Torna all'indice dei capitoliCAP. XXXIII°

Don Rodrigo
Il Griso
Bortolo
Il paese dopo la peste
La vigna
L’autore

 

A) Don Rodrigo
È il capitolo della peste. Si potrebbe pensare che essa intervenga a risolvere dall’esterno una situazione intricata, come un deus ex machina. In realtà è la causa della salvezza dei personaggi del romanzo ed è essa stessa un nuovo personaggio, non solo uno sfondo del romanzo storico.
L’avventura di Lucia era rimasta sospesa in una situazione di salvezza senza esito. In questo capitolo l’attenzione si riporta sui suoi due corteggiatori: don Rodrigo e Renzo.
Don Rodrigo, che ha per Lucia una passione fatta d’orgoglio e sensualità grossolana, viene condannato dalla peste, mentre Renzo, che l’ama di amore puro, viene salvato. Dinnanzi alla peste umili e potenti sono sullo stesso piano ed il fatto che ad essere punito sia il violento prevaricatore riporta alla concezione del Manzoni sulla Storia e sulla Provvidenza: gli uomini non sono capaci di applicare la giustizia ed allora interviene la Provvidenza a ristabilirla nel tempo.
Troviamo Don Rodrigo colpito dalla peste, che si comporta in modo grottesco e falsamente allegro e che fa un sogno pesante, e tutto ciò prepara alla tragicità dell’episodio centrale: il tradimento del Griso.
Siamo a fine agosto, in una notte estiva di opprimente calura in una città appestata. Don Rodrigo fa divertire i compagni ridendo in modo macabro e imitando il Conte Attilio, non si sa se per una vendetta su di lui che l’ha deriso tante volte, o per una supposta ingratitudine di Attilio nel momento in cui Rodrigo vorrebbe averlo vicino, oppure è un modo per farsi passare la paura della morte, definita dal Manzoni con sfumatura ironica “malinconia”. Forse questa terza ipotesi è quella più accreditata dal momento che Don Rodrigo vuole dimostrare di non avere nulla di grave dinnanzi al Griso che lo fissa con uno sguardo lungo e livido, scavando nel suo animo con bestiale egoismo per vedere fino a che punto sono arrivate le cose.
A tutto ciò si aggiunga il sogno di Don Rodrigo. Manzoni non poteva conoscere le teorie di Freud all’epoca, ma anche lui descrive il sogno come la realizzazione di un desiderio represso: don Rodrigo è in una situazione di disagio in mezzo alla gente che lo opprime e la gente è fatta da appestati. Lui vorrebbe liberarsi da queste presenze odiose, perché si sente minacciato da un nemico e non si può muovere e di ciò si rende conto con angoscia. Da qui un confuso senso di andare sempre più in alto (“… in su…. in su…”). Freud avrebbe detto più tardi che questo tipo di sogno angoscioso è tipico di chi abbia subito una delusione o un rifiuto in amore, come appunto Don Rodrigo o, più concretamente, che la malattia ha già colpito i suoi centri nervosi, dal momento che prova fastidio alla luce.   
Il sogno è anche il momento di passaggio tra la fase di sonno profondo ed il risveglio prima inconsapevole e poi totale, come dimostrano le sue sensazioni di avere una spada o delle gomitate al fianco, mentre in realtà scopre solo un bubbone.
Nel sogno di Don Rodrigo si possono rintracciare altre due componenti: la prima è espressa attraverso l’ironia del linguaggio (nel capitolo VI  Don Rodrigo “afferra” la mano di Padre Cristoforo, mentre qui tenta di “acchiappare”, in cui il primo verbo allude all’impugnare saldamente un ferro, mentre il secondo indica l’agilità di prendere un laccio) è la condanna morale dell’autore. La seconda componente allude all’istante di luce che si accende su Don Rodrigo, segno della religiosità del Manzoni, che non immagina uno spirito su cui la Provvidenza non vegli (Petronio).

B) Il Griso
La scena seguente è di tragica potenza, evidenziata da particolari shakespeariani come l’attesa di Don Rodrigo che immagina il Griso alla ricerca del Chiodo chirurgo e i rumori che gli danno il sospetto dell’arrivo dei monatti, oppure il silenzio del Griso, occupato a cercare oggetti preziosi, silenzio contrapposto alle urla furiose dell’uomo tradito. Questa tragica potenza trova conferma nelle poche parole riguardo alla morte del Griso, e nel suo errore sta una certa coscienza morale, poiché egli sa di aver compiuto un orribile tradimento, e qui si può trovare l’unica luce del personaggio. La sua morte, comunque, rimane squallida.

C) Bortolo
Qui il racconto raggiunge il suo acume tragico, e per smorzarlo e dare un nuovo tono narrativo entra in scena il cugino Bortolo, che nella critica non ha mai avuto una particolare fortuna: secondo il Gessi un personaggio pittoresco capace di amare il prossimo, ma non di amarlo come se stesso, e un frutto insipido di una situazione incolore come quando Renzo si rifugia nel bergamasco (De Michelis). Bortolo ha la funzione di pedale per calare il racconto che si è elevato a toni più alti del normale: al lirismo della notte della salvezza di Renzo e alla tragedia del male e della sua punizione in questo capitolo. Il personaggio però possiede una certa coerenza realistica, dal momento che Bortolo ha un cuore d’oro, è di fede salda ed attento alle situazioni economiche; incarna quindi il buon lombardo concreto, in cui la capacità di lavoro diventa anche capacità di sacrificio. Non può essere visto come personaggio ideale perché possiede limiti e difetti. Bortolo vuole Renzo perché gli vuole bene, ma anche perché gli farebbe comodo, è convinto che le decisioni del cielo contino ma che non fare pazzie conti di più. Non ha preso la peste perché ha saputo riguardarsi, ma non si illude sul fatto che non potrà prenderla. E’ un personaggio niente affatto occasionale.

D) Il paese dopo la peste
Bortolo fa da separatore alla seconda parte del capitolo, cioè Renzo che torna alla speranza della vita. Si dovranno distinguere due piani, quello del narratore e quello del personaggio. Il narratore si sente quasi in famiglia con Renzo e arriva al limite della digressione affettuosa, come quella sul cavaliere errante coperto di ferro e la massa di plebei coperti di stracci, polemica e divertita, oppure la digressione sulla vigna di Renzo. Il personaggio invece ritrova se stesso quando respira l’aria del suo paese. La situazione del ritorno al paese, con lo sfondo di una natura serena, fa sì che anche la visione dei morti non sia orrida e terrificante. Il senso di desolazione che porta la morte non si vede né nella natura né nei cadaveri, lo si ascolta nei lunghi silenzi delle campagne e nell’aspetto lunare del paesello dove Renzo ritorna. Renzo rivede il suo paese devastato dalla peste quasi svuotato, e i superstiti segnati profondamente. Qui troviamo Tonio, impazzito, che ripete sempre la stessa frase forse perché scioccato dalla morte del figlio. Troviamo anche Don Abbondio; la peste ha stravolto ogni realtà umana e sociale, ma non ha stravolto l’egoismo del personaggio, l’ha reso solo un po’ meno attivo: egli se ne va in giro per il paese borbottando, e in quel borbottio si avverte la profonda solitudine per la perdita di Perpetua. Don Abbondio è ancora il personaggio di sempre, presentatoci però questa volta dal Manzoni con uno stile nuovo, non meno sprovvisto di comicità ma forse più amara e patetica. Chiude il capitolo la lunga dissertazione botanica del Manzoni sulla vigna di Renzo. Manzoni indugia a lungo nella descrizione della vigna, compiacendosi delle sue conoscenze botaniche, rivelando come al solito una mente analitica e attenta alle cose.

E) La vigna
La vigna di Renzo è un passo famoso, che merita questa fama non tanto per le ragioni estetiche quanto per le ragioni di lettura. La vigna rappresenterebbe la natura segnata da una condanna originaria che confluisce nel disordine non appena si allenta il controllo su di essa.
Ad un’analisi più attenta del testo, la pagina della vigna rivela alcuni reperti biografici, ed esempio la passione botanica del Manzoni  e la tendenza alla razionalizzazione dei fatti e alla loro classificazione.

F) L’autore
Questa presenza così attiva dell’autore nella pagina corrisponde al momento in cui una persona, con una delle sue creature più care, si sente a casa, libero e senza ostacoli, padre e creatore allo stesso tempo. Questa digressione corrisponde anche al motivo del romanzo, secondo cui la vita non è vinta, e si riprende anche sulla morte. Sotto ai vari strati letterari e autobiografici della vigna di Renzo si trova anche questo tema: la natura, anche se disordinata, fiorisce ed afferma le ragioni della vita. Fa anche da contrasto alla desolazione di quel paese di fantasmi.
La chiusura del capitolo fa riaffiorare un altro tema conosciuto, cioè la nota paesistico-lirica che si accompagna a Renzo: sulla soglia, prima di avviarsi alla città, egli guarda l’aurora del suo paese che non aveva più veduta da tanto tempo.

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