, ma, datogli
una voce dalla strada, lo fece affacciare alla finestra.
"Ah ah!" disse Bortolo: "l'hai scampata, tu. Buon per te!"
"Sto ancora un po' male in gambe, come vedi, ma, in quanto al pericolo, ne son
fuori."
"Eh! vorrei esser io ne' tuoi piedi. A dire: sto bene, le altre volte, pareva di
dir tutto; ma ora conta poco. Chi può arrivare a dire: sto meglio; quella sì è
una bella parola!"
Renzo, fatto al cugino qualche buon augurio, gli comunicò la sua risoluzione.
"Va', questa volta, che il cielo ti benedica," rispose quello: "cerca di schivar
la giustizia, com'io cercherò di schivare il contagio; e, se Dio vuole che la ci
vada bene a tutt'e due, ci rivedremo."
"Oh! torno sicuro: e se potessi non tornar solo! Basta; spero."
"Torna pure accompagnato; chè, se Dio vuole, ci sarà da lavorar per tutti, e ci
faremo buona compagnia. Purché tu mi ritrovi, e che sia finito questo diavolo
d'influsso!"
"Ci rivedremo, ci rivedremo; ci dobbiam rivedere!"
"Torno a dire: Dio voglia!"
Per alquanti giorni, Renzo si tenne in esercizio, per esperimentar le sue forze,
e accrescerle; e appena gli parve di poter far la strada, si dispose a partire.
Si mise sotto panni una cintura, con dentro que' cinquanta scudi, che non aveva
mai intaccati, e de' quali non aveva mai fatto parola, neppur con Bortolo; prese
alcuni altri pochi quattrini, che aveva messi da parte giorno per giorno,
risparmiando su tutto; prese sotto il braccio un fagottino di panni; si mise in
tasca un benservito, che s'era fatto fare a buon conto, dal secondo padrone,
sotto il nome d'Antonio Rivolta; in un taschino de' calzoni si mise un
coltellaccio, ch'era il meno che un galantuomo potesse portare a que' tempi; e
s'avviò, agli ultimi d'agosto, tre giorni dopo che don Rodrigo era stato portato
al lazzeretto. Prese verso Lecco, volendo, per non andar così alla cieca a
Milano, passar dal suo paese, dove sperava di trovare Agnese viva, e di
cominciare a saper da lei qualcheduna delle tante cose che si struggeva di
sapere.
I pochi guariti dalla peste erano, in mezzo al resto della popolazione,
veramente come una classe privilegiata. Una gran parte dell'altra gente languiva
o moriva; e quelli ch'erano stati fin allora illesi dal morbo, ne vivevano in
continuo timore; andavan riservati, guardinghi, con passi misurati, con visi
sospettosi, con fretta ed esitazione insieme: ché tutto poteva esser contro di
loro arme di ferita mortale. Quegli altri all'opposto, sicuri a un di presso del
fatto loro (giacché aver due volte la peste era caso piuttosto prodigioso che
raro), giravano per mezzo al contagio franchi e risoluti; come i cavalieri
d'un'epoca del medio evo, ferrati fin dove ferro ci poteva stare, e sopra
palafreni accomodati anch'essi, per quanto era fattibile, in quella maniera,
andavano a zonzo (donde quella loro gloriosa denominazione d'erranti), a zonzo e
alla ventura, in mezzo a una povera marmaglia pedestre di cittadini e di
villani, che, per ribattere e ammortire i colpi, non avevano indosso altro che
cenci. Bello, savio ed utile mestiere! mestiere, proprio, da far la prima figura
in un trattato d'economia politica.
Con una tale sicurezza, temperata però dall'inquietudini che il lettore sa, e
contristata dallo spettacolo frequente, dal pensiero incessante della calamità
comune, andava Renzo verso casa sua, sotto un bel cielo e per un bel paese, ma
non incontrando, dopo lunghi tratti di tristissima solitudine, se non qualche
ombra vagante piuttosto che persona viva, o cadaveri portati alla fossa, senza
onor d'esequie, senza canto, senza accompagnamento. A mezzo circa della
giornata, si fermò in un boschetto, a mangiare un po' di pane e di companatico
che aveva portato con sé. Frutte, n'aveva a sua disposizione, lungo la strada,
anche piú del bisogno: fichi, pesche, susine, mele, quante n'avesse volute;
bastava ch'entrasse ne' campi a coglierne, o a raccattarle sotto gli alberi,
dove ce n'era come se fosse grandinato; giacché l'anno era straordinariamente
abbondante, di frutte specialmente; e non c'era quasi chi se ne prendesse
pensiero: anche l'uve nascondevano, per dir così, i pampani, ed eran lasciate in
balìa del primo occupante.
Verso sera, scoprì il suo paese. A quella vista, quantunque ci dovesse esser
preparato, si sentì dare come una stretta al cuore: fu assalito in un punto da
una folla di rimembranze dolorose, e di dolorosi presentimenti: gli pareva
d'aver negli orecchi que' sinistri tocchi a martello che l'avevan come
accompagnato, inseguito, quand'era fuggito da que' luoghi; e insieme sentiva,
per dir così, un silenzio di morte che ci regnava attualmente. Un turbamento
ancor piú forte provò allo sboccare sulla piazzetta davanti alla chiesa; e
ancora peggio s'aspettava al termine del cammino: ché dove aveva disegnato
d'andare a fermarsi, era a quella casa ch'era stato solito altre volte di
chiamar la casa di Lucia. Ora non poteva essere, tutt'al piú, che quella
d'Agnese; e la sola grazia, che sperava dal cielo era di trovarcela in vita e in
salute. E in quella casa si proponeva di chiedere alloggio, congetturando bene
che la sua non dovesse esser piú abitazione che da topi e da faine.
Non volendo farsi vedere, prese per una viottola di fuori, quella stessa per cui
era venuto in buona compagnia, quella notte così fatta, per sorprendere il
curato. A mezzo circa, c'era da una parte la vigna, e dall'altra la casetta di
Renzo; sicché, passando, potrebbe entrare un momento nell'una e nell'altra, a
vedere un poco come stesse il fatto suo.
Andando, guardava innanzi, ansioso insieme e timoroso di veder qualcheduno; e,
dopo pochi passi, vide infatti un uomo in camicia, seduto in terra, con le
spalle appoggiate a una siepe di gelsomini, in un'attitudine d'insensato: e, a
questa, e poi anche alla fisonomia, gli parve di raffigurar quel povero mezzo
scemo di Gervaso ch'era venuto per secondo testimonio alla sciagurata
spedizione. Ma essendosegli avvicinato, dovette accertarsi ch'era in vece quel
Tonio così sveglio che ce l'aveva condotto. La peste, togliendogli il vigore del
corpo insieme e della mente, gli aveva svolto in faccia e in ogni suo atto un
piccolo e velato germe di somiglianza che aveva con l'incantato fratello.
"Oh Tonio!" gli disse Renzo, fermandosegli davanti: "sei tu ?"
Tonio alzò gli occhi, senza mover la testa.
"Tonio! non mi riconosci?"
"A chi la tocca, la tocca," rispose Tonio, rimanendo poi con la bocca aperta.
"L'hai addosso eh? povero Tonio; ma non mi riconosci piu?"
"A chi la tocca, la tocca," replicò quello, con un certo sorriso sciocco. Renzo,
vedendo che non ne caverebbe altro, seguitò la sua strada, piú contristato. Ed
ecco spuntar da una cantonata, e venire avanti una cosa nera, che riconobbe
subito per don Abbondio. Camminava adagio adagio, portando il bastone come chi
n'è portato a vicenda; e di mano in mano che s'avvicinava, sempre piú si poteva
conoscere nel suo volto pallido e smunto, e in ogni atto, che anche lui doveva
aver passata la sua burrasca. Guardava anche lui; gli pareva e non gli pareva:
vedeva qualcosa di forestiero nel vestiario; ma era appunto forestiero di quel
di Bergamo.
"E' lui senz'altro!" disse tra sé, e alzò le mani al cielo, con un movimento di
maraviglia scontenta, restandogli sospeso in aria il bastone che teneva nella
destra; e si vedevano quelle povere braccia ballar nelle maniche, dove altre
volte stavano appena per l'appunto. Renzo gli andò incontro, allungando il
passo, e gli fece una riverenza; ché, sebbene si fossero lasciati come sapete,
era però sempre il suo curato.
"Siete qui, voi ?" esclamò don Abbondio.
"Son qui, come lei vede. Si sa niente di Lucia?"
"Che volete che se ne sappia? Non se ne sa niente. E' a Milano, se pure è ancora
in questo mondo. Ma voi..."
"E Agnese, è viva?"
" può essere; ma chi volete che lo sappia? non è qui. Ma..."
"Dov'è?"
"E' andata a starsene nella Valsassina, da que' suoi parenti, a Pasturo, sapete
bene; ché là dicono che la peste non faccia il diavolo come qui. Ma voi,
dico..."
"Questa la mi dispiace. E il padre Cristoforo...?"
"E' andato via che è un pezzo. Ma..."
"Lo sapevo; me l'hanno fatto scrivere: domandavo se per caso fosse tornato da
queste parti."
"Oh giusto! non se n'è piú sentito parlare. Ma voi..."
"La mi dispiace anche questa."
"Ma voi, dico, cosa venite a far da queste parti, per l'amor del cielo ? Non
sapete che bagattella di cattura...?"
"Cosa m'importa? Hanno altro da pensare. Ho voluto venire anch'io una volta a
vedere i fatti miei. E non si sa proprio...?"
"Cosa volete vedere? che or ora non c'è piú nessuno, non c'è piú niente. E dico,
con quella bagattella di cattura, venir qui, proprio in paese, in bocca al lupo,
c'è giudizio? Fate a modo d'un vecchio che è obbligato ad averne piú di voi, e
che vi parla per l'amore che vi porta; legatevi le scarpe bene, e, prima che
nessuno vi veda, tornate di dove siete venuto; e se siete stato visto, tanto piú
tornatevene di corsa. Vi pare che sia aria per voi, questa? Non sapete che sono
venuti a cercarvi, che hanno frugato, frugato, buttato sottosopra..."
"Lo so pur troppo, birboni!"
"Ma dunque...!"
"Ma se le dico che non ci penso. E colui, è vivo ancora? è qui?"
"Vi dico che non c'è nessuno; vi dico che non pensiate alle cose di qui; vi dico
che..."
"Domando se è qui, colui."
"Oh santo cielo! Parlate meglio. Possibile che abbiate ancora addosso tutto quel
fuoco, dopo tante cose!"
"C'è, o non c'è?"
"Non c'è, via. Ma, e la peste, figliuolo, la peste! Chi è che vada in giro, in
questi tempi?"
"Se non ci fosse altro che la peste in questo mondo... dico per me: l'ho avuta,
e son franco."
"Ma dunque! ma dunque! non sono avvisi questi? Quando se n'è scampata una di
questa sorte, mi pare che si dovrebbe ringraziare il cielo, e..."
"Lo ringrazio bene."
"E non andarne a cercar dell'altre, dico. Fate a modo mio..."
"L'ha avuta anche lei, signor curato, se non m'inganno."
"Se l'ho avuta ! Perfida e infame è stata: son qui per miracolo: basta dire che
m'ha conciato in questa maniera che vedete. Ora avevo proprio bisogno d'un po'
di quiete, per rimettermi in tono: via, cominciavo a stare un po' meglio... In
nome del cielo, cosa venite a far qui? Tornate..."
"sempre l'ha con questo tornare, lei. Per tornare, tanto n'avevo a non movermi.
Dice: cosa venite? cosa venite? Oh bella! vengo, anch'io, a casa mia."
"Casa vostra..."
"Mi dica; ne son morti molti qui?..."
"Eh eh!" esclamò don Abbondio; e, cominciando da Perpetua, nominò una
filastrocca di persone e di famiglie intere. Renzo s'aspettava pur troppo
qualcosa di simile; ma al sentir tanti nomi di persone che conosceva, d'amici,
di parenti, stava addolorato, col capo basso, esclamando ogni momento:
"poverino! poverina! poverini!"
"Vedete!" continuò don Abbondio: "e non è finita. Se quelli che restano non
metton giudizio questa volta, e scacciar tutti i grilli dalla testa, non c'è piú
altro che la fine del mondo."
"Non dubiti; che già non fo conto di fermarmi qui."
"Ah! sia ringraziato il cielo, che la v'è entrata! E, già s'intende, fate ben
conto di ritornar sul bergamasco."
"Di questo non si prenda pensiero."
"Che! non vorreste già farmi qualche sproposito peggio di questo?"
"Lei non ci pensi, dico; tocca a me: non son piú bambino: ho l'uso della
ragione. Spero che, a buon conto, non dirà a nessuno d'avermi visto. E'
sacerdote; sono una sua pecora: non mi vorrà tradire."
"Ho inteso," disse don Abbondio, sospirando stizzosamente: "ho inteso. Volete
rovinarvi voi, e rovinarmi me. Non vi basta di quelle che avete passate voi; non
vi basta di quelle che ho passate io. Ho inteso, ho inteso." E, continuando a
borbottar tra i denti quest'ultime parole, riprese per la sua strada.
Renzo rimase lì tristo e scontento, a pensar dove anderebbe a fermarsi. In
quella enumerazion di morti fattagli da don Abbondio, c'era una famiglia di
contadini portata via tutta dal contagio, salvo un giovinotto, dell'età di Renzo
a un di presso, e suo compagno fin da piccino; la casa era pochi passi fuori del
paese. Pensò d'andar lì.
E andando, passò davanti alla sua vigna; e già dal di fuori poté subito
argomentare in che stato la fosse. Una vetticciola, una fronda d'albero di
quelli che ci aveva lasciati, non si vedeva passare il muro; se qualcosa si
vedeva, era tutta roba venuta in sua assenza. S'affacciò all'apertura (del
cancello non c'eran piú neppure i gangheri); diede un'occhiata in giro: povera
vigna! Per due inverni di seguito, la gente del paese era andata a far legna
"nel luogo di quel poverino", come dicevano. Viti, gelsi, frutti d'ogni sorte,
tutto era stato strappato alla peggio, o tagliato al piede. Si vedevano però
ancora i vestigi dell'antica coltura: giovani tralci, in righe spezzate, ma che
pure segnavano la traccia de' filari desolati; qua e là, rimessiticci o getti di
gelsi, di fichi, di peschi, di ciliegi, di susini; ma anche questo si vedeva
sparso, soffogato, in mezzo a una nuova, varia e fitta generazione, nata e
cresciuta senza l'aiuto della man dell'uomo. Era una marmaglia d'ortiche, di
felci, di logli, di gramigne, di farinelli, d'avene salvatiche, d'amaranti
verdi, di radicchielle, d'acetoselle, di panicastrelle e d'altrettali piante; di
quelle, voglio dire, di cui il contadino d'ogni paese ha fatto una gran classe a
modo suo, denominandole erbacce, o qualcosa di simile. Era un guazzabuglio di
steli, che facevano a soverchiarsi l'uno con l'altro nell'aria, o a passarsi
avanti, strisciando sul terreno, a rubarsi in somma il posto per ogni verso; una
confusione di foglie, di fiori, di frutti, di cento colori, di cento forme, di
cento grandezze: spighette, pannocchiette, ciocche, mazzetti, capolini bianchi,
rossi, gialli, azzurri. Tra questa marmaglia di piante ce n'era alcune di piú
rilevate e vistose, non però migliori, almeno la piú parte: l'uva turca, piú
alta di tutte, co' suoi rami allargati, rosseggianti, co' suoi pomposi foglioni
verdecupi, alcuni già orlati di porpora, co' suoi grappoli ripiegati, guarniti
di bacche paonazze al basso, piú su di porporine, poi di verdi, e in cima di
fiorellini biancastri; il tasso barbasso, con le sue gran foglie lanose a terra,
e lo stelo diritto all'aria, e le lunghe spighe sparse e come stellate di vivi
fiori gialli: cardi, ispidi ne' rami, nelle foglie, ne' calici, donde uscivano
ciuffetti di fiori bianchi o porporini, ovvero si staccavano, portati via dal
vento, pennacchioli argentei e leggieri. Qui una quantità di vilucchioni
arrampicati e avvoltati a' nuovi rampolli d'un gelso, gli avevan tutti ricoperti
delle lor foglie ciondoloni, e spenzolavano dalla cima di quelli le lor
campanelle candide e molli: là una zucca salvatica, co' suoi chicchi vermigli,
s'era avviticchiata ai nuovi tralci d'una vite; la quale, cercato invano un piú
saldo sostegno, aveva attaccati a vicenda i suoi viticci a quella; e, mescolando
i loro deboli steli e le loro foglie poco diverse, si tiravan giú, pure a
vicenda, come accade spesso ai deboli che si prendon l'uno con l'altro per
appoggio. Il rovo era per tutto; andava da una pianta all'altra, saliva,
scendeva, ripiegava i rami o gli stendeva, secondo gli riuscisse; e,
attraversato davanti al limitare stesso, pareva che fosse lì per contrastare il
passo, anche al padrone.
Ma questo non si curava d'entrare in una tal vigna; e forse non istette tanto a
guardarla, quanto noi a farne questo po' di schizzo. Tirò di lungo: poco lontano
c'era la sua casa; attraversò l'orto, camminando fino a mezza gamba tra
l'erbacce di cui era popolato, coperto, come la vigna. Mise piede sulla soglia
d'una delle due stanze che c'era a terreno: al rumore de' suoi passi, al suo
affacciarsi, uno scompiglìo, uno scappare incrocicchiato di topacci, un
cacciarsi dentro il sudiciume che copriva tutto il pavimento: era ancora il
letto de' lanzichenecchi. Diede un'occhiata alle pareti: scrostate, imbrattate,
affumicate. Alzò gli occhi al palco: un parato di ragnateli. Non c'era altro. Se
n'andò anche di là, mettendosi le mani ne' capelli; tornò indietro, rifacendo il
sentiero che aveva aperto lui, un momento prima; dopo pochi passi, prese
un'altra straducola a mancina, che metteva ne' campi; e senza veder né sentire
anima vivente, arrivò vicino alla casetta dove aveva pensato di fermarsi. Già
principiava a farsi buio. L'amico era sull'uscio, a sedere sur un panchetto di
legno, con le braccia incrociate, con gli occhi fissi al cielo, come un uomo
sbalordito dalle disgrazie, e insalvatichito dalla solitudine. Sentendo un
calpestìo, si voltò a guardar chi fosse, e, a quel che gli parve di vedere così
al barlume, tra i rami e le fronde, disse, ad alta voce, rizzandosi e alzando le
mani: "non ci son che io? non ne ho fatto abbastanza ieri? Lasciatemi un po'
stare, che sarà anche questa un'opera di misericordia."
Renzo, non sapendo cosa volesse dir questo, gli rispose chiamandolo per nome.
"Renzo...!" disse quello, esclamando insieme e interrogando.
"Proprio," disse Renzo; e si corsero incontro.
"Sei proprio tu!" disse l'amico, quando furon vicini: "oh che gusto ho di
vederti! Chi l'avrebbe pensato? T'avevo preso per Paolin de' morti, che vien
sempre a tormentarmi, perché vada a sotterrare. Sai che son rimasto solo? solo!
solo, come un romito!"
"Lo so pur troppo," disse Renzo. E così, barattando e mescolando in fretta
saluti, domande e risposte, entrarono insieme nella casuccia. E lì, senza
sospendere i discorsi, l'amico si mise in faccende per fare un po' d'onore a
Renzo, come si poteva così all'improvviso e in quel tempo. Mise l'acqua al
fuoco, e cominciò a far la polenta; ma cedé poi il matterello a Renzo, perché la
dimenasse; e se n'andò dicendo: "son rimasto solo; ma! son rimasto solo!"
Tornò con un piccol secchio di latte, con un po' di carne secca, con un paio di
raveggioli, con fichi e pesche; e posato il tutto, scodellata la polenta sulla
tafferìa, si misero insieme a tavola, ringraziandosi scambievolmente, l'uno
della visita, l'altro del ricevimento. E, dopo un'assenza di forse due anni, si
trovarono a un tratto molto piú amici di quello che avesser mai saputo d'essere
nel tempo che si vedevano quasi ogni giorno; perché all'uno e all'altro, dice
qui il manoscritto, eran toccate di quelle cose che fanno conoscere che balsamo
sia all'animo la benevolenza; tanto quella che si sente, quanto quella che si
trova negli altri.
Certo, nessuno poteva tenere presso di Renzo il luogo d'Agnese, né consolarlo
della di lei assenza, non solo per quell'antica e speciale affezione, ma anche
perché, tra le cose che a lui premeva di decifrare, ce n'era una di cui essa
sola aveva la chiave. Stette un momento tra due, se dovesse continuare il suo
viaggio, o andar prima in cerca d'Agnese, giacché n'era così poco lontano; ma,
considerato che della salute di Lucia, Agnese non ne saprebbe nulla, restò nel
primo proposito d'andare addirittura a levarsi questo dubbio, a aver la sua
sentenza, e di portar poi lui le nuove alla madre. Però, anche dall'amico seppe
molte cose che ignorava, e di molte venne in chiaro che non sapeva bene, sui
casi di Lucia, e sulle persecuzioni che gli avevan fatte a lui, e come don
Rodrigo se n'era andato con la coda tra le gambe, e non s'era piú veduto da
quelle parti; insomma su tutto quell'intreccio di cose. Seppe anche (e non era
per Renzo cognizione di poca importanza) come fosse proprio il casato di don
Ferrante: ché Agnese gliel aveva bensì fatto scrivere dal suo segretario; ma sa
il cielo com'era stato scritto; e l'interprete bergamasco, nel leggergli la
lettera, n'aveva fatta una parola tale, che, se Renzo fosse andato con essa a
cercar ricapito di quella casa in Milano, probabilmente non avrebbe trovato
persona che indovinasse di chi voleva parlare. Eppure quello era l'unico filo
che avesse, per andar in cerca di Lucia. In quanto alla giustizia, poté
confermarsi sempre piú ch'era un pericolo abbastanza lontano, per non darsene
gran pensiero: il signor podestà era morto di peste: chi sa quando se ne
manderebbe un altro; anche la sbirraglia se n'era andata la piú parte; quelli
che rimanevano, avevan tutt'altro da pensare che alle cose vecchie.
Raccontò anche lui all'amico le sue vicende, e n'ebbe in contraccambio cento
storie, del passaggio dell'esercito, della peste, d'untori, di prodigi. "Son
cose brutte," disse l'amico, accompagnando Renzo in una camera che il contagio
aveva resa disabitata; "cose che non si sarebbe mai creduto di vedere; cose da
levarvi l'allegria per tutta la vita; ma però, a parlarne tra amici, è un
sollievo."
Allo spuntar del giorno, eran tutt'e due in cucina; Renzo in arnese da viaggio,
con la sua cintura nascosta sotto il farsetto, e il coltellaccio nel taschino
de' calzoni: il fagottino, per andar piú lesto, lo lasciò in deposito presso
all'ospite. "Se la mi va bene," gli disse, "se la trovo in vita, se... basta...
ripasso di qui; corro a Pasturo, a dar la buona nuova a quella povera Agnese, e
poi, e poi... Ma se, per disgrazia, per disgrazia che Dio non voglia... allora,
non so quel che farò, non so dov'anderò: certo, da queste parti non mi vedete
piú." E così parlando, ritto sulla soglia dell'uscio, con la testa per aria,
guardava con un misto di tenerezza e d'accoramento, l'aurora del suo paese che
non aveva piú veduta da tanto tempo. L'amico gli disse, come s'usa, di sperar
bene; volle che prendesse con sé qualcosa da mangiare; l'accompagnò per un
pezzetto di strada, e lo lasciò con nuovi augúri.
Renzo, s'incamminò con la sua pace, bastandogli d'arrivar vicino a Milano in
quel giorno, per entrarci il seguente, di buon'ora, e cominciar subito la sua
ricerca. Il viaggio fu senza accidenti e senza nulla che potesse distrar Renzo
da' suoi pensieri, fuorché le solite miserie e malinconie. Come aveva fatto il
giorno avanti, si fermò a suo tempo, in un boschetto a mangiare un boccone, e a
riposarsi. Passando per Monza, davanti a una bottega aperta, dove c'era de' pani
in mostra, ne chiese due, per non rimanere sprovvisto, in ogni caso. Il fornaio,
gl'intimò di non entrare, e gli porse sur una piccola pala una scodelletta, con
dentro acqua e aceto, dicendogli che buttasse lì i danari; e fatto questo, con
certe molle, gli porse, l'uno dopo l'altro, i due pani, che Renzo si mise uno
per tasca.
Verso sera, arriva a Greco, senza però saperne il nome; ma, tra un po' di
memoria de' luoghi, che gli era rimasta dell'altro viaggio, e il calcolo del
cammino fatto da Monza in poi, congetturando che doveva esser poco lontano dalla
città, uscì dalla strada maestra, per andar ne' campi in cerca di qualche
cascinotto, e lì passar la notte; ché con osterie non si voleva impicciare.
Trovò meglio di quel che cercava: vide un'apertura in una siepe che cingeva il
cortile d'una cascina; entrò a buon conto. Non c'era nessuno: vide da un canto
un gran portico, con sotto del fieno ammontato, e a quello appoggiata una scala
a mano; diede un'occhiata in giro, e poi salì alla ventura; s'accomodò per
dormire, e infatti s'addormentò subito, per non destarsi che all'alba. Allora,
andò carpon carponi verso l'orlo di quel gran letto; mise la testa fuori, e non
vedendo nessuno, scese di dov'era salito, uscì di dov'era entrato, s'incamminò
per viottole, prendendo per sua stella polare il duomo; e dopo un brevissimo
cammino, venne a sbucar sotto le mura di Milano, tra porta Orientale e porta
Nuova, e molto vicino a questa.