I Promessi Sposi
Capitolo XIX
Chi, vedendo in un campo mal coltivato, un'erbaccia, per esempio un bel
lapazio, volesse proprio sapere se sia venuto da un seme maturato nel campo stesso, o
portatovi dal vento, o lasciatovi cader da un uccello, per quanto ci pensasse, non ne
verrebbe mai a una conclusione. Così anche noi non sapremmo dire se dal fondo naturale
del suo cervello, o dall'insinuazione d'Attilio, venisse al conte zio la risoluzione di
servirsi del padre provinciale per troncare nella miglior maniera quel nodo imbrogliato.
Certo è che Attilio non aveva detta a caso quella parola; e quantunque dovesse aspettarsi
che, a un suggerimento così scoperto, la boria ombrosa del conte zio avrebbe
ricalcitrato, a ogni modo volle fargli balenar dinanzi l'idea di quel ripiego, e metterlo
sulla strada, dove desiderava che andasse. Dall'altra parte, il ripiego era talmente
adattato all'umore del conte zio, talmente indicato dalle circostanze, che, senza
suggerimento di chi si sia, si può scommettere che l'avrebbe trovato da sé. Si trattava
che, in una guerra pur troppo aperta, uno del suo nome, un suo nipote, non rimanesse al di
sotto: punto essenzialissimo alla riputazione del potere che gli stava tanto a cuore. La
soddisfazione che il nipote poteva prendersi da sé, sarebbe stata un rimedio peggior del
male, una sementa di guai; e bisognava impedirla, in qualunque maniera, e senza perder
tempo. Comandargli che partisse in quel momento dalla sua villa; già non avrebbe
ubbidito; e quand'anche avesse, era un cedere il campo, una ritirata della casa dinanzi a
un convento. Ordini, forza legale, spauracchi di tal genere, non valevano contro un
avversario di quella condizione: il clero regolare e secolare era affatto immune da ogni
giurisdizione laicale; non solo le persone, ma i luoghi ancora abitati da esso: come deve
sapere anche chi non avesse letta altra storia che la presente; che starebbe fresco. Tutto
quel che si poteva contro un tale avversario era cercar d'allontanarlo, e il mezzo a ciò
era il padre provinciale, in arbitrio del quale era l'andare e lo stare di quello.
Ora, tra il padre provinciale e il
conte zio passava un'antica conoscenza: s'eran veduti di rado, ma sempre con gran
dimostrazioni d'amicizia, e con esibizioni sperticate di servizi. E alle volte, è meglio
aver che fare con uno che sia sopra a molti individui, che con un solo di questi, il quale
non vede che la sua causa, non sente che la sua passione, non cura che il suo punto;
mentre l'altro vede in un tratto cento relazioni, cento conseguenze, cento interessi,
cento cose da scansare, cento cose da salvare; e si può quindi prendere da cento parti.
Tutto ben ponderato, il conte zio
invitò un giorno a pranzo il padre provinciale, e gli fece trovare una corona di
commensali assortiti con un intendimento sopraffino. Qualche parente de' più titolati, di
quelli il cui solo casato era un gran titolo; e che, col solo contegno, con una certa
sicurezza nativa, con una sprezzatura signorile, parlando di cose grandi con termini
famigliari, riuscivano, anche senza farlo apposta, a imprimere e rinfrescare, ogni
momento, l'idea della superiorità e della potenza; e alcuni clienti legati alla casa per
una dipendenza ereditaria, e al personaggio per una servitù di tutta la vita; i quali,
cominciando dalla minestra a dir di sì, con la bocca, con gli occhi, con gli orecchi, con
tutta la testa, con tutto il corpo, con tutta l'anima, alle frutte v'avevan ridotto un
uomo a non ricordarsi più come si facesse a dir di no.
A tavola, il conte padrone fece
cader ben presto il discorso sul tema di Madrid. A Roma si va per più strade; a Madrid
egli andava per tutte. Parlò della corte, del conte duca, de' ministri, della famiglia
del governatore; delle cacce del toro, che lui poteva descriver benissimo, perché le
aveva godute da un posto distinto; dell'Escuriale di cui poteva render conto a un puntino,
perché un creato del conte duca l'aveva condotto per tutti i buchi. Per qualche tempo,
tutta la compagnia stette, come un uditorio, attenta a lui solo, poi si divise in colloqui
particolari; e lui allora continuò a raccontare altre di quelle belle cose, come in
confidenza, al padre provinciale che gli era accanto, e che lo lasciò dire, dire e dire.
Ma a un certo punto, diede una giratina al discorso, lo staccò da Madrid, e di corte in
corte, di dignità in dignità, lo tirò sul cardinal Barberini, ch'era cappuccino, e
fratello del papa allora sedente, Urbano VIII: niente meno. Il conte zio dovette anche lui
lasciar parlare un poco, e stare a sentire, e ricordarsi che finalmente, in questo mondo,
non c'era soltanto i personaggi che facevan per lui. Poco dopo alzati da tavola, pregò il
padre provinciale di passar con lui in un'altra stanza.
Due potestà, due canizie, due
esperienze consumate si trovavano a fronte. Il magnifico signore fece sedere il padre
molto reverendo, sedette anche lui, e cominciò: - stante l'amicizia che passa tra di noi,
ho creduto di far parola a vostra paternità d'un affare di comune interesse, da concluder
tra di noi, senz'andar per altre strade, che potrebbero... E perciò, alla buona, col
cuore in mano, le dirò di che si tratta; e in due parole son certo che anderemo
d'accordo. Mi dica: nel loro convento di Pescarenico c'è un padre Cristoforo da ***?
Il provinciale fece cenno di sì.
- Mi dica un poco vostra paternità,
schiettamente, da buon amico... questo soggetto... questo padre... Di persona io non lo
conosco; e sì che de' padri cappuccini ne conosco parecchi: uomini d'oro, zelanti,
prudenti, umili: sono stato amico dell'ordine fin da ragazzo... Ma in tutte le famiglie un
po' numerose... c'è sempre qualche individuo, qualche testa... E questo padre Cristoforo,
so da certi ragguagli che è un uomo... un po' amico de' contrasti... che non ha tutta
quella prudenza, tutti que' riguardi... Scommetterei che ha dovuto dar più d'una volta da
pensare a vostra paternità.
«Ho inteso: è un impegno, -
pensava intanto il provinciale: - colpa mia; lo sapevo che quel benedetto Cristoforo era
un soggetto da farlo girare di pulpito in pulpito, e non lasciarlo fermare mesi in un
luogo, specialmente in conventi di campagna».
- Oh! - disse poi: - mi dispiace
davvero di sentire che vostra magnificenza abbia in un tal concetto il padre Cristoforo;
mentre, per quanto ne so io, è un religioso... esemplare in convento, e tenuto in molta
stima anche di fuori.
- Intendo benissimo; vostra
paternità deve... Però, però, da amico sincero, voglio avvertirla d'una cosa che le
sarà utile di sapere; e se anche ne fosse già informata, posso, senza mancare ai miei
doveri, metterle sott'occhio certe conseguenze... possibili: non dico di più. Questo
padre Cristoforo, sappiamo che proteggeva un uomo di quelle parti, un uomo... vostra
paternità n'avrà sentito parlare; quello che, con tanto scandolo, scappò dalle mani
della giustizia, dopo aver fatto, in quella terribile giornata di san Martino, cose...
cose... Lorenzo Tramaglino!
«Ahi!» pensò il provinciale; e
disse: - questa circostanza mi riesce nuova; ma vostra magnificenza sa bene che una parte
del nostro ufizio è appunto d'andare in cerca de' traviati, per ridurli...
- Va bene; ma la protezione de'
traviati d'una certa specie...! Son cose spinose, affari delicati... - E qui, in vece di
gonfiar le gote e di soffiare, strinse le labbra, e tirò dentro tant'aria quanta ne
soleva mandar fuori, soffiando. E riprese: - ho creduto bene di darle un cenno su questa
circostanza, perché se mai sua eccellenza... Potrebbe esser fatto qualche passo a Roma...
non so niente... e da Roma venirle...
- Son ben tenuto a vostra
magnificenza di codesto avviso; però son certo che, se si prenderanno informazioni su
questo proposito, si troverà che il padre Cristoforo non avrà avuto che fare con l'uomo
che lei dice, se non a fine di mettergli il cervello a partito. Il padre Cristoforo, lo
conosco.
- Già lei sa meglio di me che
soggetto fosse al secolo, le cosette che ha fatte in gioventù.
- È la gloria dell'abito questa,
signor conte, che un uomo, il quale al secolo ha potuto far dir di sé, con questo
indosso, diventi un altro. E da che il padre Cristoforo porta quest'abito...
- Vorrei crederlo: lo dico di cuore:
vorrei crederlo; ma alle volte, come dice il proverbio... l'abito non fa il monaco.
Il proverbio non veniva in taglio
esattamente; ma il conte l'aveva sostituito in fretta a un altro che gli era venuto sulla
punta della lingua: il lupo cambia il pelo, ma non il vizio.
- Ho de' riscontri, - continuava, -
ho de' contrassegni...
- Se lei sa positivamente, - disse
il provinciale, - che questo religioso abbia commesso qualche errore (tutti si può
mancare), avrò per un vero favore l'esserne informato. Son superiore: indegnamente; ma lo
sono appunto per correggere, per rimediare.
- Le dirò: insieme con questa
circostanza dispiacevole della protezione aperta di questo padre per chi le ho detto, c'è
un'altra cosa disgustosa, e che potrebbe... Ma, tra di noi, accomoderemo tutto in una
volta. C'è, dico, che lo stesso padre Cristoforo ha preso a cozzare con mio nipote, don
Rodrigo ***.
- Oh! questo mi dispiace, mi
dispiace, mi dispiace davvero.
- Mio nipote è giovine, vivo, si
sente quello che è, non è avvezzo a esser provocato...
- Sarà mio dovere di prender buone
informazioni d'un fatto simile. Come ho già detto a vostra magnificenza, e parlo con un
signore che non ha meno giustizia che pratica di mondo, tutti siamo di carne, soggetti a
sbagliare... tanto da una parte, quanto dall'altra: e se il padre Cristoforo avrà
mancato...
- Veda vostra paternità; son cose,
come io le dicevo, da finirsi tra di noi, da seppellirsi qui, cose che a rimestarle
troppo... si fa peggio. Lei sa cosa segue: quest'urti, queste picche, principiano talvolta
da una bagattella, e vanno avanti, vanno avanti... A voler trovarne il fondo, o non se ne
viene a capo, o vengon fuori cent'altri imbrogli. Sopire, troncare, padre molto reverendo:
troncare, sopire. Mio nipote è giovine; il religioso, da quel che sento, ha ancora tutto
lo spirito, le... inclinazioni d'un giovine: e tocca a noi, che abbiamo i nostri anni...
pur troppo eh, padre molto reverendo?...
Chi fosse stato lì a vedere, in
quel punto, fu come quando, nel mezzo d'un'opera seria, s'alza, per isbaglio, uno
scenario, prima del tempo, e si vede un cantante che, non pensando, in quel momento, che
ci sia un pubblico al mondo, discorre alla buona con un suo compagno. Il viso, l'atto, la
voce del conte zio, nel dir quel pur troppo!, tutto fu naturale: lì non c'era
politica: era proprio vero che gli dava noia d'avere i suoi anni. Non già che piangesse i
passatempi, il brio, l'avvenenza della gioventù: frivolezze, sciocchezze, miserie! La
cagion del suo dispiacere era ben più soda e importante: era che sperava un certo posto
più alto, quando fosse vacato; e temeva di non arrivare a tempo. Ottenuto che l'avesse,
si poteva esser certi che non si sarebbe più curato degli anni, non avrebbe desiderato
altro, e sarebbe morto contento, come tutti quelli che desideran molto una cosa,
assicurano di voler fare, quando siano arrivati a ottenerla.
Ma per lasciarlo parlar lui, - tocca
a noi, - continuò, - a aver giudizio per i giovani, e a rassettar le loro malefatte. Per
buona sorte, siamo ancora a tempo; la cosa non ha fatto chiasso; è ancora il caso d'un
buon principiis obsta. Allontanare il fuoco dalla paglia. Alle volte un soggetto
che, in un luogo, non fa bene, o che può esser causa di qualche inconveniente, riesce a
maraviglia in un altro. Vostra paternità saprà ben trovare la nicchia conveniente a
questo religioso. C'è giusto anche l'altra circostanza, che possa esser caduto in
sospetto di chi... potrebbe desiderare che fosse rimosso: e, collocandolo in qualche posto
un po' lontanetto, facciamo un viaggio e due servizi; tutto s'accomoda da sé, o per dir
meglio, non c'è nulla di guasto.
Questa conclusione, il padre
provinciale se l'aspettava fino dal principio del discorso. «Eh già! - pensava tra sé:
- vedo dove vuoi andar a parare: delle solite; quando un povero frate è preso a noia da
voi altri, o da uno di voi altri, o vi dà ombra, subito, senza cercar se abbia torto o
ragione, il superiore deve farlo sgomberare».
E quando il conte ebbe finito, e
messo un lungo soffio, che equivaleva a un punto fermo, - intendo benissimo, - disse il
provinciale, - quel che il signor conte vuol dire; ma prima di fare un passo...
- È un passo e non è un passo,
padre molto reverendo: è una cosa naturale, una cosa ordinaria; e se non si prende questo
ripiego, e subito, prevedo un monte di disordini, un'iliade di guai. Uno sproposito... mio
nipote non crederei... ci son io, per questo... Ma, al punto a cui la cosa è arrivata, se
non la tronchiamo noi, senza perder tempo, con un colpo netto, non è possibile che si
fermi, che resti segreta... e allora non è più solamente mio nipote... Si stuzzica un
vespaio, padre molto reverendo. Lei vede; siamo una casa, abbiamo attinenze...
- Cospicue.
- Lei m'intende: tutta gente che ha
sangue nelle vene, e che, a questo mondo... è qualche cosa. C'entra il puntiglio; diviene
un affare comune; e allora... anche chi è amico della pace... Sarebbe un vero crepacuore
per me, di dovere... di trovarmi... io che ho sempre avuta tanta propensione per i padri
cappuccini...! Loro padri, per far del bene, come fanno con tanta edificazione del
pubblico, hanno bisogno di pace, di non aver contese, di stare in buona armonia con chi...
E poi, hanno de' parenti al secolo... e questi affaracci di puntiglio, per poco che vadano
in lungo, s'estendono, si ramificano, tiran dentro... mezzo mondo. Io mi trovo in questa
benedetta carica, che m'obbliga a sostenere un certo decoro... Sua eccellenza... i miei
signori colleghi... tutto diviene affar di corpo... tanto più con quell'altra
circostanza... Lei sa come vanno queste cose.
- Veramente, - disse il padre
provinciale, - il padre Cristoforo è predicatore; e avevo già qualche pensiero... Mi si
richiede appunto... Ma in questo momento, in tali circostanze, potrebbe parere una
punizione; e una punizione prima d'aver ben messo in chiaro...
- No punizione, no: un provvedimento
prudenziale, un ripiego di comune convenienza, per impedire i sinistri che potrebbero...
mi sono spiegato.
- Tra il signor conte e me, la cosa
rimane in questi termini; intendo. Ma, stando il fatto come fu riferito a vostra
magnificenza, è impossibile, mi pare, che nel paese non sia traspirato qualcosa. Per
tutto c'è degli aizzatori, de' mettimale, o almeno de' curiosi maligni che, se posson
vedere alle prese signori e religiosi, ci hanno un gusto matto; e fiutano, interpretano,
ciarlano... Ognuno ha il suo decoro da conservare; e io poi, come superiore (indegno), ho
un dovere espresso... L'onor dell'abito... non è cosa mia... è un deposito del quale...
Il suo signor nipote, giacché è così alterato, come dice vostra magnificenza, potrebbe
prender la cosa come una soddisfazione data a lui, e... non dico vantarsene, trionfarne,
ma...
- Le pare, padre molto reverendo?
Mio nipote è un cavaliere che nel mondo è considerato... secondo il suo grado e il
dovere: ma davanti a me è un ragazzo; e non farà né più né meno di quello che gli
prescriverò io. Le dirò di più: mio nipote non ne saprà nulla. Che bisogno abbiamo noi
di render conto? Son cose che facciamo tra di noi, da buoni amici; e tra di noi hanno da
rimanere. Non si dia pensiero di ciò. Devo essere avvezzo a non parlare. - E soffiò. -
In quanto ai cicaloni, - riprese, - che vuol che dicano? Un religioso che vada a predicare
in un altro paese, è cosa così ordinaria! E poi, noi che vediamo... noi che
prevediamo... noi che ci tocca... non dobbiamo poi curarci delle ciarle.
- Però, affine di prevenirle,
sarebbe bene che, in quest'occasione, il suo signor nipote facesse qualche dimostrazione,
desse qualche segno palese d'amicizia, di riguardo... non per noi, ma per l'abito...
- Sicuro, sicuro; quest'è giusto...
Però non c'è bisogno: so che i cappuccini son sempre accolti come si deve da mio nipote.
Lo fa per inclinazione: è un genio in famiglia: e poi sa di far cosa grata a me. Del
resto, in questo caso... qualcosa di straordinario... è troppo giusto. Lasci fare a me,
padre molto reverendo; che comanderò a mio nipote... Cioè bisognerà insinuargli con
prudenza, affinché non s'avveda di quel che è passato tra di noi. Perché non vorrei
alle volte che mettessimo un impiastro dove non c'è ferita. E per quel che abbiamo
concluso, quanto più presto sarà, meglio. E se si trovasse qualche nicchia un po'
lontana... per levar proprio ogni occasione...
- Mi vien chiesto per l'appunto un
predicatore da Rimini; e fors'anche, senz'altro motivo, avrei potuto metter gli occhi...
- Molto a proposito, molto a
proposito. E quando...?
- Giacché la cosa si deve fare, si
farà presto.
- Presto, presto, padre molto
reverendo: meglio oggi che domani. E, - continuava poi, alzandosi da sedere, - se posso
qualche cosa, tanto io, come la mia famiglia, per i nostri buoni padri cappuccini...
- Conosciamo per prova la bontà
della casa, - disse il padre provinciale, alzatosi anche lui, e avviandosi verso l'uscio,
dietro al suo vincitore.
- Abbiamo spento una favilla, -
disse questo, soffermandosi, - una favilla, padre molto reverendo, che poteva destare un
grand'incendio. Tra buoni amici, con due parole s'accomodano di gran cose.
Arrivato all'uscio, lo spalancò, e
volle assolutamente che il padre provinciale andasse avanti: entrarono nell'altra stanza,
e si riunirono al resto della compagnia.
Un grande studio, una grand'arte, di
gran parole, metteva quel signore nel maneggio d'un affare; ma produceva poi anche effetti
corrispondenti. Infatti, col colloquio che abbiam riferito, riuscì a far andar fra
Cristoforo a piedi da Pescarenico a Rimini, che è una bella passeggiata.
Una sera, arriva a Pescarenico un
cappuccino di Milano, con un plico per il padre guardiano. C'è dentro l'obbedienza per
fra Cristoforo, di portarsi a Rimini, dove predicherà la quaresima. La lettera al
guardiano porta l'istruzione d'insinuare al detto frate che deponga ogni pensiero d'affari
che potesse avere avviati nel paese da cui deve partire, e che non vi mantenga
corrispondenze: il frate latore dev'essere il compagno di viaggio. Il guardiano non dice
nulla la sera; la mattina, fa chiamar fra Cristoforo, gli fa vedere l'obbedienza, gli dice
che vada a prender la sporta, il bastone, il sudario e la cintura, e con quel padre
compagno che gli presenta, si metta poi subito in viaggio.
Se fu un colpo per il nostro frate,
lo lascio pensare a voi. Renzo, Lucia, Agnese, gli vennero subito in mente; e esclamò,
per dir così, dentro di sé: «oh Dio! cosa faranno que' meschini, quando io non sarò
più qui!» Ma alzò gli occhi al cielo, e s'accusò d'aver mancato di fiducia, d'essersi
creduto necessario a qualche cosa. Mise le mani in croce sul petto, in segno d'ubbidienza,
e chinò la testa davanti al padre guardiano; il quale lo tirò poi in disparte, e gli
diede quell'altro avviso, con parole di consiglio, e con significazione di precetto. Fra
Cristoforo andò alla sua cella, prese la sporta, vi ripose il breviario, il suo
quaresimale, e il pane del perdono, s'allacciò la tonaca con la sua cintura di pelle, si
licenziò da' suoi confratelli che si trovavano in convento, andò da ultimo a prender la
benedizione del guardiano, e col compagno, prese la strada che gli era stata prescritta.
Abbiamo detto che don Rodrigo,
intestato più che mai di venire a fine della sua bella impresa, s'era risoluto di cercare
il soccorso d'un terribile uomo. Di costui non possiam dare né il nome, né il cognome,
né un titolo, e nemmeno una congettura sopra nulla di tutto ciò: cosa tanto più strana,
che del personaggio troviamo memoria in più d'un libro (libri stampati, dico) di quel
tempo. Che il personaggio sia quel medesimo, l'identità de' fatti non lascia luogo a
dubitarne; ma per tutto un grande studio a scansarne il nome, quasi avesse dovuto bruciar
la penna, la mano dello scrittore. Francesco Rivola, nella vita del cardinal Federigo
Borromeo, dovendo parlar di quell'uomo, lo chiama «un signore altrettanto potente per
ricchezze, quanto nobile per nascita», e fermi lì. Giuseppe Ripamonti, che, nel quinto
libro della quinta decade della sua Storia Patria, ne fa più distesa menzione, lo
nomina uno, costui, colui, quest'uomo, quel personaggio. «Riferirò», dice, nel suo bel
latino, da cui traduciamo come ci riesce, «il caso d'un tale che, essendo de' primi tra i
grandi della città, aveva stabilita la sua dimora in una campagna, situata sul confine; e
lì, assicurandosi a forza di delitti, teneva per niente i giudizi, i giudici, ogni
magistratura, la sovranità; menava una vita affatto indipendente; ricettatore di
forusciti, foruscito un tempo anche lui; poi tornato, come se niente fosse...» Da questo
scrittore prenderemo qualche altro passo, che ci venga in taglio per confermare e per
dilucidare il racconto del nostro anonimo; col quale tiriamo avanti
Fare ciò ch'era vietato dalle
leggi, o impedito da una forza qualunque; esser arbitro, padrone negli affari altrui,
senz'altro interesse che il gusto di comandare; esser temuto da tutti, aver la mano da
coloro ch'eran soliti averla dagli altri; tali erano state in ogni tempo le passioni
principali di costui. Fino dall'adolescenza, allo spettacolo e al rumore di tante
prepotenze, di tante gare, alla vista di tanti tiranni, provava un misto sentimento di
sdegno e d'invidia impaziente. Giovine, e vivendo in città, non tralasciava occasione,
anzi n'andava in cerca, d'aver che dire co' più famosi di quella professione,
d'attraversarli, per provarsi con loro, e farli stare a dovere, o tirarli a cercare la sua
amicizia. Superiore di ricchezze e di seguito alla più parte, e forse a tutti d'ardire e
di costanza, ne ridusse molti a ritirarsi da ogni rivalità, molti ne conciò male, molti
n'ebbe amici; non già amici del pari, ma, come soltanto potevan piacere a lui, amici
subordinati, che si riconoscessero suoi inferiori, che gli stessero alla sinistra. Nel
fatto però, veniva anche lui a essere il faccendiere, lo strumento di tutti coloro: essi
non mancavano di richiedere ne' loro impegni l'opera d'un tanto ausiliario; per lui,
tirarsene indietro sarebbe stato decadere dalla sua riputazione, mancare al suo assunto.
Di maniera che, per conto suo, e per conto d'altri, tante ne fece che, non bastando né il
nome, né il parentado, né gli amici, né la sua audacia a sostenerlo contro i bandi
pubblici, e contro tante animosità potenti, dovette dar luogo, e uscir dallo stato. Credo
che a questa circostanza si riferisca un tratto notabile raccontato dal Ripamonti. «Una
volta che costui ebbe a sgomberare il paese, la segretezza che usò, il rispetto, la
timidezza, furon tali: attraversò la città a cavallo, con un seguito di cani, a suon di
tromba; e passando davanti al palazzo di corte, lasciò alla guardia un'imbasciata
d'impertinenze per il governatore».
Nell'assenza, non ruppe le pratiche,
né tralasciò le corrispondenze con que' suoi tali amici, i quali rimasero uniti con lui,
per tradurre letteralmente dal Ripamonti, «in lega occulta di consigli atroci, e di cose
funeste». Pare anzi che allora contraesse con più alte persone, certe nuove terribili
pratiche, delle quali lo storico summentovato parla con una brevità misteriosa. «Anche
alcuni principi esteri, - dice, - si valsero più volte dell'opera sua, per qualche
importante omicidio, e spesso gli ebbero a mandar da lontano rinforzi di gente che
servisse sotto i suoi ordini».
Finalmente (non si sa dopo quanto
tempo), o fosse levato il bando, per qualche potente intercessione, o l'audacia di
quell'uomo gli tenesse luogo d'immunità, si risolvette di tornare a casa, e vi tornò
difatti; non però in Milano, ma in un castello confinante col territorio bergamasco, che
allora era, come ognun sa, stato veneto. «Quella casa - cito ancora il Ripamonti, - era
come un'officina di mandati sanguinosi: servitori, la cui testa era messa a taglia, e che
avevan per mestiere di troncar teste: né cuoco, né sguattero dispensati dall'omicidio:
le mani de' ragazzi insanguinate». Oltre questa bella famiglia domestica, n'aveva, come
afferma lo stesso storico, un'altra di soggetti simili, dispersi e posti come a quartiere
in vari luoghi de' due stati sul lembo de' quali viveva, e pronti sempre a' suoi ordini.
Tutti i tiranni, per un bel tratto
di paese all'intorno, avevan dovuto, chi in un'occasione e chi in un'altra, scegliere tra
l'amicizia e l'inimicizia di quel tiranno straordinario. Ma ai primi che avevano voluto
provar di resistergli, la gli era andata così male, che nessuno si sentiva più di
mettersi a quella prova. E neppur col badare a' fatti suoi, con lo stare a sé, uno non
poteva rimanere indipendente da lui. Capitava un suo messo a intimargli che abbandonasse
la tale impresa, che cessasse di molestare il tal debitore, o cose simili: bisognava
rispondere sì o no. Quando una parte, con un omaggio vassallesco, era andata a rimettere
in lui un affare qualunque, l'altra parte si trovava a quella dura scelta, o di stare alla
sua sentenza, o di dichiararsi suo nemico; il che equivaleva a esser, come si diceva altre
volte, tisico in terzo grado. Molti, avendo il torto, ricorrevano a lui per aver ragione
in effetto; molti anche, avendo ragione, per preoccupare un così gran patrocinio, e
chiuderne l'adito all'avversario: gli uni e gli altri divenivano più specialmente suoi
dipendenti. Accadde qualche volta che un debole oppresso, vessato da un prepotente, si
rivolse a lui; e lui, prendendo le parti del debole, forzò il prepotente a finirla, a
riparare il mal fatto, a chiedere scusa; o, se stava duro, gli mosse tal guerra, da
costringerlo a sfrattar dai luoghi che aveva tiranneggiati, o gli fece anche pagare un
più pronto e più terribile fio. E in quei casi, quel nome tanto temuto e abborrito era
stato benedetto un momento: perché, non dirò quella giustizia, ma quel rimedio, quel
compenso qualunque, non si sarebbe potuto, in que' tempi, aspettarlo da nessun'altra forza
né privata, né pubblica. Più spesso, anzi per l'ordinario, la sua era stata ed era
ministra di voleri iniqui, di soddisfazioni atroci, di capricci superbi. Ma gli usi così
diversi di quella forza producevan sempre l'effetto medesimo, d'imprimere negli animi una
grand'idea di quanto egli potesse volere e eseguire in onta dell'equità e dell'iniquità,
quelle due cose che metton tanti ostacoli alla volontà degli uomini, e li fanno così
spesso tornare indietro. La fama de' tiranni ordinari rimaneva per lo più ristretta in
quel piccolo tratto di paese dov'erano i più ricchi e i più forti: ogni distretto aveva
i suoi; e si rassomigliavan tanto, che non c'era ragione che la gente s'occupasse di
quelli che non aveva a ridosso. Ma la fama di questo nostro era già da gran tempo diffusa
in ogni parte del milanese: per tutto, la sua vita era un soggetto di racconti popolari; e
il suo nome significava qualcosa d'irresistibile, di strano, di favoloso. Il sospetto che
per tutto s'aveva de' suoi collegati e de' suoi sicari, contribuiva anch'esso a tener viva
per tutto la memoria di lui. Non eran più che sospetti; giacché chi avrebbe confessata
apertamente una tale dipendenza? ma ogni tiranno poteva essere un suo collegato, ogni
malandrino, uno de' suoi; e l'incertezza stessa rendeva più vasta l'opinione, e più cupo
il terrore della cosa. E ogni volta che in qualche parte si vedessero comparire figure di
bravi sconosciute e più brutte dell'ordinario, a ogni fatto enorme di cui non si sapesse
alla prima indicare o indovinar l'autore, si proferiva, si mormorava il nome di colui che
noi, grazie a quella benedetta, per non dir altro, circospezione de' nostri autori, saremo
costretti a chiamare l'innominato.
Dal castellaccio di costui al
palazzotto di don Rodrigo, non c'era più di sette miglia: e quest'ultimo, appena divenuto
padrone e tiranno, aveva dovuto vedere che, a così poca distanza da un tal personaggio,
non era possibile far quel mestiere senza venire alle prese, o andar d'accordo con lui.
Gli s'era perciò offerto e gli era divenuto amico, al modo di tutti gli altri, s'intende;
gli aveva reso più d'un servizio (il manoscritto non dice di più); e n'aveva riportate
ogni volta promesse di contraccambio e d'aiuto, in qualunque occasione. Metteva però
molta cura a nascondere una tale amicizia, o almeno a non lasciare scorgere quanto
stretta, e di che natura fosse. Don Rodrigo voleva bensì fare il tiranno, ma non il
tiranno salvatico: la professione era per lui un mezzo, non uno scopo: voleva dimorar
liberamente in città, godere i comodi, gli spassi, gli onori della vita civile; e perciò
bisognava che usasse certi riguardi, tenesse di conto parenti, coltivasse l'amicizia di
persone alte, avesse una mano sulle bilance della giustizia, per farle a un bisogno
traboccare dalla sua parte, o per farle sparire, o per darle anche, in qualche occasione,
sulla testa di qualcheduno che in quel modo si potesse servir più facilmente che con
l'armi della violenza privata. Ora, l'intrinsichezza, diciam meglio, una lega con un uomo
di quella sorte, con un aperto nemico della forza pubblica, non gli avrebbe certamente
fatto buon gioco a ciò, specialmente presso il conte zio. Però quel tanto d'una tale
amicizia che non era possibile di nascondere, poteva passare per una relazione
indispensabile con un uomo la cui inimicizia era troppo pericolosa; e così ricevere scusa
dalla necessità: giacché chi ha l'assunto di provvedere, e non n'ha la volontà, o non
ne trova il verso, alla lunga acconsente che altri provveda da sé, fino a un certo segno,
a' casi suoi; e se non acconsente espressamente, chiude un occhio.
Una mattina, don Rodrigo uscì a
cavallo, in treno da caccia, con una piccola scorta di bravi a piedi; il Griso alla
staffa, e quattro altri in coda; e s'avviò al castello dell'innominato.