I Promessi Sposi
Capitolo XXXI
La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che
potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c'era entrata davvero, come è
noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona
parte d'Italia. Condotti dal filo della nostra storia, noi passiamo a raccontar
gli avvenimenti principali di quella calamità; nel milanese, s'intende, anzi in
Milano quasi esclusivamente: ché della città quasi esclusivamente trattano le
memorie del tempo, come a un di presso accade sempre e per tutto, per buone e
per cattive ragioni. E in questo racconto, il nostro fine non è, per dir la
verità, soltanto di rappresentar lo stato delle cose nel quale verranno a
trovarsi i nostri personaggi; ma di far conoscere insieme, per quanto si può in
ristretto, e per quanto si può da noi, un tratto di storia patria piú famoso che
conosciuto.
Delle molte relazioni contemporanee, non
ce n'è alcuna che basti da sé a darne un'idea un po' distinta e ordinata; come
non ce n'è alcuna che non possa aiutare a formarla. In ognuna di queste
relazioni, senza eccettuarne quella del Ripamonti (Josephi Ripamontii, canonici
scalensis, chronistae urbis Mediolani, De peste quae fuit anno 1630,
Libri V. Mediolani, 1640, apud Malatestas.), la quale le supera tutte, per la
quantità e per la scelta de' fatti, e ancor piú per il modo d'osservarli, in
ognuna sono omessi fatti essenziali, che son registrati in altre; in ognuna ci
sono errori materiali, che si posson riconoscere e rettificare con l'aiuto di
qualche altra, o di que' pochi atti della pubblica autorità, editi e inediti,
che rimangono; spesso in una si vengono a trovar le cagioni di cui nell'altra s'eran
visti, come in aria, gli effetti. In tutte poi regna una strana confusione di
tempi e di cose; è un continuo andare e venire, come alla ventura, senza disegno
generale, senza disegno ne' particolari: carattere, del resto, de' piú comuni e
de' piú apparenti ne' libri di quel tempo, principalmente in quelli scritti in
lingua volgare, almeno in Italia; se anche nel resto d'Europa, i dotti lo
sapranno, noi lo sospettiamo. Nessuno scrittore d'epoca posteriore s'è proposto
d'esaminare e di confrontare quelle memorie, per ritrarne una serie concatenata
degli avvenimenti, una storia di quella peste; sicché l'idea che se ne ha
generalmente, dev'essere, di necessità, molto incerta, e un po' confusa: un'idea
indeterminata di gran mali e di grand'errori (e per verità ci fu dell'uno e
dell'altro, al di là di quel che si possa immaginare), un'idea composta piú di
giudizi che di fatti, alcuni fatti dispersi, non di rado scompagnati dalle
circostanze piú caratteristiche, senza distinzion di tempo, cioè senza
intelligenza di causa e d'effetto, di corso, di progressione. Noi, esaminando e
confrontando, con molta diligenza se non altro, tutte le relazioni stampate, piú
d'una inedita, molti (in ragione del poco che ne rimane) documenti, come dicono,
ufiziali, abbiam cercato di farne non già quel che si vorrebbe, ma qualche cosa
che non è stato ancor fatto. Non intendiamo di riferire tutti gli atti pubblici,
e nemmeno tutti gli avvenimenti degni, in qualche modo, di memoria. Molto meno
pretendiamo di rendere inutile a chi voglia farsi un'idea piú compita della
cosa, la lettura delle relazioni originali: sentiamo troppo che forza viva,
propria e, per dir così, incomunicabile, ci sia sempre nell'opere di quel
genere, comunque concepite e condotte. Solamente abbiam tentato di distinguere e
di verificare i fatti piú generali e piú importanti, di disporli nell'ordine
reale della loro successione, per quanto lo comporti la ragione e la natura
d'essi, d'osservare la loro efficienza reciproca, e di dar così, per ora e
finché qualchedun altro non faccia meglio, una notizia succinta, ma sincera e
continuata, di quel disastro.
Per tutta adunque la striscia di territorio percorsa
dall'esercito, s'era trovato qualche cadavere nelle case, qualcheduno sulla
strada. Poco dopo, in questo e in quel paese, cominciarono ad ammalarsi, a
morire, persone, famiglie, di mali violenti, strani, con segni sconosciuti alla
piú parte de' viventi. C'era soltanto alcuni a cui non riuscissero nuovi: que'
pochi che potessero ricordarsi della peste che, cinquantatre anni avanti, aveva
desolata pure una buona parte d'Italia, e in ispecie il milanese, dove fu
chiamata, ed è tuttora, la peste di san Carlo. Tanto è forte la carità! Tra le
memorie così varie e così solenni d'un infortunio generale, può essa far
primeggiare quella d'un uomo, perché a quest'uomo ha ispirato sentimenti e
azioni piú memorabili ancora de' mali; stamparlo nelle menti, come un sunto di
tutti que' guai, perché in tutti l'ha spinto e intromesso, guida, soccorso,
esempio, vittima volontaria; d'una calamità per tutti, far per quest'uomo come
un'impresa; nominarla da lui, come una conquista, o una scoperta.
Il protofisico Lodovico Settala, ché,
non solo aveva veduta quella peste, ma n'era stato uno de' piú attivi e
intrepidi, e, quantunque allor giovinissimo, de' piú riputati curatori; e che
ora, in gran sospetto di questa, stava all'erta e sull'informazioni, riferì, il
20 d'ottobre, nel tribunale della sanità, come, nella terra di Chiuso (l'ultima
del territorio di Lecco, e confinante col bergamasco), era scoppiato
indubitabilmente il contagio. Non fu per questo presa veruna risoluzione, come
si ha dal Ragguaglio del Tadino.
Ed ecco sopraggiungere avvisi somiglianti da Lecco e da
Bellano. Il tribunale allora si risolvette e si contentò di
spedire un commissario che, strada facendo, prendesse un medico a Como, e si
portasse con lui a visitare i luoghi indicati. Tutt'e due, "o per ignoranza o
per altro, si lasciorno persuadere da un vecchio et ignorante barbiero di
Bellano, che quella sorte de mali non era Peste "(Tadino, ivi.); ma, in alcuni
luoghi, effetto consueto dell'emanazioni autunnali delle paludi, e negli altri,
effetto de' disagi e degli strapazzi sofferti, nel passaggio degli alemanni. Una
tale assicurazione fu riportata al tribunale, il quale pare che ne mettesse il
cuore in pace.
Ma arrivando senza posa altre e altre
notizie di morte da diverse parti, furono spediti due delegati a vedere e a
provvedere: il Tadino suddetto, e un auditore del tribunale. Quando questi
giunsero, il male s'era già tanto dilatato, che le prove si offrivano, senza che
bisognasse andarne in cerca. Scorsero il territorio di Lecco, la Valsassina, le
coste del lago di Como, i distretti denominati il Monte di Brianza, e la Gera
d'Adda; e per tutto trovarono paesi chiusi da cancelli all'entrature, altri
quasi deserti, e gli abitanti scappati e attendati alla campagna, o dispersi: "et
ci parevano," dice il Tadino, "tante creature seluatiche, portando in mano chi
l'herba menta, chi la ruta, chi il rosmarino et chi una ampolla d'aceto"
S'informarono del numero de' morti: era spaventevole; visitarono infermi e
cadaveri, e per tutto trovarono le brutte e terribili marche della pestilenza.
Diedero subito, per lettere, quelle sinistre nuove al tribunale della sanità, il
quale, al riceverle, che fu il 30 d'ottobre, "si dispose", dice il medesimo
Tadino, a prescriver le bullette, per chiuder fuori dalla Città le persone
provenienti da' paesi dove il contagio s'era manifestato; "et mentre si
compilaua la grida", ne diede anticipatamente qualche ordine sommario a'
gabellieri.
Intanto i delegati presero in fretta e in furia quelle misure
che parver loro migliori; e se ne tornarono, con la trista persuasione che non
sarebbero bastate a rimediare e a fermare un male già tanto avanzato e diffuso.
Arrivati il 14 di novembre, dato ragguaglio, a voce e di
nuovo in iscritto, al tribunale, ebbero da questo commissione di presentarsi al
governatore, e d'esporgli lo stato delle cose. V'andarono, e riportarono: aver
lui di tali nuove provato molto dispiacere, mostratone un gran sentimento; ma i
pensieri della guerra esser piú pressanti: sed belli graviores esse curas.
Così il Ripamonti, il quale aveva spogliati i registri della Sanità, e conferito
col Tadino, incaricato specialmente della missione: era la seconda, se il
lettore se ne ricorda, per quella causa, e con quell'esito. Due
o tre giorni dopo, il 18 di novembre, emanò il governatore una grida, in cui
ordinava pubbliche feste, per la nascita del principe Carlo, primogenito del re
Filippo IV, senza sospettare o senza curare il pericolo d'un gran concorso, in
tali circostanze: tutto come in tempi ordinari, come se non gli fosse stato
parlato di nulla.
Era quest'uomo, come già s'è detto, il celebre Ambrogio
Spinola, mandato per raddirizzar quella guerra e riparare agli errori di don
Gonzalo, e incidentemente, a governare; e noi pure possiamo qui incidentemente
rammentar che morì dopo pochi mesi, in quella stessa guerra che gli stava tanto
a cuore; e morì, non già di ferite sul campo, ma in letto, d'affanno e di
struggimento, per rimproveri, torti, disgusti d'ogni specie ricevuti da quelli a
cui serviva. La storia ha deplorata la sua sorte, e biasimata l'altrui
sconoscenza; ha descritte con molta diligenza le sue imprese militari e
politiche, lodata la sua previdenza, l'attività, la costanza: poteva anche
cercare cos'abbia fatto di tutte queste qualità, quando la peste minacciava,
invadeva una popolazione datagli in cura, o piuttosto in balìa.
Ma ciò che, lasciando intero il biasimo,
scema la maraviglia di quella sua condotta, ciò che fa nascere un'altra e piú
forte maraviglia, è la condotta della popolazione medesima, di quella, voglio
dire, che, non tocca ancora dal contagio, aveva tanta ragion di temerlo.
All'arrivo di quelle nuove de' paesi che n'erano così malamente imbrattati, di
paesi che formano intorno alla città quasi un semicircolo, in alcuni punti
distante da essa non piú di diciotto o venti miglia; chi non crederebbe che vi
si suscitasse un movimento generale, un desiderio di precauzioni bene o male
intese, almeno una sterile inquietudine? Eppure, se in qualche cosa le memorie
di quel tempo vanno d'accordo, è nell'attestare che non ne fu nulla. La penuria
dell'anno antecedente, le angherie della soldatesca, le afflizioni d'animo,
parvero piú che bastanti a render ragione della mortalità: sulle piazze, nelle
botteghe, nelle case, chi buttasse là una parola del pericolo, chi motivasse
peste, veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo. La medesima
miscredenza, la medesima, per dir meglio, cecità e fissazione prevaleva nel
senato, nel Consiglio de' decurioni, in ogni magistrato.
Trovo che il cardinal Federigo, appena
si riseppero i primi casi di mal contagioso, prescrisse, con lettera pastorale
a' parrochi, tra le altre cose, che ammonissero piú e piú volte i popoli
dell'importanza e dell'obbligo stretto di rivelare ogni simile accidente, e di
consegnar le robe infette o sospette (Vita di Federigo Borromeo, compilata da
Francesco Rivola. Milano, 1666, pag. 582.): e anche questa può essere contata
tra le sue lodevoli singolarità.
Il tribunale della sanità chiedeva, implorava cooperazione,
ma otteneva poco o niente. E nel tribunale stesso, la premura era ben lontana da
uguagliare l'urgenza: erano, come afferma piú volte il Tadino, e come appare
ancor meglio da tutto il contesto della sua relazione, i due fisici che,
persuasi della gravità e dell'imminenza del pericolo, stimolavan quel corpo, il
quale aveva poi a stimolare gli altri.
Abbiam già veduto come, al primo annunzio della peste,
andasse freddo nell'operare, anzi nell'informarsi: ecco ora un altro fatto di
lentezza non men portentosa, se però non era forzata, per ostacoli frapposti da
magistrati superiori. Quella grida per le bullette, risoluta il 30 d'ottobre,
non fu stesa che il dì 23 del mese seguente, non fu pubblicata che il 29. La
peste era già entrata in Milano.
Il Tadino e il Ripamonti vollero notare
il nome di chi ce la portò il primo, e altre circostanze della persona e del
caso: e infatti, nell'osservare i princìpi d'una vasta mortalità, in cui le
vittime, non che esser distinte per nome, appena si potranno indicare
all'incirca, per il numero delle migliaia, nasce una non so quale curiosità di
conoscere que' primi e pochi nomi che poterono essere notati e conservati:
questa specie di distinzione, la precedenza nell'esterminio, par che faccian
trovare in essi, e nelle particolarità, per altro piú indifferenti, qualche cosa
di fatale e di memorabile.
L'uno e l'altro storico dicono che fu un soldato italiano al
servizio di Spagna; nel resto non sono ben d'accordo, neppur sul nome. Fu,
secondo il Tadino, un Pietro Antonio Lovato, di quartiere nel territorio di
Lecco; secondo il Ripamonti, un Pier Paolo Locati, di quartiere a Chiavenna.
Differiscono anche nel giorno della sua entrata in Milano: il primo la mette al
22 d'ottobre, il secondo ad altrettanti del mese seguente: e non si può stare né
all'uno né all'altro. Tutt'e due l'epoche sono in contraddizione con altre ben
piú verificate. Eppure il Ripamonti, scrivendo per ordine del Consiglio generale
de' decurioni, doveva avere al suo comando molti mezzi di prender l'informazioni
necessarie; e il Tadino, per ragione del suo impiego, poteva, meglio d'ogn'altro,
essere informato d'un fatto di questo genere. Del resto, dal riscontro d'altre
date che ci paiono, come abbiam detto, piú esatte, risulta che fu, prima della
pubblicazione della grida sulle bullette; e, se ne mettesse conto, si potrebbe
anche provare o quasi provare, che dovette essere ai primi di quel mese; ma
certo, il lettore ce ne dispensa.
Sia come si sia, entrò questo fante sventurato e portator di
sventura, con un gran fagotto di vesti comprate o rubate a soldati alemanni;
andò a fermarsi in una casa di suoi parenti, nel borgo di porta orientale,
vicino ai cappuccini; appena arrivato, s'ammalò; fu portato allo spedale; dove
un bubbone che gli si scoprì sotto un'ascella, mise chi lo curava in sospetto di
ciò ch'era infatti; il quarto giorno morì.
Il tribunale della sanità fece segregare e sequestrare in
casa la di lui famiglia; i suoi vestiti e il letto in cui era stato allo spedale,
furon bruciati. Due serventi che l'avevano avuto in cura, e un buon frate che
l'aveva assistito, caddero anch'essi ammalati in pochi giorni, tutt'e tre di
peste. Il dubbio che in quel luogo s'era avuto, fin da principio, della natura
del male, e le cautele usate in conseguenza, fecero sì che il contagio non vi si
propagasse di piú.
Ma il soldato ne aveva lasciato di fuori
un seminìo che non tardò a germogliare. Il primo a cui s'attaccò, fu il padrone
della casa dove quello aveva alloggiato, un Carlo Colonna sonator di liuto.
Allora tutti i pigionali di quella casa furono, d'ordine della Sanità, condotti
al lazzeretto, dove la piú parte s'ammalarono; alcuni morirono, dopo poco tempo,
di manifesto contagio.
Nella città, quello che già c'era stato disseminato da
costoro, da' loro panni, da' loro mobili trafugati da parenti, da pigionali, da
persone di servizio, alle ricerche e al fuoco prescritto dal tribunale, e di piú
quello che c'entrava di nuovo, per l'imperfezion degli editti, per la
trascuranza nell'eseguirli, e per la destrezza nell'eluderli, andò covando e
serpendo lentamente, tutto il restante dell'anno, e ne' primi mesi del
susseguente 1630. Di quando in quando, ora in questo, ora in quel quartiere, a
qualcheduno s'attaccava, qualcheduno ne moriva: e la radezza stessa de' casi
allontanava il sospetto della verità, confermava sempre piú il pubblico in
quella stupida e micidiale fiducia che non ci fosse peste, né ci fosse stata
neppure un momento. Molti medici ancora, facendo eco alla voce del popolo (era,
anche in questo caso, voce di Dio?), deridevan gli augúri sinistri, gli
avvertimenti minacciosi de' pochi; e avevan pronti nomi di malattie comuni, per
qualificare ogni caso di peste che fossero chiamati a curare; con qualunque
sintomo, con qualunque segno fosse comparso.
Gli avvisi di questi accidenti, quando
pur pervenivano alla Sanità, ci pervenivano tardi per lo piú e incerti. Il
terrore della contumacia e del lazzeretto aguzzava tutti gl'ingegni: non si
denunziavan gli ammalati, si corrompevano i becchini e i loro soprintendenti; da
subalterni del tribunale stesso, deputati da esso a visitare i cadaveri,
s'ebbero, con danari, falsi attestati.
Siccome però, a ogni scoperta che gli riuscisse fare, il
tribunale ordinava di bruciar robe, metteva in sequestro case, mandava famiglie
al lazzeretto, così è facile argomentare quanta dovesse essere contro di esso
l'ira e la mormorazione del pubblico, "della Nobiltà, delli Mercanti et della
plebe", dice il Tadino; persuasi, com'eran tutti, che fossero vessazioni senza
motivo, e senza costrutto. L'odio principale cadeva sui due medici; il suddetto
Tadino, e Senatore Settala, figlio del protofisico: a tal segno, che ormai non
potevano attraversar le piazze senza essere assaliti da parolacce, quando non
eran sassi. E certo fu singolare, e merita che ne sia fatta memoria, la
condizione in cui, per qualche mese, si trovaron quegli uomini, di veder venire
avanti un orribile flagello, d'affaticarsi in ogni maniera a stornarlo,
d'incontrare ostacoli dove cercavano aiuti, e d'essere insieme bersaglio delle
grida, avere il nome di nemici della patria: pro patriae hostibus, dice
il Ripamonti.
Di quell'odio ne toccava una parte
anche agli altri medici che, convinti come loro, della realtà del contagio,
suggerivano precauzioni, cercavano di comunicare a tutti la loro dolorosa
certezza. I piú discreti li tacciavano di credulità e d'ostinazione: per tutti
gli altri, era manifesta impostura, cabala ordita per far bottega sul pubblico
spavento.
Il protofisico Lodovico Settala, allora poco men che
ottuagenario, stato professore di medicina all'università di Pavia, poi di
filosofia morale a Milano, autore di molte opere riputatissime allora, chiaro
per inviti a cattedre d'altre università, Ingolstadt, Pisa, Bologna, Padova, e
per il rifiuto di tutti questi inviti, era certamente uno degli uomini piú
autorevoli del suo tempo. Alla riputazione della scienza s'aggiungeva quella
della vita, e all'ammirazione la benevolenza, per la sua gran carità nel curare
e nel beneficare i poveri. E, una cosa che in noi turba e contrista il
sentimento di stima ispirato da questi meriti, ma che allora doveva renderlo piú
generale e piú forte, il pover'uomo partecipava de' pregiudizi piú comuni e piú
funesti de' suoi contemporanei: era piú avanti di loro, ma senza allontanarsi
dalla schiera, che è quello che attira i guai, e fa molte volte perdere
l'autorità acquistata in altre maniere. Eppure quella grandissima che godeva,
non solo non bastò a vincere, in questo caso, l'opinion di quello che i poeti
chiamavan volgo profano, e i capocomici, rispettabile pubblico; ma non poté
salvarlo dall'animosità e dagl'insulti di quella parte di esso che corre piú
facilmente da' giudizi alle dimostrazioni e ai fatti.
Un giorno che andava in bussola a visitare i suoi ammalati,
principiò a radunarglisi intorno gente, gridando esser lui il capo di coloro che
volevano per forza che ci fosse la peste; lui che metteva in ispavento la città,
con quel suo cipiglio, con quella sua barbaccia: tutto per dar da fare ai
medici. La folla e il furore andavan crescendo: i portantini, vedendo la mala
parata, ricoverarono il padrone in una casa d'amici, che per sorte era vicina.
Questo gli toccò per aver veduto chiaro, detto ciò che era, e voluto salvar
dalla peste molte migliaia di persone: quando, con un suo deplorabile consulto,
cooperò a far torturare, tanagliare e bruciare, come strega, una povera infelice
sventurata, perché il suo padrone pativa dolori strani di stomaco, e un altro
padrone di prima era stato fortemente innamorato di lei, allora ne avrà avuta
presso il pubblico nuova lode di sapiente e, ciò che è intollerabile a pensare,
nuovo titolo di benemerito.
Ma sul finire del mese di marzo,
cominciarono, prima nel borgo di porta orientale, poi in ogni quartiere della
città, a farsi frequenti le malattie, le morti, con accidenti strani di spasimi,
di palpitazioni, di letargo, di delirio, con quelle insegne funeste di lividi e
di bubboni; morti per lo piú celeri, violente, non di rado repentine, senza
alcun indizio antecedente di malattia. I medici opposti alla opinion del
contagio, non volendo ora confessare ciò che avevan deriso, e dovendo pur dare
un nome generico alla nuova malattia, divenuta troppo comune e troppo palese per
andarne senza, trovarono quello di febbri maligne, di febbri pestilenti:
miserabile transazione, anzi trufferia di parole, e che pur faceva gran danno;
perché, figurando di riconoscere la verità, riusciva ancora a non lasciar
credere ciò che piú importava di credere, di vedere, che il male s'attaccava per
mezzo del contatto. I magistrati, come chi si risente da
un profondo sonno, principiarono a dare un po' piú orecchio agli avvisi, alle
proposte della Sanità, a far eseguire i suoi editti, i sequestri ordinati, le
quarantene prescritte da quel tribunale. Chiedeva esso di continuo anche danari
per supplire alle spese giornaliere, crescenti, del lazzeretto, di tanti altri
servizi; e li chiedeva ai decurioni, intanto che fosse deciso (che non fu,
credo, mai, se non col fatto) se tali spese toccassero alla città, o all'erario
regio. Ai decurioni faceva pure istanza il gran cancelliere, per ordine anche
del governatore, ch'era andato di nuovo a metter l'assedio a quel povero Casale;
faceva istanza il senato, perché pensassero alla maniera di vettovagliar la
città, prima che dilatandovisi per isventura il contagio, le venisse negato
pratica dagli altri paesi; perché trovassero il mezzo di mantenere una gran
parte della popolazione, a cui eran mancati i lavori. I decurioni cercavano di
far danari per via d'imprestiti, d'imposte; e di quel che ne raccoglievano, ne
davano un po' alla Sanità, un po' a' poveri; un po' di grano compravano:
supplivano a una parte del bisogno. E le grandi angosce non erano ancor venute.
Nel lazzeretto, dove la popolazione,
quantunque decimata ogni giorno, andava ogni giorno crescendo, era un'altra
ardua impresa quella d'assicurare il servizio e la subordinazione, di conservar
le separazioni prescritte, di mantenervi in somma o, per dir meglio, di
stabilirvi il governo ordinato dal tribunale della sanità: ché, fin da' primi
momenti, c'era stata ogni cosa in confusione, per la sfrenatezza di molti
rinchiusi, per la trascuratezza e per la connivenza de' serventi. Il tribunale e
i decurioni, non sapendo dove battere il capo, pensaron di rivolgersi ai
cappuccini, e supplicarono il padre commissario della provincia, il quale faceva
le veci del provinciale, morto poco prima, acciò volesse dar loro de' soggetti
abili a governare quel regno desolato. Il commissario propose loro, per
principale, un padre Felice Casati, uomo d'età matura, il quale godeva una gran
fama di carità, d'attività, di mansuetudine insieme e di fortezza d'animo, a
quel che il seguito fece vedere, ben meritata; e per compagno e come ministro di
lui, un padre Michele Pozzobonelli, ancor giovine, ma grave e severo, di
pensieri come d'aspetto. Furono accettati con gran piacere; e il 30 di marzo,
entrarono nel lazzeretto. Il presidente della Sanità li condusse in giro, come
per prenderne il possesso; e, convocati i serventi e gl'impiegati d'ogni grado,
dichiarò, davanti a loro, presidente di quel luogo il padre Felice, con primaria
e piena autorità. Di mano in mano poi che la miserabile radunanza andò
crescendo, v'accorsero altri cappuccini; e furono in quel luogo soprintendenti,
confessori, amministratori, infermieri, cucinieri, guardarobi, lavandai, tutto
ciò che occorresse. Il padre Felice, sempre affaticato e sempre sollecito,
girava di giorno, girava di notte, per i portici, per le stanze, per quel vasto
spazio interno, talvolta portando un'asta, talvolta non armato che di cilizio;
animava e regolava ogni cosa; sedava i tumulti, faceva ragione alle querele,
minacciava, puniva, riprendeva, confortava, asciugava e spargeva lacrime. Prese,
sul principio, la peste; ne guarì, e si rimise, con nuova lena, alle cure di
prima. I suoi confratelli ci lasciarono la piú parte la vita, e tutti con
allegrezza.
Certo, una tale dittatura era uno strano ripiego; strano come
la calamità, come i tempi; e quando non ne sapessimo altro, basterebbe per
argomento, anzi per saggio d'una società molto rozza e mal regolata, il veder
che quelli a cui toccava un così importante governo, non sapesser piú farne
altro che cederlo, né trovassero a chi cederlo, che uomini, per istituto, il piú
alieni da ciò. Ma è insieme un saggio non ignobile della
forza e dell'abilità che la carità può dare in ogni tempo, e in qualunque ordin
di cose, il veder quest'uomini sostenere un tal carico così bravamente. E fu
bello lo stesso averlo accettato, senz'altra ragione che il non esserci chi lo
volesse, senz'altro fine che di servire, senz'altra speranza in questo mondo,
che d'una morte molto piú invidiabile che invidiata; fu bello lo stesso esser
loro offerto, solo perché era difficile e pericoloso, e si supponeva che il
vigore e il sangue freddo, così necessario e raro in que' momenti, essi lo
dovevano avere. E perciò l'opera e il cuore di que' frati meritano che se ne
faccia memoria, con ammirazione, con tenerezza, con quella specie di gratitudine
che è dovuta, come in solido, per i gran servizi resi da uomini a uomini, e piú
dovuta a quelli che non se la propongono per ricompensa. "Che se questi Padri
iui non si ritrouauano," dice il Tadino, "al sicuro tutta la Città annichilata
si trouaua; puoiché fu cosa miracolosa l'hauer questi Padri fatto in così puoco
spatio di tempo tante cose per benefitio publico, che non hauendo hauuto agiutto,
o almeno puoco dalla Città, con la sua industria et prudenza haueuano mantenuto
nel Lazeretto tante migliaia de poueri." Le persone ricoverate in quel luogo,
durante i sette mesi che il padre Felice n'ebbe il governo, furono circa
cinquantamila, secondo il Ripamonti; il quale dice con ragione, che d'un uomo
tale avrebbe dovuto ugualmente parlare, se in vece di descriver le miserie d'una
città, avesse dovuto raccontar le cose che posson farle onore.
Anche nel pubblico, quella caparbietà
di negar la peste andava naturalmente cedendo e perdendosi, di mano in mano che
il morbo si diffondeva, e si diffondeva per via del contatto e della pratica; e
tanto piú quando, dopo esser qualche tempo rimasto solamente tra' poveri,
cominciò a toccar persone piú conosciute. E tra queste, come allora fu il piú
notato, così merita anche adesso un'espressa menzione il protofisico Settala.
Avranno almen confessato che il povero vecchio aveva ragione? Chi lo sa? Caddero
infermi di peste, lui, la moglie, due figliuoli, sette persone di servizio. Lui
e uno de' figliuoli n'usciron salvi; il resto morì. "Questi casi," dice il
Tadino, "occorsi nella Città in case Nobili, disposero la Nobiltà, et la plebe a
pensare, et gli increduli Medici, et la plebe ignorante et temeraria cominciò
stringere le labra, chiudere li denti, et inarcare le ciglia."
Ma l'uscite, i ripieghi, le vendette,
per dir così, della caparbietà convinta, sono alle volte tali da far desiderare
che fosse rimasta ferma e invitta, fino all'ultimo, contro la ragione e
l'evidenza: e questa fu bene una di quelle volte. Coloro i quali avevano
impugnato così risolutamente, e così a lungo, che ci fosse vicino a loro, tra
loro, un germe di male, che poteva, per mezzi naturali, propagarsi e fare una
strage; non potendo ormai negare il propagamento di esso, e non volendo
attribuirlo a que' mezzi (che sarebbe stato confessare a un tempo un grand'inganno
e una gran colpa), erano tanto piú disposti a trovarci qualche altra causa, a
menar buona qualunque ne venisse messa in campo. Per disgrazia, ce n'era una in
pronto nelle idee e nelle tradizioni comuni allora, non qui soltanto, ma in ogni
parte d'Europa: arti venefiche, operazioni diaboliche, gente congiurata a
sparger la peste, per mezzo di veleni contagiosi, di malìe. Già cose tali, o
somiglianti, erano state supposte e credute in molte altre pestilenze, e qui
segnatamente, in quella di mezzo secolo innanzi. S'aggiunga che, fin dall'anno
antecedente, era venuto un dispaccio, sottoscritto dal re Filippo IV, al
governatore, per avvertirlo ch'erano scappati da Madrid quattro francesi,
ricercati come sospetti di spargere unguenti velenosi, pestiferi: stesse
all'erta, se mai coloro fossero capitati a Milano. Il governatore aveva
comunicato il dispaccio al senato e al tribunale della sanità; né, per allora,
pare che ci si badasse piú che tanto. Però, scoppiata e riconosciuta la peste,
il tornar nelle menti quell'avviso poté servir di conferma al sospetto
indeterminato d'una frode scellerata; poté anche essere la prima occasione di
farlo nascere.
Ma due fatti, l'uno di cieca e
indisciplinata paura, l'altro di non so quale cattività, furon quelli che
convertirono quel sospetto indeterminato d'un attentato possibile, in sospetto,
e per molti in certezza, d'un attentato positivo, e d'una trama reale. Alcuni,
ai quali era parso di vedere, la sera del 17 di maggio, persone in duomo andare
ungendo un assito che serviva a dividere gli spazi assegnati a' due sessi,
fecero, nella notte, portar fuori della chiesa l'assito e una quantità di panche
rinchiuse in quello; quantunque il presidente della Sanità, accorso a far la
visita, con quattro persone dell'ufizio, avendo visitato l'assito, le panche, le
pile dell'acqua benedetta, senza trovar nulla che potesse confermare l'ignorante
sospetto d'un attentato venefico, avesse, per compiacere all'immaginazioni
altrui, e piú tosto per abbondare in cautela, che per bisogno, avesse,
dico, deciso che bastava dar una lavata all'assito. Quel volume di roba
accatastata produsse una grand'impressione di spavento nella moltitudine, per
cui un oggetto diventa così facilmente un argomento. Si disse e si credette
generalmente che fossero state unte in duomo tutte le panche, le pareti, e fin
le corde delle campane. Né si disse soltanto allora: tutte le memorie de'
contemporanei che parlano di quel fatto (alcune scritte molt'anni dopo), ne
parlano con ugual sicurezza: e la storia sincera di esso, bisognerebbe
indovinarla, se non si trovasse in una lettera del tribunale della sanità al
governatore, che si conserva nell'archivio detto di san Fedele; dalla quale
l'abbiamo cavata, e della quale sono le parole che abbiam messe in corsivo.
La mattina seguente, un nuovo e piú strano, piú significante
spettacolo colpì gli occhi e le menti de' cittadini. In ogni parte della città,
si videro le porte delle case e le muraglie, per lunghissimi tratti, intrise di
non so che sudiceria, giallognola, biancastra, sparsavi come con delle spugne. O
sia stato un gusto sciocco di far nascere uno spavento piú rumoroso e piú
generale, o sia stato un piú reo disegno d'accrescer la pubblica confusione, o
non saprei che altro; la cosa è attestata di maniera, che ci parrebbe men
ragionevole l'attribuirla a un sogno di molti, che al fatto d'alcuni: fatto, del
resto, che non sarebbe stato, né il primo né l'ultimo di tal genere. Il
Ripamonti, che spesso, su questo particolare dell'unzioni, deride, e piu spesso
deplora la credulità popolare, qui afferma d'aver veduto quell'impiastramento, e
lo descrive. Nella lettera sopraccitata, i signori della Sanità raccontan la
cosa ne' medesimi termini; parlan di visite, d'esperimenti fatti con quella
materia sopra de' cani, e senza cattivo effetto; aggiungono, esser loro
opinione, che cotale temerità sia piú tosto proceduta da insolenza, che da
fine scelerato: pensiero che indica in loro, fino a quel tempo, pacatezza
d'animo bastante per non vedere ciò che non ci fosse stato. L'altre memorie
contemporanee, raccontando la cosa, accennano anche, essere stata, sulle prime,
opinion di molti, che fosse fatta per burla, per bizzarria; nessuna parla di
nessuno che la negasse; e n'avrebbero parlato certamente, se ce ne fosse stati;
se non altro, per chiamarli stravaganti. Ho creduto che non fosse fuor di
proposito il riferire e il mettere insieme questi particolari, in parte poco
noti, in parte affatto ignorati, d'un celebre delirio; perche, negli errori e
massime negli errori di molti, ciò che è piú interessante e piú utile a
osservarsi, mi pare che sia appunto la strada che hanno fatta, l'apparenze, i
modi con cui hanno potuto entrar nelle menti, e dominarle.
La città già agitata ne fu sottosopra:
i padroni delle case, con paglia accesa, abbruciacchiavano gli spazi unti; i
passeggieri si fermavano, guardavano, inorridivano, fremevano. I forestieri,
sospetti per questo solo, e che allora si conoscevan facilmente al vestiario,
venivano arrestati nelle strade dal popolo, e condotti alla giustizia. Si fecero
interrogatòri, esami d'arrestati, d'arrestatori, di testimoni; non si trovò reo
nessuno: le menti erano ancor capaci di dubitare, d'esaminare, d'intendere. Il
tribunale della sanità pubblicò una grida, con la quale prometteva premio e
impunità a chi mettesse in chiaro l'autore o gli autori del fatto. Ad ogni
modo non parendoci conueniente, dicono que' signori nella citata lettera,
che porta la data del 21 di maggio, ma che fu evidentemente scritta il 19,
giorno segnato nella grida stampata, che questo delitto in qualsiuoglia modo
resti impunito, massime in tempo tanto pericoloso e sospettoso, per consolatione
e quiete di questo Popolo, e per cauare indicio del fatto, habbiamo oggi
publicata grida, etc. Nella grida stessa però, nessun cenno, almen chiaro,
di quella ragionevole e acquietante congettura, che partecipavano al
governatore: silenzio che accusa a un tempo una preoccupazione furiosa nel
popolo, e in loro una condiscendenza, tanto piu biasimevole, quanto piú poteva
esser perniciosa.
Mentre il tribunale cercava, molti nel pubblico, come accade,
avevan già trovato. Coloro che credevano esser quella un'unzione velenosa, chi
voleva che la fosse una vendetta di don Gonzalo Fernandez de Cordova, per
gl'insulti ricevuti nella sua partenza, chi un ritrovato del cardinal di
Richelieu, per spopolar Milano, e impadronirsene senza fatica; altri, e non si
sa per quali ragioni, ne volevano autore il conte di Collalto, Wallenstein,
questo, quell'altro gentiluomo milanese. Non mancavan, come abbiam detto, di
quelli che non vedevano in quel fatto altro che uno sciocco scherzo, e
l'attribuivano a scolari, a signori, a ufiziali che s'annoiassero all'assedio di
Casale. Il non veder poi, come si sarà temuto, che ne seguisse addirittura un
infettamento, un eccidio universale, fu probabilmente cagione che quel primo
spavento s'andasse per allora acquietando, e la cosa fosse o paresse messa in
oblìo.
C'era, del resto, un certo numero di
persone non ancora persuase che questa peste ci fosse. E perché, tanto nel
lazzeretto, come per la città, alcuni pur ne guarivano, "si diceua" (gli ultimi
argomenti d'una opinione battuta dall'evidenza son sempre curiosi a sapersi),
"si diceua dalla plebe, et ancora da molti medici partiali, non essere vera
peste, perché tutti sarebbero morti" Per levare ogni dubbio, trovò il tribunale
della sanità un espediente proporzionato al bisogno, un modo di parlare agli
occhi, quale i tempi potevano richiederlo o suggerirlo. In una delle feste della
Pentecoste, usavano i cittadini di concorrere al cimitero di San Gregorio, fuori
di Porta Orientale, a pregar per i morti dell'altro contagio, ch'eran sepolti
là; e, prendendo dalla divozione opportunità di divertimento e di spettacolo, ci
andavano, ognuno piú in gala che potesse. Era in quel giorno morta di peste, tra
gli altri, un'intera famiglia. Nell'ora del maggior concorso, in mezzo alle
carrozze, alla gente a cavallo, e a piedi, i cadaveri di quella famiglia furono,
d'ordine della Sanità, condotti al cimitero suddetto, sur un carro, ignudi,
affinché la folla potesse vedere in essi il marchio manifesto della pestilenza.
Un grido di ribrezzo, di terrore, s'alzava per tutto dove passava il carro; un
lungo mormorìo regnava dove era passato; un altro mormorìo lo precorreva. La
peste fu piú creduta: ma del resto andava acquistandosi fede da sé, ogni giorno piú; e quella riunione medesima non dové servir poco a propagarla.
In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun
conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali:
l'idea s'ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste, vale a dire
peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si
sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma
già ci s'è attaccata un'altra idea, l'idea del venefizio e del malefizio, la
quale altera e confonde l'idea espressa dalla parola che non si può piú mandare
indietro.
Non è, credo, necessario d'esser molto versato nella storia
dell'idee e delle parole, per vedere che molte hanno fatto un simil corso. Per
grazia del cielo, che non sono molte quelle d'una tal sorte, e d'una tale
importanza, e che conquistino la loro evidenza a un tal prezzo, e alle quali si
possano attaccare accessòri d'un tal genere. Si potrebbe però, tanto nelle cose
piccole, come nelle grandi, evitare, in gran parte, quel corso così lungo e così
storto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d'osservare, ascoltare,
paragonare, pensare, prima di parlare.
Ma parlare, questa cosa così sola, è talmente piú facile di
tutte quell'altre insieme, che anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un
po' da compatire.