Torna all'indice dei capitoliCAP. XIV°

Il narratore e Renzo
Ancora sui modi narrativi del Manzoni

 

A) Il narratore e Renzo
Se nei precedenti due capitoli Renzo aveva dovuto assistere al tumulto, ed il narratore invece spiegare ai suoi venticinque lettori le ragioni e le premesse di quel tumulto, ora, a partire da questo capitolo, Renzo diventa il protagonista e campeggia. Inizia in questo modo una sua maturazione intellettuale, che culminerà nel capitolo XVII° con la fuga dal Ducato di Milano e la riconquistata salvezza. Alcuni critici hanno voluto soprannominare questi quattro capitoli che si occupano di Renzo renziade, ad indicare appunto la centralità in loro del protagonista maschile del romanzo. Ritornano di lui tutti i tratti caratteriali che ce l'hanno già fatto sentire un ragazzo profondamente buono e timorato di Dio, ma anche disposto all'ira e a reagire quando i suoi interessi più vitali vengano compromessi. Ora a questa bontà di fondo si aggiunge anche l'ingenuità, che lo spinge a commettere molti errori, di cui egli però non riesce a cogliere la portata, essendo appunto inesperto, il montanaro che si trova per la prima volta in città, e per giunta in una situazione molto particolare e strana. E' proprio in virtù di questa ingenuità che Renzo può essere il portavoce della verità, e può rivelarsi assetato di giustizia: nel contempo, però, egli sarà fatto centro di una vera e propria persecuzione, perchè l'ingenuo contadino che grida il suo bisogno di giustizia diventerà agli occhi delle autorità corrotte di Milano il principale responsabile del tumulto, la più pericolosa "testa calda": insomma l'ideale capro espiatorio, ruolo a cui Renzo riuscirà solo a sottrarsi per un soffio, e forse perché la lezione dell'ipocrisia e del male ha dovuto impararla assai presto.
Resta anche confermato quanto si diceva in precedenza a proposito del rapporto del narratore con Renzo: da un lato una forte spinta di identificazione, grazie a cui Renzo è il portavoce popolaresco dell'ideale di giustizia manzoniano; ma dall'altra la necessità di seguire l'iter di maturazione e di quasi iniziazione del suo personaggio, il quale, proprio per avere ingenuamente detto la verità, dovrà pagare per questo e mettere in campo tutte le sue arti per sottrarsi ad una fine tanto terribile quanto immeritata.

Il primo discorso alla folla, sotto questo profilo, è esemplare, ed è anche il vero baricentro contenutistico del capitolo. Pare proprio una traduzione in linguaggio popolaresco, tipico della persona incolta, degl'ideali di riforma sociale e del bisogno di giustizia dei Romantici lombardi, del Manzoni e dei suoi amici. Anche l'espressione s'è fatto tutto in volgare rientra bene in questo, e fa venire in mente quanto importante sia appunto questo carattere popolare della affermazioni di Renzo. Quanta lontananza dal pensiero e dall'animo del Machiavelli, quando afferma "Al mondo non è se non volgo"!

B) Ancora sui modi narrativi del Manzoni
S'è già detto che il Manzoni ama sfumare la propria visione del mondo, od i propri ideali in atteggiamenti impersonali: questo fatto ritorna con grande forza anche qui, quando il Manzoni, non certo solo per esigenze realistiche, segue il suo Renzo anche nella caduta - non frammatica, certo - che egli compie all'osteria della Luna piena, quando si ubriaca, e da portavoce degli ideali di libertà e giustizia, così cari all'autore, diviene lo zimbello della canaglia che frequenta la bettola. E' così che il secondo discorso di Renzo, quello all'osteria della Luna piena, è appunto la deformazione grottesca del primo, con il finale in cui si imita la parlata da ubriaco di Renzo, che ha tracannato troppi bicchieri. Anche qui la tendenza così forte dle Manzoni a non compromettersi mai come narratore, a nascondersi dietro l'imparzialità della narrazione oggettiva. Un'arte, questa, che contrariamente ai momenti del lirismo e della poesia manzoniane, rifugge dagli estremi, dall'esaltazione eroica, seguita dal travolgimento della sorte, e conosce un maggiore equilibrio, aborre le affermazioni troppo nette, che rischiano (e quasi sempre sono) incomplete ed imperfette. Così se Renzo, nella prima sequenza, era l'antitesi netta di Ferrer, un anti-politico in trascrizione popolaresca, diviene, nella seconda, l'anti-prudente per eccellenza, l'antitesi vivente dell'oste, che bada solo al suo interesse, e ben sa che Ambrogio Fusella è nella realtà la faina che ha fiutato la sua preda. Un grande gioco basato sull'ironia intellettuale, sulla mediazione degli opposti, dove ancora una volta la formula del realismo narrativo rivela la sua miracolosa capacità di misurarsi con tutta la complessità contraddittoria del reale.

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