"Due potestà, due canizie,
due esperienze consumate..."
Il padre Crsitoforo
L'apparire dell'Innominato
A) "Due potestà, due canizie,
due esperienze consumate..."
Si approfondisce in questo importante e denso capitolo la figura del Conte zio,
vista qui all'opera e nel confronto diretto col Padre provinciale. Ora il Conte zio è
impegnato nel mostrare tutta la sua influenza e la sua capacità per difendere attivamente
l'onore leso del suo casato. Il Manzoni ce l'aveva già presentato come una gran testa
vuota, capace con la sua furberia da quattro soldi di ottenere contingenti successi. E'
veramente significativo che in un secolo in cui nelle più importanti corti d'Europa si
andavano intessendo tragici e grandi intrighi per il controllo del continente europeo (e
quindi del mondo), nell'ambito della Guerra dei Trent'anni, il Manzoni alzi il suo dito
contro questo personaggio mediocre e carrierista, al quale le istituzioni permettono di
raggiungere una posizione di rilievo, e che dispiega tutta la pompa del suo potere per far
trasferire un frate ed ottenerne prestigio alla propria famiglia. La storia d'Italia è
proprio fatta di episodi come questo, sembra dirci il Manzoni, con la consueta altezza
della sua lezione.
Il Conte zio ha tutti i tratti e le deformazioni comportamentali del personaggio potente:
per esempio, non termina le frasi, e si serve ad arte della reticenza:
cosa che fa ben presto venire in mente ad un lettore attento, quanto in realtà il Conte
non sia capace di terminare nel modo più adatto i suoi discorsi, data la loro
delicatezza, nonostante il voluto equivoco effetto da gran diplomatico che egli ne
ottiene. Viene tradotto così in formula linguistica l'equivoco di quella nullità
che sembra potenza.
Tuttavia il Conte riesce a portare a casa la sua brava vittoria, ma solo quando sa giocare
la carta giusta col Padre provinciale. E questa non è certo il fatto che il Padre
Cristoforo si sia voluto mettere dalla parte dei tribolati, che apparentemente spregiano
la giustizia. Questa è una via perdente, perché il Padre provinciale gli risponderebbe
che è preciso vanto della religione avvicinare chi erra, e tentare di rimetterlo sulla
buona via. L'argomento vincente è un altro: un capuccino ha offeso la sua famiglia, ne ha
messo a repentaglio il buon nome. Qui il Padre provinciale non può più obiettare nulla,
e da questo momento in poi il Conte sferra un colpo dietro l'altro: prima il ricatto, poi
le minacce, poi le lusinghe, ed infine il patetico accenno all'età ormai avanzata sua e
del suo interlocutore. Il colloquio fra i due termina con l'imposizione delle condizioni:
il Padre dev'essere trasferito, e subito, e inviato in una nicchia, con
scelta lessicale la cui ironia evidenzia una pregnante violenza.
Ma come giudicare e vedere criticamente il Padre provinciale? Egli non
è contro, ma accanto al Padre, innanzitutto. Sebbene non si possa
concordare col Donadoni, che vuole vedere nel Padre un personaggio tanto basso moralmente
ed intellettualmente quanto il Conte (il Padre infatti sa ribattere con prontezza e garbo,
ed anche con una certa dignità, alle allusioni del Conte zio), egli gli è accanto sul
piano della potenza mondana. E' precisamente questo che suggerisce la formula Due
potestà, due canizie, due esperienze consumate: se per il Conte la potenza
mondana è legata al buon nome della casata, per il Padre alla fortuna e prosperità
dell'ordine nella provincia affidatagli. Un egoismo personale e di casata, affiancato ad
uno corporativo. Nel bersaglio della polemica manzoniana sta ora un atteggiamento
temporalistico in seno alla Chiesa: non è mai lecito farsi dimentichi della giustizia e
delle più alte verità del Cristianesimo per questioni di salvezza terrena e di
tornaconto secolare. In questo modo si fa torto in modo irreparabile a questa religione,
il cui merito fondamentale è quello di aver portato la coscienza dentro il mondo dello
spirito, riconducendo ogni scelta e ogni gesto ad un preciso problema etico.
Ecco perché il torto del Padre provinciale sta nel non ascoltare la voce della propria
coscienza - che gli avrebbe imposto come atto irrinunciabile di giustizia accertarsi delle
colpe del Padre Cristoforo - solo per il timore delle squallide minacce del Conte, e delle
conseguenze a tutto l'ordine.
Pagine, dunque, di silenzioso, ma duro antitemporalismo, con l'allusione a quella tesi,
per cui violenze o ingiustizie sarebbero giustificabili per difendere la Chiesa dai suoi
nemici: tesi di cui il Manzoni ha orrore e che condanna senza dubbi.
B) Il Padre Cristoforo
Alle figure dei due potenti che combuttano tra di loro, si oppone, e si erge
innanzi a loro, quella del Padre Cristoforo, che ne esce apparentemente sconfitto, ma
ancora più innalzato e rafforzato nella sua natura di eroe idealmente più alto e più
ammirato del mondo manzoniano.
Il confronto fra il Padre Provinciale ed il Padre Cristoforo non potrebbe essere più
stridente, solo che si pensi al comportamento schivo e taciturno del secondo al banchetto
di Don Rodrigo, ed all'atteggiamento tenuto dal primo nella medesima circostanza in casa
del Conte; ed ancora, nel colloquio privato, al fare schietto e tutto verità del
capuccino di fronte al suo nemico (totalmente impolitico), ed all'ipocrisia fatta di
cedimenti ed allusioni velate nell'analogo colloquio col Conte col suo superiore
(totalmente politico).
Il narratore ci mostra il Padre Cristoforo nell'atto di ricevere l'ordine del suo
trasferimento: una fucilata alle spalle, che avrebbe stroncato le sicurezze di chiunque,
senza il minimo rispetto per la sua personalità e per la sua opera: ma il Padre chiede
solo perdono a Dio per aver avuto la presunzione di pensare di poter essere utile ai due
suoi poverelli. E reagisce dunque con un autoannullamento che solo esteriormente è
sconfitta, ma in realtà è vittoria morale assoluta della sua superiorità umana sul
marciume che ha il diritto, in un mondo corrotto ed infame, di dargli ordini.
C) L'apparire dell'Innominato
Nel momento in cui il Padre Cristoforo deve apparentemente cedere all'iniquità,
consegnandosi nelle mani della vera Provvidenza, facendosi anche lui umile che subisce
torto ed ingiustizia, ed uscendo momentaneamente dalla scena, verso un oscuro futuro, ecco
che entra invece sul palcoscenico del romanzo il nuovo potente personaggio
dell'Innominato, quasi a segnalare che questi eredita dal Padre la funzione di protettore
di Lucia. L'Innominato è un delinquente che ha il solo merito di essere un delinquente
eccezionale e non comune: ecco le vie imperscrutabili della Provvidenza, che permette che
un delinquente eccezionale si sostituisca al più eccezionale degli eroi cristiani del
romanzo. Una concatenazione di eventi che ci richiama ancora una volta l'aspetto
messianico della religiosità manzoniana: questo scambio di ruoli fra l'Innominato e il
Padre Cristoforo è la riprova definitiva che l'intervento di Dio sulla terra a riportare
giustizia è giudicato possibile, anche se coglierlo nella sua attuazione è dato a
pochissimi, e nel mondo del romanzo, alla sola onnipotenza pensosa del narratore stesso.