Torna all'indice dei capitoliCAP. XX°

Inquadramento del personaggio dell'Innominato
La descrizione del castello: una svolta nel mondo narrativo del Manzoni
L'Innominato e Getrude
La dissolvenza

 

A) Inquadramento del personaggio dell'Innominato
L'Innominato è il secondo grande personaggio storico del romanzo, dopo Gertrude. Nel suo caso, il Manzoni applica la poetica dichiarata nella Lettre à Monsieur Chauvet, di integrare cioè i dati offerti dalla storia con la poesia, qui in veste di approfondimento psicologico e di storia d'anima, ossia quella vicenda interiore che la storia non può registrare e che è compito dell'artista di riprodurre. Il personaggio storico e psicologico insieme avrebbe dovuto poi servire a rappresentare tutta una condizione della società, e questo era precisamente la funzione del romanzo storico come genere letterario. Ecco perché le pagine di approfondimento psicologico sull'Innominato sono tra le più grandi, accanto a quelle dedicate a Gertrude, del romanzo. Si gioca in modo mirabile tutto l'impianto della poetica manzoniana.
Il personaggio è colto nel momento del passaggio da una vita malvagia e scellerata a una vita di bene, e potrebbe pertanto prestare il fianco ad una lettura miracolistica, giansenistica, esterna del fenomeno della conversione. Abbiamo già detto a proposito della conversione di Lodovico-Cristoforo che nel Manzoni non vi è nulla di tutto questo. La Grazia non opera mai dall'esterno, con l'estasi o la forza di un possesso che travolge, ma dall'interno, come forza che germina dalla linfa stessa dell'anima di chi vive una rinascita, o una reincarnazione; anche l'Innominato pertanto è colto nel momento in cui le peculiarità della sua natura (volontà fortissima, tenacia di carattere, coraggio, volizione) lo hanno reso apparentemente signore della realtà, e hanno soddisfatto quell'anelito ad una libertà assoluta che erano i presupposti del suo Io smisurato. Il piacere del comando e del potere hanno acquietato finora il suo senso della vita, appagato la sua natura: ma ora egli vuole qualcosa di meno esterno e di più vero: vuole il dominio anche sullo spirito. Ma per poterlo fare, occorre avere dominio non solo sul proprio passato ma anche sul proprio futuro. E qui le sicurezze dell'Innominato s'inceppano. Come sarebbe stato il futuro, visto che oramai la morte si appressava? Sarebbe stato il nulla eterno? Oppure sarebbe stato la vita del cosmo, governata da una legge che egli aveva sempre voluto ignorare o disprezzare, la legge di Dio? Se la morte fosse stata confluenza in Dio, e non nulla eterno, allora tutta la sua vita fino ad ora non avrebbe più senso, perché sarebbe solo una disarmonia nell'armonia, un controsenso. E' proprio l'istinto che rende insoddisfatto l'Innominato: accanto a queste meditazioni sulla morte, egli sente, arrivato al culmine della maturità, ma ancora al di qua del declino, tutta la spaventosa solitudine in cui la sua situazione di eccezionalità e superiorità l'hanno relegato. Questo stato interiore "nuovo", inoltre, gli si affaccia alla mente con grande evidenza reale, non in uno stato di allucinatoria vaghezza, come sarebbe normale per uno spirito medio: ecco allora le voci potenti, i "no imperiosi" da cui egli viene dolorosamente trafitto: il senso irrevocabile di un essere supremo che gli grida "io sono però", il blocco di fronte alla consuetudine delle azioni scellerate, che finirà col rendergli intollerabile questa ultima, di consegnare Lucia nelle mani del suo persecutore. Anche a conversione avvenuta, la religiosità dell'Innominato sarà tutta fatta di questi moti istintivi dello spirito, sorretti da un'eccezionale forza ed impeto, che saranno trasfigurati dal popolino come la sua "santità".

Come si vede da quanto detto, il punto centrale nel configurarsi della vicenda interiore del personaggio sta proprio nel problema del tempo, del dominio del futuro. La domanda centrale è il celebre "Invecchiare, morire, e poi?", con cui l'ansia del controllo del futuro si pone allo spirito del peronaggio. Ora va detto che quest'ansia è anche quella dello spirito romantico: ansia d'infinito, volontà di dominio non solo dello spazio, ma, appunto, anche del tempo, attraverso la fantasia creatrice, e salto oltre il tempo attraverso la totalità dello spirito. Questi contenuti però non furono tipici del romanticismo lombardo, di cui come sappiamo il Manzoni fu uno dei più alti esponenti, ma del romanticismo d'oltralpe, che qui compare sicuramente per la prima volta come uno dei moduli culturali del romanzo.

B) La descrizione del castello: una svolta nel mondo narrativo del Manzoni
Il Manzoni si avvicina dunque al grande filone del romanticismo spiritualistico, uno dei più comuni alla cultura europea dell'800. Come possiamo affermare ciò sul testo? Non tanto affermando che nella descrizione del castello il paesaggio sia un paesaggio stato d'animo, come nella fuga di Renzo verso l'Adda, quanto rilevando come molti fra i dettagli siano porti dal Manzoni in modo da giovare al romanzesco e al fantastico: si pensi alla valle angusta e uggiosa, all'aspra giogaia di monti, al nido insanguinato dell'aquila: tutti elementi vòlti a suggerire l'atmosfera di un castello fiabesco, immerso nella suggestione di una paura tetra. Un castello alla maniera dei romantici, di un Walter Scott, qui sussunto a vero modello, in modo assai scoperto. Il personaggio stesso ci è presentato all'insegna dell'eccezionalità, secondo questo romanticismo sinora estraneo al Manzoni, che si rifa anche a modelli quali il byronismo, il bisogno di andare oltre, di superarsi al di là del bene e del male. Se il Manzoni aveva detestato e beffeggiato i superbi e i violenti, ora ammira la grandezza di uno spirito coerente nella superbia e per i risultati della sua violenza. Siamo indubbiamente di fronte ad una svolta importante. Il narratore è alla ricerca di qualcosa di nuovo, dopo aver assunto e dominato il suo consueto realismo.

Non che esso venga meno, però: è semplicemente sottomesso alla necessità di porre al centro l'eccezionalità del selvaggio signore: ed è proprio all'opera, per contro, quando tale eccezionalità pare al Manzoni essere stata un po' troppo esagerata. Così inquadriamo i bravi della Malanotte e soprattutto la vecchia custode di Lucia, su cui ritorneremo meglio nel commento al cap. XXI°.

C) L'Innominato e Gertrude
Anche gli altri personaggi, cioè Don Rodrigo e Gertrude, sono nell'economia del capitolo funzionali al rafforzamento dell'eccezionalità dell'Innominato. Per Don Rodrigo è facile: ricorre ai mezzucci che la sua mediocrità gli ispira per convincerlo a prendere su di sé l'impresa, non avendo il minimo sentore della vicenda d'anima che agita il suo ospite, il quale accetterà solo perché la tentazione di rinunciarvi gli pare come un'incredibile atto di debolezza (ancora).

Gertrude è stata vista qui in antitesi all'Innominato, soprattutto grazie al confronto fra i due "no": quello imperioso che si affaccia alla mente dell'Innominato sotto forma di un potente istinto, e quello che ella non sa dire di fronte all'ennesima scelleratezza in cui Egidio la coinvolge. Però allo stesso tempo Gertrude non è rimasta immune dal contatto con Lucia, e, proprio mentre commette un peccato ancora più odioso della complicità nei delitti, il tradimento di chi le si è affidato, nasce anche il tema della sua futura salvezza: infatti Lucia le pare un mezzo di espiazione, e dunque ha già in questo senso in sé i presupposti per tornare un'anima religiosa.
Lucia in tutto il capitolo appare occasione, più che strumento di Grazia, ed è interessante notare come questo legame, a noi già noto, di Lucia con la Grazia, appaia manifesto in quell'affermazione "si rivolse a Colui che tiene in mano il cuore degli uomini e può, quando voglia, intenerire i più duri", che è una forte scopertura del narratore, perché si rivela a metà fra un atteggiamento messianico ed uno mistico.

D) La dissolvenza
Con questo termine tecnico si vuole indicare una tecnica narrativa particolarmente felice messa in atto dal Manzoni. Accanto ai procedimenti narrativi più consueti, come il parallelismo, l'opposizione o la prosecuzione, si trova anche la dissolvenza, quel procedimento che chiude una scena e ne apre un'altra, senza stacco, ma con un'insensibile mutazione.
E' ciò che avviene, per esempio, all'inizio stesso del capitolo: la valle angusta e uggiosa. Angusta si riferisce allo spazio, uggiosa significa senza sole. Ma in realtà, per un effetto di dissolvenza, noi abbiamo che questi due aggettivi così pregnanti preparano il passaggio dalla descrizione del paesaggio a quello dell'anima dell'Innominato. L'angustia è in realtà già quella della miseria del mondo terreno su cui il selvaggio signore sente il bisogno di elevarsi, mentre l'uggiosità rimanda a quel senso di angosciosa solitudine che l'Innominato avverte come un'intollerabile morsa del suo vivere. In questo modo il trapasso fra parte descrittiva e parte psicologica avviene quasi insensibilmente, e per effetto di una mirabile scelta lessicale operata dal narratore.

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