Il narratore e Renzo
Ancora sui modi narrativi del Manzoni
A) Il narratore e Renzo
Se nei precedenti due capitoli Renzo aveva dovuto assistere al tumulto, ed il
narratore invece spiegare ai suoi venticinque lettori le ragioni e le premesse di quel
tumulto, ora, a partire da questo capitolo, Renzo diventa il protagonista e campeggia.
Inizia in questo modo una sua maturazione intellettuale, che culminerà
nel capitolo XVII° con la fuga dal Ducato di Milano e la riconquistata salvezza. Alcuni
critici hanno voluto soprannominare questi quattro capitoli che si occupano di Renzo renziade,
ad indicare appunto la centralità in loro del protagonista maschile del romanzo.
Ritornano di lui tutti i tratti caratteriali che ce l'hanno già fatto sentire un ragazzo
profondamente buono e timorato di Dio, ma anche disposto all'ira e a reagire quando i suoi
interessi più vitali vengano compromessi. Ora a questa bontà di fondo si aggiunge anche l'ingenuità,
che lo spinge a commettere molti errori, di cui egli però non riesce a cogliere la
portata, essendo appunto inesperto, il montanaro che si trova per la prima volta in
città, e per giunta in una situazione molto particolare e strana. E' proprio in virtù di
questa ingenuità che Renzo può essere il portavoce della verità, e può rivelarsi
assetato di giustizia: nel contempo, però, egli sarà fatto centro di una vera e propria
persecuzione, perchè l'ingenuo contadino che grida il suo bisogno di giustizia diventerà
agli occhi delle autorità corrotte di Milano il principale responsabile del tumulto, la
più pericolosa "testa calda": insomma l'ideale capro espiatorio, ruolo a cui
Renzo riuscirà solo a sottrarsi per un soffio, e forse perché la lezione dell'ipocrisia
e del male ha dovuto impararla assai presto.
Resta anche confermato quanto si diceva in precedenza a proposito del rapporto del
narratore con Renzo: da un lato una forte spinta di identificazione, grazie a cui Renzo è
il portavoce popolaresco dell'ideale di giustizia manzoniano; ma dall'altra la necessità
di seguire l'iter di maturazione e di quasi iniziazione del suo personaggio, il quale,
proprio per avere ingenuamente detto la verità, dovrà pagare per questo e
mettere in campo tutte le sue arti per sottrarsi ad una fine tanto terribile quanto
immeritata.
Il primo discorso alla folla, sotto questo profilo, è esemplare, ed è anche il vero baricentro contenutistico del capitolo. Pare proprio una traduzione in linguaggio popolaresco, tipico della persona incolta, degl'ideali di riforma sociale e del bisogno di giustizia dei Romantici lombardi, del Manzoni e dei suoi amici. Anche l'espressione s'è fatto tutto in volgare rientra bene in questo, e fa venire in mente quanto importante sia appunto questo carattere popolare della affermazioni di Renzo. Quanta lontananza dal pensiero e dall'animo del Machiavelli, quando afferma "Al mondo non è se non volgo"!
B) Ancora sui modi narrativi del
Manzoni
S'è già detto che il Manzoni ama sfumare la propria visione del mondo, od i propri
ideali in atteggiamenti impersonali: questo fatto ritorna con grande forza anche qui,
quando il Manzoni, non certo solo per esigenze realistiche, segue il suo Renzo anche nella
caduta - non frammatica, certo - che egli compie all'osteria della Luna piena, quando si
ubriaca, e da portavoce degli ideali di libertà e giustizia, così cari all'autore,
diviene lo zimbello della canaglia che frequenta la bettola. E' così che il
secondo discorso di Renzo, quello all'osteria della Luna piena, è appunto la
deformazione grottesca del primo, con il finale in cui si imita la parlata da ubriaco di
Renzo, che ha tracannato troppi bicchieri. Anche qui la tendenza così forte dle Manzoni a
non compromettersi mai come narratore, a nascondersi dietro l'imparzialità della
narrazione oggettiva. Un'arte, questa, che contrariamente ai momenti del lirismo e della
poesia manzoniane, rifugge dagli estremi, dall'esaltazione eroica, seguita dal
travolgimento della sorte, e conosce un maggiore equilibrio, aborre le affermazioni troppo
nette, che rischiano (e quasi sempre sono) incomplete ed imperfette. Così se Renzo, nella
prima sequenza, era l'antitesi netta di Ferrer, un anti-politico in trascrizione
popolaresca, diviene, nella seconda, l'anti-prudente per eccellenza, l'antitesi vivente
dell'oste, che bada solo al suo interesse, e ben sa che Ambrogio Fusella è nella realtà
la faina che ha fiutato la sua preda. Un grande gioco basato sull'ironia intellettuale,
sulla mediazione degli opposti, dove ancora una volta la formula del realismo narrativo
rivela la sua miracolosa capacità di misurarsi con tutta la complessità contraddittoria
del reale.