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MARIO UNTERSTEINER:
LA FILOLOGIA COME IMPEGNO CIVILE |
Il
giorno 10 marzo 2004, presso la Società Umanitaria - Fondazione Bauer,
sala Facchinetti - Della Torre è stato presentato il volume postumo di
Mario Untersteiner, ESCHILO: LE COEFORE (testo, traduzione, commento)
Editore Adolf M. Hakkert, Amsterdam 2002. Hanno presentato questa opera,
che costituisce una importante integrazione alla bibliografia dello
studioso roveretano, fra gli altri, i professori Vittorio Citti e
Walter Lapini, i cui interventi, sintetici ed efficaci, vengono qui
trascritti.
Data l'impossibilità di riprodurre, per motivi di spazio, l'interezza
degli interventi, tutti assai interessanti e ampi, ci limitiamo a
presentare quelli che più degli altri entrano nel merito di questa
singolare ed eccezionale opera di Untersteiner, oltre all'intervento di
Sandra Dorigotti, Assessore alla Cultura del Comune di Rovereto, e alla
relazione di Luca Ronconi, circa la sua
scelta della traduzione di Untersteiner della Trilogia eschilea per un suo
celebre allestimento teatrale.
LA
RELAZIONE DI LUCA RONCONI LETTA DA FRANCO MEREGHETTI
Il titolo della breve ma molto densa relazione di
Ronconi è Il senso di una traduzione:
"La prima volta che ho avuto tra le mani la traduzione dell'Orestea
di Mario Untersteiner, rimanendone subito attratto, ero uno studente
dell'Accademia d'Arte Drammatica. Qui quando nel 1973 decisi di mettere in
scena la Trilogia eschilea, pur avendone avuto altre traduzioni,
non ho avuto dubbi nello sceglierla, malgrado tutte le sue difficoltà, le
sue asperità, la sua sacralità quasi oracolare, mai retorica però, né
pomposa. Ad affascinarmi, fin dall'inizio, è stata quella che definirei la
sua pietrosità, così severamente attenta a cercare di trasferire in
italiano dei costrutti e dei concetti che non ci erano famigliari, con un
risultato altissimo dal punto di vista letterario, ma di difficile
recitabilità da quello teatrale. Per essere chiaro: è stata proprio questa
fedeltà di Untersteiner al testo di Eschilo, e questa evidente difficoltà
a recitarlo, che mi hanno prima sedotto e poi convinto, perché poche
traduzioni come quella erano in sintonia con lo spettacolo che volevo
fare, che poi per me sarebbe stata un'esperienza tremenda, quasi
distruttiva, proprio per quel cercare di andare così a fondo in cose che
non conosciamo più; quel toccare quasi con mano la difficoltà,
l'illegittimità, in un certo senso, di fare teatro nel momento in cui ci
si confronta con questo tipo di testi, di cui si è perduta ogni tradizione
interpretativa. Esperienza che mi avrebbe lasciato la necessità di volermi
misurare di nuovo con quel teatro, cosa che poi ho fatto più volte fino
alla recente Trilogia.
Ma vorrei soffermarmi sulla sintonia che quella traduzione di Mario
Untersteiner, che ho anche avuto la fortuna di conoscere, aveva con le mie
idee di allora. Il mio approccio all'Orestea in quel lontano 1973
era antropologico, e tendeva a separare nettamente i tre momenti di cui si
compone la Trilogia. In questo contesto l'Agamennone era
caratterizzato da tempi fortemente dilatati e si situava in una sorta di
momento mitologico; con le Coefore, invece, volevo proporre un
occhio più privato, borghese: l'ambientazione era dentro le mura di casa;
le Eumenidi, infine, le ho affrontate da un punto di vista
futuribile in una città allo stesso tempo preistorica e futura. La chiave
di volta dello spettacolo stava nel coro, suddiviso in rappresentanti di
diverse epoche, che si confrontavano tra loro, e che si misuravano con una
traduzione perduta, con il sillabare stentato di un linguaggio perduto che
cercavano di recuperare. Il risultato di quella Orestea, dove la
traduzione, che consapevolmente avevo scelto, imponeva un modo di recitare
estremamente lento, estremamente analitico, fu apprezzato da molti,
rifiutato da parecchi, detestato e addirittura ridicolizzato da altri. Ma
ancora oggi quello spettacolo, che partiva da un mondo arcaico e
remotissimo, per arrivare ad uno addirittura futuribile e avveniristico,
come un vero e proprio viaggio nel tempo, mi pare un approccio molto serio
e importante al mondo del teatro greco, che mi ha anche guidato nei miei
lavori posteriori.
Certo, senza quella traduzione, che si sposava perfettamente con la chiave
interpretativa e registica, che riusciva a trasferirsi senza fatica da
un'epoca all'altra, non sarebbe stato possibile mettere in scena, malgrado
lo scetticismo di molti, quella vera e propria sfida che è stata l'Orestea.
Di questo non ringrazierò mai abbastanza il rigore, il lavoro profondo e
geniale di Mario Untersteiner.
Luca Ronconi"
LA
DOTT.SSA DORIGOTTI
(Assessore alla Cultura del Comune di Rovereto)
Io ringrazio la famiglia Untersteiner, la signora Linda
Untersteiner e la fondazione Bauer di questa occasione, che considero
significativa e importante non solo per voi che siete qui presenti ma
anche per me, per la comunità di Rovereto. Nel volume che oggi viene
presentato c'è anche lo scritto Incontro con me stesso, il testo in
cui appunto il professor Untersteiner ricostruisce il suo percorso di
formazione e anche il contesto culturale e i rapporti con le persone che
lo hanno affiancato a Rovereto dove ha vissuto la prima parte della sua
vita, riconoscendo in quel percorso una strada di acquisizione, di
maturazione dello spirito critico, di una scelta radicale di laicismo e di
razionalità che l'ha guidato nel corso degli studi e della vita.
Io qui voglio esprimere l'impegno di Rovereto, dell'Amministrazione perché
il lavoro di Mario Untersteiner possa essere significativamente
valorizzato ulteriormente anche con un contributo nostro, e perché possa
essere non solo terreno di ricerca e di crescita per gli studi e gli
studiosi, ma anche ambito e lavoro di riflessione sulle origini del
pensiero, sul valore dei grandi principi, sulla passione della ricerca
storico-culturale sulle nostre origini, perché possa essere un patrimonio
importante di formazione per le nuove generazioni. Un impegno quindi alla
capacità e alla possibilità che il principio della responsabilità, del
rigore morale e della coerenza con se stessi possa guidare la nostra vita
e la vita delle nostre comunità, anche in tempi difficili.
IL PROF. VITTORIO CITTI
(Università di
Trento)
Io sono lieto di essere qui a presentare
il libro come curatore e anche come direttore della collana in cui
compare; vorrei chiarire a loro anche le ragioni per cui ritengo che
pubblicare questo libro non sia stato solo un doveroso omaggio a un
documento importante della storia della filologia classica in Italia, ma
anche il rendere fruibile un testo che ha degli stimoli, degli stimoli
molto forti per noi, non solo come storici della disciplina, ma anche come
testimoni attivi, operanti nel campo della filologia classica.
Un'attualità che io ho riscoperto, e l'ho riscoperta forse, più che
lavorando all'edizione del libro di Untersteiner, studiando il testo delle
Coefore per un lavoro che sto facendo e di cui parlavo un paio d'ore fa in
un seminario all'Università Cattolica.
Negli anni della mia formazione
universitaria io ebbi spesso modo di leggere e studiare i commenti
eschilei di Mario Untersteiner dall'edizione di Tutto Eschilo del
1947, a una delle Supplici dedicata alla
scuola, pubblicata a Napoli nel 1935; e per interessi miei ebbi
spesso fra le mani i volumetti della BSS dedicati ai Presocratici, e
ammiravo l'esattezza, la compiutezza della documentazione.
Carlo Del Grande, il grecista che diresse
la mia dissertazione di laurea in tempi un po' lontani, diceva spesso che,
quando di un argomento si era occupato Untersteiner, non era necessario
fare ulteriori ricerche bibliografiche. Ebbi anche occasione di recensire
alcuni lavori suoi, come l'edizione dell'operetta aristotelica Della
filosofia, e di rafforzare la mia ammirazione per lo straordinario
scrupolo documentario dell'uomo.
Quando poi divenni professore ordinario e,
dopo sette anni di attività a Cagliari, la stima e la cortesia di alcuni
amici mi chiamarono a Trento, pensai che la vicinanza a Rovereto, la città
natale di Untersteiner, potesse offrirmi una buona occasione per ritornare
sulla personalità del grecista e di approfondirne meglio la conoscenza. Fu
allora che con Luigi Belloni ed Elia De Finis organizzammo nel '99 il
Convegno Dalla lirica al teatro, nel ricordo di Mario Untersteiner.
L'argomento principale di quel convegno fu
proprio l'edizione di Eschilo, della quale cercammo di lumeggiare il
metodo ispiratore, lo sforzo di intendere il testo tràdito dalla
tradizione manoscritta sulla base della poetica dell'autore. Forse
talvolta questo sforzo non sempre approdava a risultati universalmente
condivisibili. Il principio parve a noi, e a numerosi colleghi che
intervennero, estremamente interessante e fecondo. La fortuna che ho avuto
negli anni seguenti di studiare il testo di Eschilo insieme ai miei
colleghi nel dottorato internazionale che collega Trento con Lille, con
Cagliari e adesso con l'Ecole des Hautes Études, mi ha consentito di
andare assai oltre a queste impressioni iniziali e di farne una delle basi
della ricerca che abbiamo svolto fino ad oggi e che comincia a dare
qualche frutto. Ci siamo convinti che la storia della tradizione a stampa
è largamente condizionata dagli idola fori dell'epoca, e quindi, per
valutare le molte proposte testuali che dal Rinascimento in qua sono state
fatte sul difficile testo di Eschilo, era necessario un impegno ermeneutico che mettesse in evidenza le relative premesse ideologiche. E'
noto ad esempio che l'interazione kantiana di Hermann ha influenzato
profondamente le sue scelte testuali e che non è possibile valutare queste
ultime senza tener conto della loro ispirazione. Così, grazie a un
consistente impegno finanziario del Comune di Rovereto, a integrazione dei
fondi ottenuti dal Ministero per la nostra ricerca, abbiamo avviato la
redazione di un "Repertorio di congetture" al testo di Eschilo che dovrà
sostituire quelli esistenti. In realtà dall'età di Bentley, a quella di
Hermann, fino ai moderni editori inglesi che da cinquant'anni gestiscono il
testo di Eschilo, prevale la tendenza a considerare la grammatica, il
lessico e la metrica greca, e in particolare quella dei tragici, come
qualcosa di esattamente definito da leggi rigorose, sulla base delle quali
il testo deve essere normalizzato. E così in particolare Hermann ha
operato un esprit de géometrie, che lo ha portato a stabilire norme
sempre più rigide per la responsione strofica, e ha corretto
sistematicamente il testo sulla base della sua conoscenza straordinaria
della lingua, in modo da eliminare per quanto possibile le singolarità
lessicali, morfologiche e sintattiche. E un analogo spirito di sistema ha
ispirato molti dei successori, tra i quali Murray, ma soprattutto Page e
West. E non troppo diversi sono i testi sofoclei di Dove e di Lloyd-Jones,
quelli euripidei di Diggle. L'istanza analogista
ha riscritto in vari modi, sempre più razionalmente perfetti e limpidi, i
testi dei poeti greci. E allora qui, proprio qui, abbiamo scoperto
l'attualità metodica delle edizioni di Untersteiner, basate su un
apparente conservatorismo testuale, che è essenzialmente rispetto delle
singolarità linguistiche della lexis eschilea, quella lexis, che, a
pochi anni dalla morte del poeta, appariva assolutamente anomala a un
conoscitore di poesia come Aristofane. Esattamente come le scoperte
metodiche di Bruno Gentili e della sua scuola stanno dimostrando astratte
molte correzioni testuali imposte da una concezione rigorosamente
analogista della metrica.
E' chiaro che i pionieri sono
particolarmente esposti alle cadute e quindi non possiamo sempre giurare
sul testo di Untersteiner, cosa che lui non avrebbe certamente voluto. Ma
non ho dubbi che le critiche che a suo tempo gli furono fatte proprio
per Eschilo nascevano da un'incomprensione radicale della sua genialità,
che forse è ancora, in parte, da riscoprire. Inoltre in questo commento,
che per lungo tempo parea fioco, c'è un tesoro di conoscenze di storia
del pensiero greco e della religione greca che nessuno ha mai negato a Untersteiner, ma che non è stato valutato adeguatamente. Do un solo
esempio, che mi è risultato evidente quest'estate, mentre studiavo a
Cambridge il secondo stasimo delle Coefore. Ai vv. 822 e ss. il
coro proclama la sua speranza nel futuro trionfo della giustizia e sul
ristabilimento dei diritti dei figli di Agamennone. Allora, dice il testo,
"come ricchezza che esalti la casa libera alfine, innalzeremo un canto
squillante di incantatrice
ÑxÚkrekton gohtîn nÒmon.
Questo
go»twn è stato corretto e tormentato in mille modi. […] Page aveva
gohtîn. Untersteiner, come del resto
Wilamowitz e Murray, che per altro non ne davano ragione, aveva conservato
go»twn sia nell'edizione del 1947 sia in
quella che presentiamo oggi.
Nessuno però riusciva a capire come e che
cosa c'entrassero le "incantatrici", perché molti concepivano la religione
greca come qualcosa di lucidamente apollineo, e quindi "giustamente"
correggevano. Il primo importante contributo sullo sciamanismo greco è The Greeks and the Irrational di Dodds del 1951, la cui traduzione italiana
recentemente è stata ristampata con una bella introduzione di Riccardo di
Donato.
Poi nel 1962 comparve l'articolo di Burkert, Goes, su Griechischer
Sciamanismus, ma il libro di Dodds fece scandalo nella filologia
tradizionale e Burkert era uno storico delle religioni, che apparteneva
quindi a un'altra parrocchia. Il primo filologo che si accorse della
necessità di tendere il passo in relazione alla presenza del numinoso
nella religione greca, e quindi di mantenere l'incriminato
go»twn, fu Kurt Sier nel suo commento alle
parti liriche delle Coefore pubblicato nel 1986, quarant'anni dopo. E poi
venne West con i suoi Studies nel 1990. La filologia classica aveva
impiegato quarant'anni per scoprire il senso di questo passo, che questo
libro chiariva con assoluta evidenza. Non è certo il solo caso ma solo
l'ultimo che mi è capitato tra le mani, ed è per questo che sono
particolarmente lieto di comprendere nella serie Supplementi di Lexis
questo volume che noi consideriamo uno dei punti di forza della nostra
collezione.
IL PROF. WALTER LAPINI
(Università di Genova)
Io ho scritto e parlato varie volte di Untersteiner in questi anni,
anzi la prima volta che l'ho fatto è stato addirittura diciotto anni fa, e
tutte queste volte io ho sempre cercato di evitare di entrare nel merito
della filologia di Untersteiner, dei suoi studi eschilei in particolare.
Non ho mai voluto fare confronti precisi tra le posizioni di Untersteiner
e le posizioni degli altri studiosi; cioè non ho mai voluto fare il gioco
del chi ha ragione e chi ha torto, anche se va detto che se l'avessi fatto
avrei scoperto che molto spesso Untersteiner aveva ragione, molto più
spesso di quanto gli sia stato riconosciuto.
Comunque io non mi sono occupato di questo, ma mi sono occupato invece del
metodo di Untersteiner, perché negli studi eschilei del '900 un metodo di
Untersteiner è esistito, ormai si può certamente dire, e alcuni aspetti di
questo metodo sono stati discussi prima dall'amico professor Citti. Però,
per quanto mi riguarda personalmente, forse l'aspetto di questo metodo,
che mi ha sempre impressionato di più, è la sua globalità, la sua
aspirazione a essere universale. Che cosa voglio dire: mi spiego con un
piccolo esempio, un piccolo confronto con il presente. Noi antichisti oggi
siamo tutti settorializzati, siamo tutti iperspecializzati. E' difficile
ormai conoscere a fondo più di una disciplina, o addirittura più di un
segmento di una disciplina, e quindi oggi la settorialità è proprio
nell'ordine delle cose, quindi non è né un bene né un male, di per sé.
Però diventa proprio un male quando questa settorialità viene presentata
non come un limite della ricerca, o come un ostacolo alla ricerca, ma come
un progresso, magari persino come un motivo di orgoglio. Questo capita,
purtroppo, capita spesso. E allora siamo di fronte a una mentalità
aberrante. Queste Coefore di Untersteiner sono precisamente
l'antitesi di questa mentalità, perché, come sappiamo, Untersteiner
studiava Eschilo, faceva l'edizione di Eschilo, i commenti ad Eschilo con
un bagaglio immenso di nozioni. Eschilo, ma anche Pindaro, e tanti altri,
e tutti gli autori che ha studiato risentono di questo metodo, sono
trattati con questo metodo. Lui riteneva che anche per studiare un poeta
fossero necessarie tante nozioni, tante competenze: la conoscenza
filosofica e del pensiero presocratico in particolare, della storia delle
religioni, della storia della lingua; la conoscenza delle culture
preelleniche e di quelle del Vicino Oriente; la conoscenza delle
istituzioni indoeuropee. Andrebbe sottolineato, per esempio, anche il
fatto che c'è stata da parte di Untersteiner un'attenzione costante verso
il mondo miceneo anche prima delle scoperte di Michael Ventris. Ora
naturalmente è difficile per un uomo solo mettere insieme tutte queste
nozioni, ma qui non è importante che Untersteiner ci sia riuscito alla
perfezione oppure no, ma l'importante è che ci abbia tentato. Io vorrei
parafrasare qui le notissime parole di Wilamowitz, quando scriveva che
l'esistenza di discipline antichistiche distinte è giustificata solo dalla
limitatezza delle capacità umane e non deve comunque mai offuscare,
neppure nello specialista, la coscienza dell'insieme. Così diceva
Wilamowitz, grosso modo. E queste Coefore sono un tentativo
riuscito di mettere in pratica queste parole. E da parte mia io vorrei
anche dire che forse non è un male che queste Coefore siano uscite
adesso invece che mezzo secolo fa. Lo so che vi sembrerà strano questo,
però io credo che, se questo libro fosse uscito negli anni '40 o negli
anni '50, sarebbe stato solo uno strumento scientifico e nient'altro. Oggi
questo libro invece è qualcosa di più. Penso che possa diventare un libro
paradigmatico, perché da una parte è uno strumento per lo studioso
eschileo, però dall'altra è anche uno strumento per chi deve insegnare
agli studenti, ai giovani, un concetto che ieri era ovvio, ma oggi non
più: cioè che la scienza dell'antichità è una scienza unitaria, e per
studiarla seriamente non basta suonare uno strumento solo, ma bisognerebbe
nei limiti aspirare a suonarne più di uno, a suonarne tanti. Questo è
difficile, per le ragioni che ho detto, però deve essere questo il nostro
obiettivo. Direi che è un guaio se perdiamo di vista questo obiettivo. Per
quanto riguarda poi la mia personale esperienza, posso dire che questo
libro è stato accolto molto bene dalla comunità degli studiosi. Ormai è
uscito verso la fine del 2002, quindi in tanti lo hanno visto, in tanti lo
hanno compulsato. Ed io ho notato che l'atteggiamento degli studiosi è
stato quello di cercare in queste pagine non delle rivelazioni miracolose
sull'esegesi di Eschilo, ma delle indicazioni di metodo. Ecco si torna
sempre lì, al metodo. E quindi, se così è, vuol dire che questo libro è
stato accolto dagli studiosi così come noi volevamo che fosse accolto. E
quindi se questo trend, come si dice oggi, continuerà, insomma sarà
una bella soddisfazione per noi, perché tutti noi che siamo qui presenti
ci sforziamo, ci siamo sforzati di dimostrare con successo, credo, che gli
studi eschilei di Untersteiner non solo non meritavano la damnatio
memoriae, ma rappresentano anzi, a modo loro, una pagina illustre
della filologia italiana del '900. Grazie.
IL PROF.
RICCARDO DI DONATO
(Università di Pisa)
Non ho bisogno - spero - per essere creduto su quella
che sarà la mia prima affermazione, di invocare testimonianza alcuna,
tanto l'assunto è ovvio. Ho accettato con entusiasmo e insieme con
preoccupazione d'inadeguatezza la proposta di partecipare a questa
presentazione, quando mi è stata fatta da Gabriella Untersteiner su
indicazione del mio amico Vittorio Citti. Conversando con la figlia dello
studioso che stasera onoriamo e ripetendo, in distinte circostanze, il
contatto con la signora Linda, cui tanto anche questo libro deve, mi sono
sentito coinvolto in un clima di forte tensione morale e di grande
partecipazione emotiva. Ma desidero dire subito che a quelle conversazione
ero arrivato avendo già potuto vedere il libro, e che reagivo sulla base
di una prima argomentazione personale di ordine razionale, e non di mera
se pur profonda simpatia.
Per questo, alla schietta richiesta di un titolo, che nella prima
conversazione mi fu rivolta, risposi quasi senza esitazione con la formula
che è stata poi accolta di Filologia come impegno civile.
Intendevo allora, e stasera in forma appena più distesa mi propongo di
spiegare, che un primo e decisivo livello di ricezione di questo volume
sta certamente nella esatta comprensione delle circostanze della sua
redazione, negli anni durissimi della guerra, e della occupazione nazista,
per Mario Untersteiner, tra la piccola Binasco nel pavese, e la grande
Milano.
La frase che la dedicataria del volume ricorda d'aver ascoltato dal padre
in quegli anni, "studio perché così mi salvo", aiuta davvero a
capire, con la forza di una sintesi già realizzata, la condensazione di un
pensiero e di una energia, che da spinta etico-politica si fanno azione di
studio su di un prodotto del pensiero antico che ci è arrivato dal remoto
passato, carico di messaggi espliciti e di messaggi riposti.
Assai opportunamente Vittorio Citti insiste su questi
elementi che altri giudicherebbe di contesto e che paiono al contrario
essere essenziali alla comprensione del volume e, come subito cercherò di
argomentare, non di quello soltanto.
Confesso di essere stato colpito da un'analogia tra la situazione, che ho
cominciato a descrivere, di Mario Untersteiner, professore al Liceo
Berchet di Milano, ma, in fondo, esule in una patria offesa in cui gli era
impossibile riconoscersi, e quella che era invece condizione di un esule
in senso proprio, in quegli stessi anni in Inghilterra. Per quel medesimo
periodo, le carte degli archivi ci hanno permesso di apprendere che
Arnaldo Momigliano, esule a Oxford, tradusse per intero Eschilo in
inglese, tragedia dopo tragedia, per educarsi al passaggio dalla lingua
degli antichi a quella in cui doveva apprendere a pensare, per capire ed
essere capito e - fatto sinceramente impressionante - ci hanno fatto poi
sapere che lo storico scrisse un saggio sulla tragedia attica, che
intitolò The Polis and the Suppliant, un titolo che non ha bisogno
di commento storicizzante, alla cui pubblicazione rinunciò in seguito, in
circostanze che altrove ho descritto nel presentare l'inedito ritrovato
solo pochi anni fa.
Invocare uno storicismo assoluto, nella temperie postmoderna che ci
avvolge e che con noi rischia di offuscare i lumi della ragione, almeno
quella a noi contemporanea, sarebbe impresa vocata al fallimento e non è
quella che io mi propongo. Gli elementi della analogia che intendo siano
ritenuti sono due soltanto. Il primo, che quello storico storico
piemontese ma soprattutto ha praticato con la vita piuttosto che
nella vita intera, si riassume nella formula relativa al valore
consolatorio della conoscenza: la sola consolazione sta nella
conoscenza, scrisse Momigliano nella prefazione alla Griechische
Kulturgeschichte di Jakob Burckhardt. Il secondo è dato dal senso
profondo del tragico per entro l'esperienza greca o meglio ateniese. Il
vincolo strettissimo, che una forma d'arte assai elevata quale quella
tragica, con una forza comunicativa capace di trapassare secoli - e
nell'esperienza reale - addirittura millenni, mantiene con quella che
timidamente possiamo ancora chiamare ideologia della città, traduzione
singola e soggettiva di una dimensione collettiva e pure parziale, come
quella della città di Atene e del suo tempo.
Ora, se l'uomo di teatro, o il cittadino spettatore sono piuttosto portati
a vedere, nella interpretazione della tragedia, della singola come del
fenomeno generale del tragico, proprio l'aspetto che tende all'universale,
l'antichista, il grecista, lo studioso delle forme del pensiero antico nel
rapporto con le forme sociali di quel tempo remoto, e quindi nella storia,
deve - intendo proprio dire che ha il dovere di -
cercare di trovare quello che meglio gli permetta di capire il senso reale
della interazione tra l'autore, il poeta, e il suo pubblico, e quindi con
tutta la città: deve capire la tragedia nella sua realtà storica e quindi
oggi inattuale.
Condivido allora l'esitazione dell'amico prefatore dinanzi alle domande
relative al libro di Mario Untersteiner, perché Eschilo, perché proprio le
Coefore? a Milano tra il 1944 e il 1947. Condivido soprattutto la
rinuncia, per quel che riguarda noi oggi, a qualunque formula riassuntiva,
semplificatoria o aspirante a fini di consolazione.
Il senso primo di questo libro sta già nella sua struttura forte e
compatta, nel desiderio di totalità che caratterizza il lungo commentario
analitico e sta anche - lo affermo senza timore di contraddizione - nella
accettazione da parte dell'autore del destino provvisorio cui l'impresa
editoriale avviata dopo la guerra arrivò: la pubblicazione parziale e la
rinuncia provvisoria a qualcosa che poteva essere giudicato fuori dal
tempo della sua concezione e realizzazione e quindi male inteso.
E' proprio perché uscito alla luce fuori dal tempo,
mezzo secolo dopo - la scatola di cartone con le schede, dimenticate in
uno scaffale di un corridoio domestico, come la lettera nascosta che
assiste beffarda ai tentativi vani di chi la cerca, valgono in ciò quello
che le viscere della terra sono d'abitudine per i resti del passato - è
proprio per ciò che questo libro assume valore e giustifica il grande
lavoro del trascrittore delle schede del commento, Giancarlo Scarpa, e la
successiva fatica, che - con ostinato e ammirevole rigore - il curatore
Walter Lapini ha aggiunto a quella dell'autore.
Così, moderni lettori, possiamo - se anche noi rinunciamo alla pigrizia
delle vie facili - accostarci al dramma eschileo che tanta impressione
aveva suscitato nel pubblico di Atene, e, guidati dall'interpretazione di
Mario Untersteiner, possiamo cercare la nostra personale risonanza
rispetto a questa conoscenza che avviene solo nel dolore, questo secondo
pure ingigantito dall'orrore dei delitti commessi entro il proprio sangue
e impersonato dalla espressione sacrale e mitologica delle forze che
agiscono a provocarlo.
Citti spiega assai bene nel suo testo introduttivo quelli che appaiono
essere i tratti essenziali del metodo di Untersteiner come editore di un
testo, di cui afferma e insieme determina la coerenza rispetto alla
poetica eschilea. Si tratta di una visione che aspira alla globalità e che
comunque parte dalla costituzione del test e si svolge nel saggio
introduttivo e nelle lunghe e complesse note di commento. Come ogni
interprete, Untersteiner è spinto da consonanze profonde alla ricerca di
quello che gli sta a cuore. Se è vero che al fondo della sua indagine sta
la scoperta della responsabilità personale umana in un mondo sovrastato,
piuttosto che diretto, da forze sovrumane, è altrettanto vero che la via
della intelligenza linguistica e storico-religiosa guida l'interpretazione
proprio dentro le forme del pensiero degli antichi e dentro quelle delle
pratiche della religione.
Secondo questa ottica, la parte già nota del volume, il lungo saggio
introduttivo che accompagna la traduzione, fornisce una via di lento
avvicinamento al testo, cercando - secondo una delle costanti della intera
opera di Untersteiner - le radici più profonde del mito entro la religione
greca, le sue dualità e le sue contraddizioni.
La parte che descrive le diverse possibili letture della stessa situazione
onomastica del pantheon elementare dei greci, e il senso che assume il suo
svolgimento storico, che segue quello delle vicende delle alternanze e
delle mescolanze dei diversi popoli, nel terreno su cui viene definendosi
il carattere ellenico - identificato in prima approssimazione dalla sola
voce linguistica - appare assai vigorosa, anche ora che, meglio
conosciuta, da mezzo secolo, la civiltà micenea, il problema si è meglio
chiarito. Rimangono tuttavia le ombre relative ai caratteri effettivi
della civiltà minoica e appare eccessivamente semplificatorio continuare a
parlare di uno strato indoeuropeo che si sovrappone o in parte si mescola
con un sostrato mediterraneo. Quali divinità siano da ricondursi con
certezza assoluta all'uno o all'altro resta, almeno a mio giudizio, di
difficile determinazione. Quello che invece non è suscettibile di dubbio è
il fortissimo radicamento religioso - nel nesso inscindibile di miti e di
riti - che è necessario immaginare per tutta la materia che diviene
oggetto di trasmissione, nella forma letteraria e poetica di cui siamo
informati o che addirittura conosciamo attraverso testi giunti fino a noi.
Qui il lettore contemporaneo sente la necessità di aggiungere una
acquisita capacità di precisazione su che cosa sia il religioso per i
Greci. Va capito come il religioso e il sociale siano in buona sostanza
una cosa sola per il fatto che la dimensione collettiva degli uomini è
quella in cui si determina la presenza divina e la costituzione della
forma del sacro. Per lo meno fino a Socrate, o meglio alla sua condanna e
alla sua morte, così come narrate da Platone, la messa in discussione di
questo significa perdita di contatto con le forme ordinate della
convivenza. E fin da quando, alla fine del VII° sec., si può parlare di
una forma peculiare della convivenza dei Greci, nell'analisi entra un
nuovo fattore che si inserisce nel quadro che vengo disegnando sotto la
specie del politico, il sociale dei Greci, nella loro formazione peculiare
che è la polis.
La capacità plastica del mezzo, che noi rubrichiamo sotto la specie
letteraria del mito, si estende al messaggio e a tutti i suoi contenuti a
partire quindi da quelli che noi consideriamo religiosi. Da una
religiosità naturale - nelle simbologie e nelle forme cultuali -
alla complessa religiosità culturale, nelle forme politiche della Atene
del V° sec., c'è un percorso di pensiero per niente lineare e comunque non
definitivo. Ogni soggetto pensante, a maggior ragione ogni poeta
mythopoiòs, può far leva sui diversi livelli di risonanza sociale e
religiosa preesistenti o comunque divergenti che convivono nel quadro
della città. La polis non annulla l'effetto e la vitalità di formazioni
sociali (come i demi o le fratrìe), che non sono mai mera partizione
dell'istituzione principale.
Tutte le manifestazioni dell'umano trovano una collocazione entro la sfera
del sacro. Si tratti di una collocazione scelta per comodo esplicativo -
l'esempio più immediato può essere quello della follia posta, per non dire
trattata, nell'ambito del dionisiaco - oppure corrisponda a una effettiva
difficoltà di collocazione di quello che diciamo globalmente irrazionale
entro il reale greco - come vorrebbe il pensiero dell'idealismo della fine
del XIX° sec., la premessa vale a definire il tragico e la sua grandezza:
quale che sia la singola storia messa in scena, il vero oggetto del dramma
è l'uomo con i suoi problemi esistenziali.
E' davvero interessante vedere come Untersteiner risolva molto dall'alto
la questione posta, un secolo prima, del contrasto tra dionisiaco e
apollineo come i due estremi di una contraddizione che è unità perché
vale come una forma dell'essere. La storicità dei culti, in
particolare quella dei culti attici, cui lo spettatore doveva essere
educato e quindi abituato senza bisogno di interventi didascalici, non
vale che come codice esplicativo a disposizione del pubblico storico della
prima rappresentazione, quella del 458 prima della nostra era, ed è questa
a richiedere il secondo livello della storicizzazione che appare, nella
esposizione introduttiva del critico, esclusivamente letterario.
Da Omero a Eschilo, il mito di Oreste non appare e non è mero oggetto di
letteratura.
Se anche non seguiamo più l'autore nella marcatura dei singoli segmenti,
il processo di definizione della nozione centrale appare in qualche modo
lineare: il nucleo fondamentale è la questione della giustizia, della
determinazione della volontà umana, della responsabilità personale e
della possibile soluzione dell'insieme in un quadro di differenziata
convivenza.
Ciò posto in linea generale, va visto il problema per Eschilo e, dato che
lo si vuole vedere per Eschilo, lo si deve vedere anche per Atene.
Anche per Untersteiner, infatti, come per autori assai distanti da lui per
formazione e per scelta ideologica, il concreto del dramma presuppone il
binomio Eschilo e Atene, autore e pubblico, individuo e collettività,
comunicatore e destinatario di un messaggio la cui storica determinazione
avviene entro precise e innegabili coordinate. Senza mai cadere nella
logica della coincidenza evenemenziale, da cui lo tiene lontano
l'impostazione che vengo descrivendo, l'autore sente tuttavia l'esigenza
di una definizione della punizione del delitto di sangue nella Atene
classica come problema reale e quindi storico. Questo problema, che appare
centrale e quasi sempre fondativo in ogni formazione sociale, segue nella
città di Atena un percorso tutto particolare a partire dalle
leggi di Dracone. Untersteiner legge, credo consapevolmente, lo
svolgimento della vicenda storica a riguardo, sulla scorta della
ricostruzione di uno storico francese, Gustave Glotz, fortemente
condizionato dalla interlocuzione con la scuola sociologica francese e
anche specificamente formato alla considerazione dei problemi giuridici e
della solidarietà familiare.
La saga sanguinosa degli Atridi è una sorta di banco ideale di prova delle
teorie relative alla determinazione della nozione di colpa come fatto
individuale e non dipendente da una mediazione sociale comunque tradotta
in forma mitologica o letteraria. Così impostata la prima questione,
intorno alla formazione sociale più oscura e forse inesistente, il
genos in età storica, tutti gli elementi possono assumere una
evidenza e una attualità storica immediata. Ogni nome di divinità può
richiamare all'esperienza diretta di ogni membro della comunità ateniese
un rito, una pratica di culto in cui è oppure è stato, direttamente o
familiarmente coinvolto. Oreste e il suo viaggio verso Atene forniscono
una sorta di pretesto attualizzante - parlo del 458 - non solo per i
contatti e l'alleanza tra Argo e Atene ma per la manifestazione di uno
spirito, di un orgoglio cittadino che troveranno esito trionfale nel ruolo
determinante -decisorio in senso giuridico- della dea eponima nella
conclusione della trilogia, quando perfino le oscure ctonie Erinni si
illumineranno nella benevola funzione delle Eumenidi.
L'ipotesi di una giustizia possibile, che arrivi a trovare soluzione per
l'autore del più orrendo dei delitti, che arriva, fatto greco e
determinante senso - al termine di una catena inenarrabile e tuttavia
pienamente narrata di delitti enormi e infami compiuti entro la stessa
genealogia, non appare semplicemente consolatoria rispetto alla dimensione
del sacro: gli dei che pure spingono ad errare hanno poi, e forse
pour cause, potenza salvifica. L'istituzione del tribunale
dell'Areopago riconduce e radica profondamente e concretamente in terra
attica questa giustizia nuova, di origini divine ma di pratica umana, che
soddisfa la necessità di chi ha appreso attraverso il dolore. Il bene, se
mai c'è, può davvero vincere e rispondere alla invocazione che il coro gli
ha rivolto nella tragedia di Agamennone.
Per come l'ho impostato, il mio discorso si piega male,
a questo punto, all'esigenza di rendere ragione del commento in quanto
tale e soprattutto nella sua globalità.
L'ermeneutica di Mario Untersteiner non perde mai di vista l'esigenza
didattica elementare e sempre si preoccupa dell'intelligenza del testo.
Qui sempre in principio è la parola.
Se scelgo un solo esempio nel commento non è soltanto per ovvia esigenza
di brevità d'esposizione ma per affrontare un tema che è finora rimasto
fuori dal mio ragionamento ma che è ben presente in quello di Untersteiner.
Mi riferisco all'elemento specificatamente teatrale, a quello che pertiene
al teatro - come si è scritto - sulla scena, che si presenta nelle sue
molteplici valenze. In questo davvero il commento non trascura nulla, a
partire dalla definizione degli spazi e della centralità drammatica, in
tutta la prima parte, della tomba del re ucciso che è essenziale allo
svolgimento del dramma e alla qualificazione degli elementari movimenti
degli attori. Poi il palazzo, la reggia di Agamennone, la sede dei
delitti. Si arriva alla fine alla sottolineatura della nuova notte, al
buio finale che deve essere indotto dalla parola tragica, alla fine, quasi
meridiana nella realtà della rappresentazione, del secondo dei drammi
della trilogia.
Il critico è assai attento nel commento al valore teatrale della
alternanza tra monologo, dialogo e canto lirico, esprime attenta
sensibilità all'aspetto musicale e alla valenza anche scenica del canto.
Esemplare è il caso dell'analisi del grande kommòs. Dov'è il teatro
in una forma lirica complessa, che evoca - secondo l'interprete - almeno tre
modelli reali, ben noti al pubblico, il gòos, il lamento funerario,
il threnos o ainos epitymbios, la lode poetica cantata per
il morto, e infine lo hymnos, l'invocazione alla divinità?
Forse - pare suggerire - sta proprio nella irrealtà di questa
fusione, di questa mescolanza enfatizzata dalla altezza della poesia. E'
indicazione seria per chi si voglia porre, in termini non solo letterari,
il problema della traducibilità effettiva del testo antico in un diverso
contesto di civiltà. Anche la nozione di irreale è determinata
storicamente e varia nel tempo.
Non proseguo nella lettura analitica.
Vorrei concludere nel senso degli assunti iniziali, estendendo alla
condizione nostra attuale quel che ho detto del momento della composizione
del libro. Cerchiamo anche noi di intendere e praticare la nostra
filologia come un'occasione di impegno civile.
Una provvisoria conclusione appare allora finalmente possibile, oltre che
necessaria, per il tentativo di interpretazione qui proposto. Per certo
non si deve più rispondere alla domanda: perché Eschilo? Alla domanda:
perché le Coefore? una risposta è già stata proposta, quasi solo
per l'evidenza dei dati, nel corso della riflessione appena svolta. Va
indicata ancora con un elemento di dubbio e di prudenza ma non va taciuta.
Forse, perché -nel buio della condizione di assenza di giustizia vissuto
dall'interprete- appariva necessaria la comprensione della profondità del
dolore e insieme appariva impossibile la fiducia troppo immediata in una
soluzione liberatoria. Ma a questa tutto doveva e deve rinviare - per
Eschilo e per il suo interprete Mario Untersteiner: una soluzione civile,
culturale, umana in senso alto, anche nel momento più difficile e più
oscuro, deve restare possibile e può arrivare a realizzarsi.
Se ho ben inteso il messaggio del volume e del suo autore, resta solo che
dica che anch'io, ma certo anche noi tutti, che siamo insieme qui stasera,
crediamo, prima ancora di sperarlo, che esista una prospettiva di
giustizia e che questa sia, in parte almeno, anche per noi, interpreti del
reale e non più solo spettatori.
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