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MARIO UNTERSTEINER:
LA FILOLOGIA COME IMPEGNO CIVILE

Il giorno 10 marzo 2004, presso la Società Umanitaria - Fondazione Bauer, sala Facchinetti - Della Torre è stato presentato il volume postumo di Mario Untersteiner, ESCHILO: LE COEFORE (testo, traduzione, commento) Editore Adolf M. Hakkert, Amsterdam 2002. Hanno presentato questa opera, che costituisce una importante integrazione alla bibliografia dello studioso roveretano, fra gli altri,  i professori Vittorio Citti e Walter Lapini, i cui interventi, sintetici ed efficaci, vengono qui trascritti.

Data l'impossibilità di riprodurre, per motivi di spazio, l'interezza degli interventi, tutti assai interessanti e ampi, ci limitiamo a presentare quelli che più degli altri entrano nel merito di questa singolare ed eccezionale opera di Untersteiner, oltre all'intervento di Sandra Dorigotti, Assessore alla Cultura del Comune di Rovereto, e alla relazione di Luca Ronconi, circa la sua scelta della traduzione di Untersteiner della Trilogia eschilea per un suo celebre allestimento teatrale.

LA RELAZIONE DI LUCA RONCONI LETTA DA FRANCO MEREGHETTI

Il titolo della breve ma molto densa relazione di Ronconi è Il senso di una traduzione:
"La prima volta che ho avuto tra le mani la traduzione dell'Orestea di Mario Untersteiner, rimanendone subito attratto, ero uno studente dell'Accademia d'Arte Drammatica. Qui quando nel 1973 decisi di mettere in scena la Trilogia eschilea, pur avendone avuto altre traduzioni, non ho avuto dubbi nello sceglierla, malgrado tutte le sue difficoltà, le sue asperità, la sua sacralità quasi oracolare, mai retorica però, né pomposa. Ad affascinarmi, fin dall'inizio, è stata quella che definirei la sua pietrosità, così severamente attenta a cercare di trasferire in italiano dei costrutti e dei concetti che non ci erano famigliari, con un risultato altissimo dal punto di vista letterario, ma di difficile recitabilità da quello teatrale. Per essere chiaro: è stata proprio questa fedeltà di Untersteiner al testo di Eschilo, e questa evidente difficoltà a recitarlo, che mi hanno prima sedotto e poi convinto, perché poche traduzioni come quella erano in sintonia con lo spettacolo che volevo fare, che poi per me sarebbe stata un'esperienza tremenda, quasi distruttiva, proprio per quel cercare di andare così a fondo in cose che non conosciamo più; quel toccare quasi con mano la difficoltà, l'illegittimità, in un certo senso, di fare teatro nel momento in cui ci si confronta con questo tipo di testi, di cui si è perduta ogni tradizione interpretativa. Esperienza che mi avrebbe lasciato la necessità di volermi misurare di nuovo con quel teatro, cosa che poi ho fatto più volte fino alla recente Trilogia.
Ma vorrei soffermarmi sulla sintonia che quella traduzione di Mario Untersteiner, che ho anche avuto la fortuna di conoscere, aveva con le mie idee di allora. Il mio approccio all'Orestea in quel lontano 1973 era antropologico, e tendeva a separare nettamente i tre momenti di cui si compone la Trilogia. In questo contesto l'Agamennone era caratterizzato da tempi fortemente dilatati e si situava in una sorta di momento mitologico; con le Coefore, invece, volevo proporre un occhio più privato, borghese: l'ambientazione era dentro le mura di casa; le Eumenidi, infine, le ho affrontate da un punto di vista futuribile in una città allo stesso tempo preistorica e futura. La chiave di volta dello spettacolo stava nel coro, suddiviso in rappresentanti di diverse epoche, che si confrontavano tra loro, e che si misuravano con una traduzione perduta, con il sillabare stentato di un linguaggio perduto che cercavano di recuperare. Il risultato di quella Orestea, dove la traduzione, che consapevolmente avevo scelto, imponeva un modo di recitare estremamente lento, estremamente analitico, fu apprezzato da molti, rifiutato da parecchi, detestato e addirittura ridicolizzato da altri. Ma ancora oggi quello spettacolo, che partiva da un mondo arcaico e remotissimo, per arrivare ad uno addirittura futuribile e avveniristico, come un vero e proprio viaggio nel tempo, mi pare un approccio molto serio e importante al mondo del teatro greco, che mi ha anche guidato nei miei lavori posteriori.
Certo, senza quella traduzione, che si sposava perfettamente con la chiave interpretativa e registica, che riusciva a trasferirsi senza fatica da un'epoca all'altra, non sarebbe stato possibile mettere in scena, malgrado lo scetticismo di molti, quella vera e propria sfida che è stata l'Orestea. Di questo non ringrazierò mai abbastanza il rigore, il lavoro profondo e geniale di Mario Untersteiner.
Luca Ronconi"

LA DOTT.SSA DORIGOTTI
(Assessore alla Cultura del Comune di Rovereto)

Io ringrazio la famiglia Untersteiner, la signora Linda Untersteiner e la fondazione Bauer di questa occasione, che considero significativa e importante non solo per voi che siete qui presenti ma anche per me, per la comunità di Rovereto. Nel volume che oggi viene presentato c'è anche lo scritto Incontro con me stesso, il testo in cui appunto il professor Untersteiner ricostruisce il suo percorso di formazione e anche il contesto culturale e i rapporti con le persone che lo hanno affiancato a Rovereto dove ha vissuto la prima parte della sua vita, riconoscendo in quel percorso una strada di acquisizione, di maturazione dello spirito critico, di una scelta radicale di laicismo e di razionalità che l'ha guidato nel corso degli studi e della vita.
Io qui voglio esprimere l'impegno di Rovereto, dell'Amministrazione perché il lavoro di Mario Untersteiner possa essere significativamente valorizzato ulteriormente anche con un contributo nostro, e perché possa essere non solo terreno di ricerca e di crescita per gli studi e gli studiosi, ma anche ambito e lavoro di riflessione sulle origini del pensiero, sul valore dei grandi principi, sulla passione della ricerca storico-culturale sulle nostre origini, perché possa essere un patrimonio importante di formazione per le nuove generazioni. Un impegno quindi alla capacità e alla possibilità che il principio della responsabilità, del rigore morale e della coerenza con se stessi possa guidare la nostra vita e la vita delle nostre comunità, anche in tempi difficili.

IL PROF. VITTORIO CITTI
 (Università di Trento)

Io sono lieto di essere qui a presentare il libro come curatore e anche come direttore della collana in cui compare; vorrei chiarire a loro anche le ragioni per cui ritengo che pubblicare questo libro non sia stato solo un doveroso omaggio a un documento importante della storia della filologia classica in Italia, ma anche il rendere fruibile un testo che ha degli stimoli, degli stimoli molto forti per noi, non solo come storici della disciplina, ma anche come testimoni attivi, operanti nel campo della filologia classica. Un'attualità che io ho riscoperto, e l'ho riscoperta forse, più che lavorando all'edizione del libro di Untersteiner, studiando il testo delle Coefore per un lavoro che sto facendo e di cui parlavo un paio d'ore fa in un seminario all'Università Cattolica.

Negli anni della mia formazione universitaria io ebbi spesso modo di leggere e studiare i commenti eschilei di Mario Untersteiner dall'edizione di Tutto Eschilo del 1947, a una delle Supplici dedicata alla scuola, pubblicata a Napoli nel 1935; e per interessi miei ebbi spesso fra le mani i volumetti della BSS dedicati ai Presocratici, e ammiravo l'esattezza, la compiutezza della documentazione.

Carlo Del Grande, il grecista che diresse la mia dissertazione di laurea in tempi un po' lontani, diceva spesso che, quando di un argomento si era occupato Untersteiner, non era necessario fare ulteriori ricerche bibliografiche. Ebbi anche occasione di recensire alcuni lavori suoi, come l'edizione dell'operetta aristotelica Della filosofia, e di rafforzare la mia ammirazione per lo straordinario scrupolo documentario dell'uomo.

Quando poi divenni professore ordinario e, dopo sette anni di attività a Cagliari, la stima e la  cortesia di alcuni amici mi chiamarono a Trento, pensai che la vicinanza a Rovereto, la città natale di Untersteiner, potesse offrirmi una buona occasione per ritornare sulla personalità del grecista e di approfondirne meglio la conoscenza. Fu allora che con Luigi Belloni ed Elia De Finis organizzammo nel '99 il Convegno Dalla lirica al teatro, nel ricordo di Mario Untersteiner.

L'argomento principale di quel convegno fu proprio l'edizione di Eschilo, della quale cercammo di lumeggiare il metodo ispiratore, lo sforzo di intendere il testo tràdito dalla tradizione manoscritta sulla base della poetica dell'autore. Forse talvolta questo sforzo non sempre approdava a risultati universalmente condivisibili. Il principio parve a noi, e a numerosi colleghi che intervennero, estremamente interessante e fecondo. La fortuna che ho avuto negli anni seguenti di studiare il testo di Eschilo insieme ai miei colleghi nel dottorato internazionale che collega Trento con Lille, con Cagliari e adesso con l'Ecole des Hautes Études, mi ha consentito di andare assai oltre a queste impressioni iniziali e di farne  una delle basi della ricerca che abbiamo svolto fino ad oggi e che comincia a dare qualche frutto. Ci siamo convinti che la storia della tradizione a stampa è largamente condizionata dagli idola fori  dell'epoca, e quindi, per valutare le molte proposte testuali che dal Rinascimento in qua sono state fatte sul difficile testo di  Eschilo, era necessario un impegno ermeneutico che mettesse in evidenza le relative premesse ideologiche. E' noto ad esempio che l'interazione kantiana di Hermann ha influenzato profondamente le sue scelte testuali e che non è possibile valutare queste ultime senza tener conto della loro ispirazione. Così, grazie a un consistente impegno finanziario del Comune di Rovereto, a integrazione dei fondi ottenuti dal Ministero per la nostra ricerca, abbiamo avviato la redazione  di un "Repertorio di congetture" al testo di Eschilo che dovrà sostituire quelli esistenti. In realtà dall'età di Bentley,  a quella di Hermann, fino ai moderni editori inglesi che da cinquant'anni gestiscono il testo di Eschilo, prevale la tendenza a considerare la grammatica, il lessico e la metrica greca, e in particolare quella dei tragici, come qualcosa di esattamente definito da leggi rigorose, sulla base delle quali il testo deve essere normalizzato. E così in particolare Hermann ha operato un esprit de géometrie,  che lo ha portato a stabilire norme sempre più rigide  per la responsione strofica, e   ha corretto sistematicamente il testo sulla base della sua conoscenza straordinaria della lingua, in modo da eliminare per quanto possibile le singolarità lessicali, morfologiche e sintattiche. E un analogo spirito di sistema ha ispirato molti dei successori, tra i quali Murray, ma soprattutto Page e West. E non troppo diversi sono i testi sofoclei di Dove e di Lloyd-Jones, quelli  euripidei di Diggle. L'istanza analogista ha riscritto in vari modi, sempre più razionalmente perfetti e limpidi, i testi dei poeti greci. E allora qui, proprio qui, abbiamo scoperto l'attualità metodica delle edizioni di Untersteiner, basate su un apparente conservatorismo testuale, che è essenzialmente rispetto delle singolarità linguistiche della lexis  eschilea, quella lexis,  che, a pochi anni dalla morte del poeta, appariva assolutamente anomala a un conoscitore di poesia come Aristofane. Esattamente come le scoperte metodiche di Bruno Gentili e della sua scuola stanno dimostrando astratte molte correzioni testuali imposte da una concezione rigorosamente analogista della metrica.

E' chiaro che i pionieri sono particolarmente esposti alle cadute e quindi non possiamo sempre giurare sul testo di Untersteiner, cosa che lui non avrebbe certamente voluto. Ma non ho dubbi che le critiche che a suo tempo gli furono fatte  proprio per Eschilo  nascevano da un'incomprensione radicale della sua genialità, che forse è ancora, in parte, da riscoprire. Inoltre in questo commento, che per lungo tempo parea fioco, c'è un tesoro di conoscenze di storia del pensiero greco e della religione greca che nessuno ha mai negato a Untersteiner, ma che non è stato valutato adeguatamente. Do un solo esempio, che mi è risultato evidente quest'estate, mentre studiavo a Cambridge il secondo stasimo delle Coefore. Ai vv. 822 e ss. il coro proclama la sua speranza nel futuro trionfo della giustizia e sul ristabilimento dei diritti dei figli di Agamennone. Allora, dice il testo, "come ricchezza che esalti la casa libera alfine, innalzeremo un canto squillante di incantatrice

ÑxÚkrekton gohtîn nÒmon.

Questo go»twn è stato corretto e tormentato in mille modi. […] Page aveva gohtîn. Untersteiner, come del resto Wilamowitz e Murray, che per altro non ne davano ragione, aveva conservato go»twn sia nell'edizione del 1947 sia in quella che presentiamo oggi.

Nessuno però riusciva a capire come e che cosa c'entrassero le "incantatrici", perché molti concepivano la religione greca come qualcosa di lucidamente apollineo, e quindi "giustamente" correggevano. Il primo importante contributo sullo sciamanismo greco è The Greeks and the Irrational di Dodds del 1951, la cui traduzione italiana recentemente è stata ristampata con una bella introduzione di Riccardo di Donato.

Poi nel 1962 comparve l'articolo di Burkert, Goes, su Griechischer Sciamanismus, ma il libro di Dodds fece scandalo nella filologia tradizionale e Burkert era uno storico delle religioni, che apparteneva quindi a un'altra parrocchia. Il primo filologo che si accorse della necessità di tendere il passo in relazione alla presenza del numinoso nella religione greca, e quindi di mantenere l'incriminato go»twn, fu Kurt Sier nel suo commento alle parti liriche delle Coefore pubblicato nel 1986, quarant'anni dopo. E poi venne West con i suoi Studies  nel 1990. La filologia classica aveva impiegato quarant'anni per scoprire il senso di questo passo, che questo libro chiariva con assoluta evidenza. Non è certo il solo caso ma solo l'ultimo che mi è capitato tra le mani, ed è per questo che sono particolarmente lieto di comprendere nella serie Supplementi di Lexis questo volume che noi consideriamo uno dei punti di forza della nostra collezione.

IL PROF. WALTER LAPINI
(Università di Genova)

Io ho scritto e parlato varie volte di Untersteiner in questi anni, anzi la prima volta che l'ho fatto è stato addirittura diciotto anni fa, e tutte queste volte io ho sempre cercato di evitare di entrare nel merito della filologia di Untersteiner, dei suoi studi eschilei in particolare. Non ho mai voluto fare confronti precisi tra le posizioni di Untersteiner e le posizioni degli altri studiosi; cioè non ho mai voluto fare il gioco del chi ha ragione e chi ha torto, anche se va detto che se l'avessi fatto avrei scoperto che molto spesso Untersteiner  aveva ragione, molto più spesso di quanto gli sia stato riconosciuto.
Comunque io non mi sono occupato di questo, ma mi sono occupato invece del metodo di Untersteiner, perché negli studi eschilei del '900 un metodo di Untersteiner è esistito, ormai si può certamente dire, e alcuni aspetti di questo metodo sono stati discussi prima dall'amico professor Citti. Però, per quanto mi riguarda personalmente, forse l'aspetto di questo metodo, che mi ha sempre impressionato di più, è la sua globalità, la sua aspirazione a essere universale. Che cosa  voglio dire: mi spiego con un piccolo esempio, un piccolo confronto con il presente. Noi antichisti oggi siamo tutti settorializzati, siamo tutti iperspecializzati. E' difficile ormai conoscere a fondo più di una disciplina, o addirittura più di un segmento di una disciplina, e quindi oggi la settorialità è proprio nell'ordine delle cose, quindi  non è  né un bene né un male, di per sé. Però diventa proprio  un male quando questa settorialità viene presentata non come un limite della ricerca, o come un ostacolo alla ricerca, ma come un progresso, magari persino come un motivo di orgoglio. Questo capita, purtroppo, capita spesso. E allora siamo di fronte a una mentalità aberrante. Queste Coefore di Untersteiner sono precisamente l'antitesi di questa mentalità, perché, come sappiamo, Untersteiner studiava Eschilo, faceva l'edizione di Eschilo, i commenti ad Eschilo con un bagaglio immenso di nozioni. Eschilo, ma anche Pindaro, e tanti altri, e tutti gli autori  che ha studiato risentono di questo metodo, sono trattati con questo metodo. Lui riteneva che anche per studiare un poeta fossero necessarie tante nozioni, tante competenze: la conoscenza filosofica e del pensiero presocratico in particolare, della storia delle religioni, della storia della lingua; la conoscenza delle culture preelleniche e di quelle del Vicino Oriente; la conoscenza delle istituzioni indoeuropee. Andrebbe sottolineato, per esempio, anche il fatto che c'è stata da parte di Untersteiner un'attenzione costante verso il mondo miceneo anche prima delle scoperte di Michael Ventris. Ora naturalmente è difficile per un uomo solo mettere insieme tutte queste nozioni, ma qui non è importante che Untersteiner ci sia riuscito alla perfezione oppure no, ma l'importante è che ci abbia tentato. Io vorrei parafrasare qui le notissime parole di Wilamowitz, quando scriveva che l'esistenza di discipline antichistiche distinte è giustificata solo dalla limitatezza delle capacità umane e non deve comunque mai offuscare, neppure nello specialista, la coscienza dell'insieme. Così diceva Wilamowitz, grosso modo. E queste Coefore sono un tentativo riuscito di mettere in pratica queste parole. E da parte mia io vorrei anche dire che forse non è un male che queste Coefore siano uscite adesso invece che mezzo secolo fa. Lo so che vi sembrerà strano questo, però io credo  che, se questo libro fosse uscito negli anni '40 o negli anni '50, sarebbe stato solo uno strumento scientifico e nient'altro. Oggi questo libro invece è qualcosa di più. Penso che possa diventare un libro paradigmatico, perché da una parte è uno strumento per lo studioso eschileo, però dall'altra è anche uno strumento per chi deve insegnare agli studenti, ai giovani, un concetto che ieri era ovvio, ma oggi non più: cioè che la scienza dell'antichità è una scienza unitaria, e per studiarla seriamente non basta suonare uno strumento solo, ma bisognerebbe nei limiti aspirare a suonarne più di uno, a suonarne tanti. Questo è difficile, per le ragioni che ho detto, però deve essere questo il nostro obiettivo. Direi che è un guaio se perdiamo di vista questo obiettivo. Per quanto riguarda poi la mia personale esperienza, posso dire che questo libro è stato accolto molto bene dalla comunità degli studiosi. Ormai è uscito verso la fine del 2002, quindi in tanti lo hanno visto, in tanti lo hanno compulsato. Ed io ho notato che l'atteggiamento degli studiosi è stato quello di cercare in queste pagine non delle rivelazioni miracolose sull'esegesi di Eschilo, ma delle indicazioni di metodo. Ecco si torna sempre lì, al metodo. E quindi, se così è, vuol dire che questo libro è stato accolto dagli studiosi così come noi volevamo che fosse accolto. E quindi se questo trend, come si dice oggi, continuerà, insomma sarà una bella soddisfazione per noi, perché tutti noi che siamo qui presenti  ci sforziamo, ci siamo sforzati di dimostrare con successo, credo, che gli studi eschilei di Untersteiner non solo non meritavano la damnatio memoriae, ma rappresentano anzi, a modo loro, una pagina illustre della filologia italiana del '900. Grazie.

IL PROF. RICCARDO DI DONATO
(Università di Pisa)

Non ho bisogno - spero - per essere creduto su quella che sarà la mia prima affermazione, di invocare testimonianza alcuna, tanto l'assunto è ovvio. Ho accettato con entusiasmo e insieme con preoccupazione d'inadeguatezza la proposta di partecipare a questa presentazione, quando mi è stata fatta da Gabriella Untersteiner su indicazione del mio amico Vittorio Citti. Conversando con la figlia dello studioso che stasera onoriamo e ripetendo, in distinte circostanze, il contatto con la signora Linda, cui tanto anche questo libro deve, mi sono sentito coinvolto in un clima di forte tensione morale e di grande partecipazione emotiva. Ma desidero dire subito che a quelle conversazione ero arrivato avendo già potuto vedere il libro, e che reagivo sulla base di una prima argomentazione personale di ordine razionale, e non di mera se pur profonda simpatia.
Per questo, alla schietta richiesta di un titolo, che nella prima conversazione mi fu rivolta, risposi quasi senza esitazione con la formula che è stata poi accolta di Filologia come impegno civile.
Intendevo allora, e stasera in forma appena più distesa mi propongo di spiegare, che un primo e decisivo livello di ricezione di questo volume sta certamente nella esatta comprensione delle circostanze della sua redazione, negli anni durissimi della guerra, e della occupazione nazista, per Mario Untersteiner, tra la piccola Binasco nel pavese, e la grande Milano.
La frase che la dedicataria del volume ricorda d'aver ascoltato dal padre in quegli anni, "studio perché così mi salvo", aiuta davvero a capire, con la forza di una sintesi già realizzata, la condensazione di un pensiero e di una energia, che da spinta etico-politica si fanno azione di studio su di un prodotto del pensiero antico che ci è arrivato dal remoto passato, carico di messaggi espliciti e di messaggi riposti.

Assai opportunamente Vittorio Citti insiste su questi elementi che altri giudicherebbe di contesto e che paiono al contrario essere essenziali alla comprensione del volume e, come subito cercherò di argomentare, non di quello soltanto.
Confesso di essere stato colpito da un'analogia tra la situazione, che ho cominciato a descrivere, di Mario Untersteiner, professore al Liceo Berchet di Milano, ma, in fondo, esule in una patria offesa in cui gli era impossibile riconoscersi, e quella che era invece condizione di un esule in senso proprio, in quegli stessi anni in Inghilterra. Per quel medesimo periodo, le carte degli archivi ci hanno permesso di apprendere che Arnaldo Momigliano, esule a Oxford, tradusse per intero Eschilo in inglese, tragedia dopo tragedia, per educarsi al passaggio dalla lingua degli antichi a quella in cui doveva apprendere a pensare, per capire ed essere capito e - fatto sinceramente impressionante - ci hanno fatto poi sapere che lo storico scrisse un saggio sulla tragedia attica, che intitolò The Polis and the Suppliant, un titolo che non ha bisogno di commento storicizzante, alla cui pubblicazione rinunciò in seguito, in circostanze che altrove ho descritto nel presentare l'inedito ritrovato solo pochi anni fa.
Invocare uno storicismo assoluto, nella temperie postmoderna che ci avvolge e che con noi rischia di offuscare i lumi della ragione, almeno quella a noi contemporanea, sarebbe impresa vocata al fallimento e non è quella che io mi propongo. Gli elementi della analogia che intendo siano ritenuti sono due soltanto. Il primo, che quello storico storico piemontese ma soprattutto ha praticato con la vita piuttosto che nella vita intera, si riassume nella formula relativa al valore consolatorio della conoscenza: la sola consolazione sta nella conoscenza, scrisse Momigliano nella prefazione alla Griechische Kulturgeschichte di Jakob Burckhardt. Il secondo è dato dal senso profondo del tragico per entro l'esperienza greca o meglio ateniese. Il vincolo strettissimo, che una forma d'arte assai elevata quale quella tragica, con una forza comunicativa capace di trapassare secoli - e nell'esperienza reale - addirittura millenni, mantiene con quella che timidamente possiamo ancora chiamare ideologia della città, traduzione singola e soggettiva di una dimensione collettiva e pure parziale, come quella della città di Atene e del suo tempo.
Ora, se l'uomo di teatro, o il cittadino spettatore sono piuttosto portati a vedere, nella interpretazione della tragedia, della singola come del fenomeno generale del tragico, proprio l'aspetto che tende all'universale, l'antichista, il grecista, lo studioso delle forme del pensiero antico nel rapporto con le forme sociali di quel tempo remoto, e quindi nella storia,  deve - intendo proprio dire che ha il dovere di - cercare di trovare quello che meglio gli permetta di capire il senso reale della interazione tra l'autore, il poeta, e il suo pubblico, e quindi con tutta la città: deve capire la tragedia nella sua realtà storica e quindi oggi inattuale.
Condivido allora l'esitazione dell'amico prefatore dinanzi alle domande relative al libro di Mario Untersteiner, perché Eschilo, perché proprio le Coefore? a Milano tra il 1944 e il 1947. Condivido soprattutto la rinuncia, per quel che riguarda noi oggi, a qualunque formula riassuntiva, semplificatoria o aspirante a fini di consolazione.
Il senso primo di questo libro sta già nella sua struttura forte e compatta, nel desiderio di totalità che caratterizza il lungo commentario analitico e sta anche - lo affermo senza timore di contraddizione - nella accettazione da parte dell'autore del destino provvisorio cui l'impresa editoriale avviata dopo la guerra arrivò: la pubblicazione parziale e la rinuncia provvisoria a qualcosa che poteva essere giudicato fuori dal tempo della sua concezione e realizzazione e quindi male inteso.

E' proprio perché uscito alla luce fuori dal tempo, mezzo secolo dopo - la scatola di cartone con le schede, dimenticate in uno scaffale di un corridoio domestico, come la lettera nascosta che assiste beffarda ai tentativi vani di chi la cerca, valgono in ciò quello che le viscere della terra sono d'abitudine per i resti del passato - è proprio per ciò che questo libro assume valore e giustifica il grande lavoro del trascrittore delle schede del commento, Giancarlo Scarpa, e la successiva fatica, che - con ostinato e ammirevole rigore - il curatore Walter Lapini ha aggiunto a quella dell'autore.
Così, moderni lettori, possiamo - se anche noi rinunciamo alla pigrizia delle vie facili - accostarci al dramma eschileo che tanta impressione aveva suscitato nel pubblico di Atene, e, guidati dall'interpretazione di Mario Untersteiner, possiamo cercare la nostra personale risonanza rispetto a questa conoscenza che avviene solo nel dolore, questo secondo pure ingigantito dall'orrore dei delitti commessi entro il proprio sangue e impersonato dalla espressione sacrale e mitologica delle forze che agiscono a provocarlo.
Citti spiega assai bene nel suo testo introduttivo quelli che appaiono essere i tratti essenziali del metodo di Untersteiner come editore di un testo, di cui afferma e insieme determina la coerenza rispetto alla poetica eschilea. Si tratta di una visione che aspira alla globalità e che comunque parte dalla costituzione del test e si svolge nel saggio introduttivo e nelle lunghe e complesse note di commento. Come ogni interprete, Untersteiner è spinto da consonanze profonde alla ricerca di quello che gli sta a cuore. Se è vero che al fondo della sua indagine sta la scoperta della responsabilità personale umana in un mondo sovrastato, piuttosto che diretto, da forze sovrumane, è altrettanto vero che la via della intelligenza linguistica e storico-religiosa guida l'interpretazione proprio dentro le forme del pensiero degli antichi e dentro quelle delle pratiche della religione.
Secondo questa ottica, la parte già nota del volume, il lungo saggio introduttivo che accompagna la traduzione, fornisce una via di lento avvicinamento al testo, cercando - secondo una delle costanti della intera opera di Untersteiner - le radici più profonde del mito entro la religione greca, le sue dualità e le sue contraddizioni.
La parte che descrive le diverse possibili letture della stessa situazione onomastica del pantheon elementare dei greci, e il senso che assume il suo svolgimento storico, che segue quello delle vicende delle alternanze e delle mescolanze dei diversi popoli, nel terreno su cui viene definendosi il carattere ellenico - identificato in prima approssimazione dalla sola voce linguistica - appare assai vigorosa, anche ora che, meglio conosciuta, da mezzo secolo, la civiltà micenea, il problema si è meglio chiarito. Rimangono tuttavia le ombre relative ai caratteri effettivi della civiltà minoica e appare eccessivamente semplificatorio continuare a parlare di uno strato indoeuropeo che si sovrappone o in parte si mescola con un sostrato mediterraneo. Quali divinità siano da ricondursi con certezza assoluta all'uno o all'altro resta, almeno a mio giudizio, di difficile determinazione. Quello che invece non è suscettibile di dubbio è il fortissimo radicamento religioso - nel nesso inscindibile di miti e di riti - che è necessario immaginare per tutta la materia che diviene oggetto di trasmissione, nella forma letteraria e poetica di cui siamo informati o che addirittura conosciamo attraverso testi giunti fino a noi.
Qui il lettore contemporaneo sente la necessità di aggiungere una acquisita capacità di precisazione su che cosa sia il religioso per i Greci. Va capito come il religioso e il sociale siano in buona sostanza una cosa sola per il fatto che la dimensione collettiva degli uomini è quella in cui si determina la presenza divina e la costituzione della forma del sacro. Per lo meno fino a Socrate, o meglio alla sua condanna e alla sua morte, così come narrate da Platone, la messa in discussione di questo significa perdita di contatto con le forme ordinate della convivenza. E fin da quando, alla fine del VII° sec., si può parlare di una forma peculiare della convivenza dei Greci, nell'analisi entra un nuovo fattore che si inserisce nel quadro che vengo disegnando sotto la specie del politico, il sociale dei Greci, nella loro formazione peculiare che è la polis.
La capacità plastica del mezzo, che noi rubrichiamo sotto la specie letteraria del mito, si estende al messaggio e a tutti i suoi contenuti a partire quindi da quelli che noi consideriamo religiosi. Da una religiosità naturale  - nelle simbologie e nelle forme cultuali - alla complessa religiosità culturale, nelle forme politiche della Atene del V° sec., c'è un percorso di pensiero per niente lineare e comunque non definitivo. Ogni soggetto pensante, a maggior ragione ogni poeta mythopoiòs, può far leva sui diversi livelli di risonanza sociale e religiosa preesistenti o comunque divergenti che convivono nel quadro della città. La polis non annulla l'effetto e la vitalità di formazioni sociali (come i demi o le fratrìe), che non sono mai mera partizione dell'istituzione principale.
Tutte le manifestazioni dell'umano trovano una collocazione entro la sfera del sacro. Si tratti di una collocazione scelta per comodo esplicativo - l'esempio più immediato può essere quello della follia posta, per non dire trattata, nell'ambito del dionisiaco - oppure corrisponda a una effettiva difficoltà di collocazione di quello che diciamo globalmente irrazionale entro il reale greco - come vorrebbe il pensiero dell'idealismo della fine del XIX° sec., la premessa vale a definire il tragico e la sua grandezza: quale che sia la singola storia messa in scena, il vero oggetto del dramma è l'uomo con i suoi problemi esistenziali.
E' davvero interessante vedere come Untersteiner risolva molto dall'alto la questione posta, un secolo prima, del contrasto tra dionisiaco e apollineo come i due estremi di una contraddizione che è unità perché vale come una forma dell'essere. La storicità dei culti, in particolare quella dei culti attici, cui lo spettatore doveva essere educato e quindi abituato senza bisogno di interventi didascalici, non vale che come codice esplicativo a disposizione del pubblico storico della prima rappresentazione, quella del 458 prima della nostra era, ed è questa a richiedere il secondo livello della storicizzazione che appare, nella esposizione introduttiva del critico, esclusivamente letterario.
Da Omero a Eschilo, il mito di Oreste non appare e non è mero oggetto di letteratura.
Se anche non seguiamo più l'autore nella marcatura dei singoli segmenti, il processo di definizione della nozione centrale appare in qualche modo lineare: il nucleo fondamentale è la questione della giustizia, della determinazione della  volontà umana, della responsabilità personale e della possibile soluzione dell'insieme in un quadro di differenziata convivenza.
Ciò posto in linea generale, va visto il problema per Eschilo e, dato che lo si vuole vedere per Eschilo, lo si deve vedere anche per Atene.
Anche per Untersteiner, infatti, come per autori assai distanti da lui per formazione e per scelta ideologica, il concreto del dramma presuppone il binomio Eschilo e Atene, autore e pubblico, individuo e collettività, comunicatore e destinatario di un messaggio la cui storica determinazione avviene entro precise e innegabili coordinate. Senza mai cadere nella logica della coincidenza evenemenziale, da cui lo tiene lontano l'impostazione che vengo descrivendo, l'autore sente tuttavia l'esigenza di una definizione della punizione del delitto di sangue nella Atene classica come problema reale e quindi storico. Questo problema, che appare centrale e quasi sempre fondativo in ogni formazione sociale, segue nella città di Atena  un  percorso tutto particolare a partire dalle leggi di Dracone. Untersteiner legge, credo consapevolmente, lo svolgimento della vicenda storica a riguardo, sulla scorta della ricostruzione di uno storico francese, Gustave Glotz, fortemente condizionato dalla interlocuzione con la scuola sociologica francese e anche specificamente formato alla considerazione dei problemi giuridici e della solidarietà familiare.
La saga sanguinosa degli Atridi è una sorta di banco ideale di prova delle teorie relative alla determinazione della nozione di colpa come fatto individuale e non dipendente da una mediazione sociale comunque tradotta in forma mitologica o letteraria. Così impostata la prima questione, intorno alla formazione sociale più oscura e forse inesistente, il genos in età storica, tutti gli  elementi possono assumere una evidenza e una attualità storica immediata. Ogni nome di divinità può richiamare all'esperienza diretta di ogni membro della comunità ateniese un rito, una pratica di culto in cui è oppure è stato, direttamente o familiarmente coinvolto. Oreste e il suo viaggio verso Atene forniscono una sorta di pretesto attualizzante - parlo del 458 - non solo per i contatti e l'alleanza tra Argo e Atene ma per la manifestazione di uno spirito, di un orgoglio cittadino che troveranno esito trionfale nel ruolo determinante -decisorio in senso giuridico- della dea eponima nella conclusione della trilogia, quando perfino le oscure ctonie Erinni si illumineranno nella benevola funzione delle Eumenidi.
L'ipotesi di una giustizia possibile, che arrivi a trovare soluzione per l'autore del più orrendo dei delitti, che arriva, fatto greco e determinante senso - al termine di una catena inenarrabile e tuttavia pienamente narrata di delitti enormi e infami compiuti entro la stessa genealogia, non appare semplicemente consolatoria rispetto alla dimensione del sacro: gli dei che pure spingono ad errare hanno poi, e forse  pour cause, potenza salvifica. L'istituzione del tribunale dell'Areopago riconduce e radica profondamente e concretamente in terra attica questa giustizia nuova, di origini divine ma di pratica umana, che soddisfa la necessità di chi ha appreso attraverso il dolore. Il bene, se mai c'è, può davvero vincere e rispondere alla invocazione che il coro gli ha rivolto nella tragedia di Agamennone.
 

Per come l'ho impostato, il mio discorso si piega male, a questo punto, all'esigenza di rendere ragione del commento in quanto tale e soprattutto nella sua globalità.
L'ermeneutica di Mario Untersteiner non perde mai di vista l'esigenza didattica elementare e sempre si preoccupa dell'intelligenza del testo.
Qui sempre in principio è la parola.
Se scelgo un solo esempio nel commento non è soltanto per ovvia esigenza di brevità d'esposizione ma per affrontare un tema che è finora rimasto fuori dal mio ragionamento ma che è ben presente in quello di Untersteiner.
Mi riferisco all'elemento specificatamente teatrale, a quello che pertiene al teatro - come si è scritto - sulla scena, che si presenta nelle sue molteplici valenze. In questo davvero il commento non trascura nulla, a partire dalla definizione degli spazi e della centralità drammatica, in tutta la prima parte, della tomba del re ucciso che è essenziale allo svolgimento del dramma e alla qualificazione degli elementari movimenti degli attori. Poi il palazzo, la reggia di Agamennone, la sede dei delitti. Si arriva alla fine alla sottolineatura della nuova notte, al buio finale che deve essere indotto dalla parola tragica, alla fine, quasi meridiana nella realtà della rappresentazione, del secondo dei drammi della trilogia.
Il critico è assai attento nel commento al valore teatrale della alternanza tra monologo, dialogo e canto lirico, esprime attenta sensibilità all'aspetto musicale e alla valenza anche scenica del canto. Esemplare è il caso dell'analisi del grande kommòs. Dov'è il teatro in una forma lirica complessa, che evoca - secondo l'interprete - almeno tre modelli reali, ben noti al pubblico, il gòos, il lamento funerario, il threnos o ainos epitymbios, la lode poetica cantata per il morto, e infine lo hymnos, l'invocazione alla divinità? Forse - pare suggerire - sta proprio nella irrealtà di questa fusione, di questa mescolanza enfatizzata dalla altezza della poesia. E' indicazione seria per chi si voglia porre, in termini non solo letterari, il problema della traducibilità effettiva del testo antico in un diverso contesto di civiltà. Anche la nozione di irreale è determinata storicamente e varia nel tempo.

Non proseguo nella lettura analitica.
Vorrei concludere nel senso degli assunti iniziali, estendendo alla condizione nostra attuale quel che ho detto del momento della composizione del libro. Cerchiamo anche noi di intendere e praticare la nostra filologia come un'occasione di impegno civile.
Una provvisoria conclusione appare allora finalmente possibile, oltre che necessaria, per il tentativo di interpretazione qui proposto. Per certo non si deve più rispondere alla domanda: perché Eschilo? Alla domanda: perché le Coefore? una risposta è già stata proposta, quasi solo per l'evidenza dei dati, nel corso della riflessione appena svolta. Va indicata ancora con un elemento di dubbio e di prudenza ma non va taciuta. Forse, perché -nel buio della condizione di assenza di giustizia vissuto dall'interprete- appariva necessaria la comprensione della profondità del dolore e insieme appariva impossibile la fiducia troppo immediata in una soluzione liberatoria. Ma a questa tutto doveva e deve rinviare - per Eschilo e per il suo interprete Mario Untersteiner: una soluzione civile, culturale, umana in senso alto, anche nel momento più difficile e più oscuro, deve restare possibile e può arrivare a realizzarsi.
Se ho ben inteso il messaggio del volume e del suo autore, resta solo che dica che anch'io, ma certo anche noi tutti, che siamo insieme qui stasera, crediamo, prima ancora di sperarlo, che esista una prospettiva di giustizia e che questa sia, in parte almeno, anche per noi, interpreti del reale e non più solo spettatori.