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Il giorno 30 marzo 1998, presso la Società Umanitaria, Sala
Facchinetti-Della Torre, a cura della Fondazione Riccardo Bauer, si è tenuta una
conferenza-commemorazione in preparazione al centenario della nascita del prof. Mario
Untersteiner, che cadrà l'agosto dell'anno prossimo.
Presieduti da Massimo della Campa, hanno di seguito preso la
parola il prof. Arturo Colombo, la prof. Neris Borea in sostituzione del prof. Antonio M.
Battegazzore (ordinario di storia della filosofia all'Università di Genova), il prof.
Dario del Corno (ordinario di letteratura greca all'Università di Milano), e la prof.
Fernanda Decleva Caizzi (ordinaria di storia della filosofia antica all'Università di
Milano).
Poiché purtroppo ci è impossibile riprodurre nella loro
interezza tutti i pur interessantissimi interventi, ci limiteremo a stralci di quelli del
prof. Del Corno e della prof. F. Decleva Caizzi, sperando di dare una chiara impressione
dell'alto livello culturale dell'incontro. Per correttezza nei confronti dei relatori,
ogni omissione sarà indicata da puntini di sospensione.
IL PROF. DARIO DEL CORNO
[...] Io non sono stato allievo in senso tecnico ed accademico di
Mario Untersteiner. Quando egli venne a Milano, come docente, io ero già laureato,
assistente. Ho avuto a lungo il privilegio della sua compagnia e della sua amicizia, così
cordialmente e generosamente elargite da lui, ma non ne sono stato allievo. Questo è
sempre stato per me motivo di forte rammarico. [...] Se dico questo, se faccio in
quest'occasione dell'autobiografia, di cui mi scuso (non vorrei farla mai, ma in queste
circostanze si deve parlare dell'oggetto del nostro discorso), è perché all'insegnamento
di Mario Untersteiner io mi sento legato ancora da molto prima che iniziasse la nostra
conoscenza personale. Arrivo forse a includere Mario Untersteiner fra gli elementi o i
fattori determinanti della mia scelta culturale, che poi divenne tutt'uno con una scelta
professionale, [...] una scelta che mi ha reso felice e mi rende felice tuttora. Dico di
questo lontano collegamento perché ero studente di ginnasio, quando affrontai la prima
lettura di un testo impegnativo della letteratura greca (in traduzione allora, perché ero
in quarta ginnasio e masticavo solo i primi rudimenti dell'alfabeto): e fu l'Orestea
tradotta da Mario Untersteiner, che divenne subito per me un nome mitico, un punto di
riferimento; e mi pervadeva poi sempre una grande emozione, per anni e anni, quando ci
parlavamo con la grande familiarità che mi concedeva, quando lo sentivo al telefono, e
ricordavo ciò che egli era stato per me, lui che mi aveva introdotto alla grandezza della
poesia, alla grandezza del teatro. Io credo che chi non ha vissuto in un certo modo quegli
anni non dell'immediato, ma del tardo dopoguerra, possa capire solo fino a un certo punto
che cosa significasse questa emozione. Untersteiner significava la rottura con la
retorica: noi avevamo trascorso i primi anni consapevoli della nostra vita in mezzo al
fastidio per la retorica e all'insofferenza per la vuotaggine della parola fine a se
stessa. Interveniva questa austera, ardua traduzione, impervia a volte, a richiamarci
all'idea che sotto la parola, ma soprattutto sopra le parole c'è un significato, c'è una
convinzione, un'idea, un'etica: e questa era una cosa grandissima, un'emozione
straordinaria. E sono sempre rimasto molto grato - ma è un termine banale -, a Mario
Untersteiner, ho sempre sentito - come dire - come se fossi nato una seconda volta grazie
alla energia di questo insegnamento. Naturalmente, letta l'Orestea, con tutte le
difficoltà che poteva comportare per un ragazzo di quarta ginnasio, mi buttai poi sugli
altri libri (alcuni erano già usciti) di Untersteiner, soprattutto quelli relativi alla
tragedia, naturalmente. E forse fu proprio da questi libri che maturò una sostanziale
passione per l'universo tragico dei greci, e per certe idee fondamentali che secondo me
intorno alla tragedia greca vanno continuamente ripetute e riaffermate. Untersteiner
rompeva con una tradizione anche negli studi sulla tragedia. La tradizione che egli
interrompeva era quella naturalistica del personaggio, una tradizione legata all'enfasi
del personaggio nel teatro tardo-ottocentesco, e del primo novecento. Untersteiner
richiamava rigorosamente ai momenti ideali del personaggio, alla sua lotta, al suo
combattimento, se possiamo usare un'immagine testamentaria, con la conoscenza. Il
personaggio lotta con la conoscenza, non lotta con le passioni, secondo Untersteiner: e
questo è profondamente vero. Noi abbiamo alle spalle troppo da vicino la passionalità
del personaggio teatrale, tragico, e non riusciamo a comprendere fino in fondo, a
distaccarci da questa passionalità, per ritornare alla genuinità potente dell'idea,
dello scavo nella conoscenza, per comprendere il mondo, la propria volontà, il destino,
il conflitto dell'esistere, che è la ragione essenziale della tragedia greca.
La sua traduzione dell'Orestea, in modo quasi
paradossale, per la sua aspra e impervia verità, ebbe però una grandissima fortuna
teatrale. Proprio sulle scene teatrali Luca Ronconi la usò per la sua illustre messa in
scena dell'Orestea, nel '72, e credo che ancora oggi, dopo tanti decenni ormai di
conoscenza con Luca Ronconi, il mio maggiore titolo ai suoi occhi sia quello di avere
conosciuto Untersteiner, e di avergli potuto parlare. Ronconi aveva scelto questa
traduzione perché aveva sentito quella genuinità primigenia che sprigiona dalla parola
di Untersteiner; e di questa traduzione si servì poi come supporto per la sua edizione
italiana un altro illustre regista, Peter Stein, in anni recentissimi, nel '84, se ricordo
esattamente. Le traduzioni teatrali generalmente invecchiano e nello spazio di pochi anni
diventano piene di ciarpame, di usi obsoleti, sgradevoli, di fatuità. Questa traduzione
no: ancora a distanza di quaranta o cinquant'anni, ha conservato questa sua eccezionale
potenza. Untersteiner scrisse due grandi libri sulla tragedia: uno su Sofocle, che è
stato pubblicato nel '34 e poi ripubblicato nel '74, e riedito successivamente; e un altro
libro, Le Origini della tragedia, nel '42, e poi ripubblicato in una edizione
notevolmente ampliata (sostanzialmente è un altro libro), Le origini della tragedia e
del tragico. Dalla preistoria a Eschilo, se ricordo esattamente nel '55, da Einaudi.
Questi libri hanno segnato, a mio parere, un nuovo percorso per l'interpretazione della
tragedia greca, in quanto hanno proposto la tragedia come "il pensare la vita
dell'uomo", per citare una frase di Untersteiner. Questo è un punto di singolare
coesione e incontro, inaspettato incontro, con questo destino teatrale. Untersteiner
interpreta la tragedia come filosofia, ma è anche vero che l'autentico teatro è
pensiero. Nella traduzione di Untersteiner, la frase forse più illustre della tragedia
greca, senz'altro di Eschilo e dell'Orestea, si esprime così:
tÕn fronen brotoÝj Ðdè-
santa, tù p£qei m£qoj
qnta kur
wj cein.
(Eschilo, Agam., 176-178). |
"Zeus suole avviare i mortali a
saggezza poiché ha stabilito la norma che un'assennata esperienza diventi
efficace ad opra di tutti gli umani dolori". |
Questa traduzione è di per se stessa un'interpretazione non solo
del verso di Eschilo, ma di tutta la tragedia greca. È un richiamo
potente, questa interpretazione, al contenuto umano della tragedia. Il protagonista della
tragedia non è il divino, ma è, secondo Untersteiner, l'uomo. Il divino è un problema
che concerne la mente e l'azione dell'eroe, ma l'eroe è l'uomo: al centro sta l'uomo. Il
momento, il processo della conoscenza sono il nucleo della verità umana, che agita l'eroe
tragico, e la tragedia è un modello dialettico proprio come processo di conoscenza, in
quanto è forma di mimesi teatrale, e quindi non di racconto obiettivo, ma di azione
vissuta, e impostata e voluta soggettivamente, e al tempo stesso immagine dell'ambiguità
della condizione umana. Questa ambiguità Untersteiner la riconosce in Dioniso: egli si
inoltra con estrema precisione filologica, e padronanza degli impatti filologici, nel
complesso problema, inestricabile probabilmente, delle origini della tragedia greca: e non
si avventura in ipotesi di fatto ormai irraggiungibili, ma partendo dagli unici fondamenti
certi, che sono le notizie relative al nome tragJd
a ed
il complesso delle notizie aristoteliche, riconduce le origini della tragedia a Dioniso,
alla verità di Dioniso, come forma della totalità. Questa idea era già stata battuta
nel corso della filologia tragica, ma Untersteiner la prospetta in un'interpretazione
nuova: Dioniso nella figura tragica è l'immagine dell'unità nell'opposizione: ovvero, la
tragedia è il momento che unifica le opposizioni e le ambiguità del reale. E soprattutto
in questo è - direi - l'aspetto più emozionante dell'insegnamento di Untersteiner
intorno alla tragedia: spetta all'uomo ricostruire con la propria collaborazione
metafisica il rapporto fra la libertà e l'ordine cosmico.
Il problema della libertà è centrale nel pensiero e nella vita
di Untersteiner. Parlavo prima dell'autenticità della sua parola e del suo richiamo alla
verità del pensiero, ed è in un certo senso una sorta di necessità storica, vista a
posteriori, che i suoi studi sulla tragedia siano sorti intorno al periodo della guerra
universale, e della sua personale emarginazione. Un evento vissuto con severa pietà
dovuta ad anni tragici, nel senso traslato del termine, da tutta l'umanità, e al tempo
stesso un periodo vissuto nella speranza e nella convinzione che all'uomo fosse pur sempre
dato di costruire qualcosa di valido, qualche cosa di vero e di eterno. Io credo che sia
soprattutto nella moralità immanente e rigorosa di questo percorso di verità ciò che
personalmente devo a Mario Untersteiner (ed è qualcosa che va al di là di questa radiosa
memoria - come lo sono in genere tutte - della giovinezza): è indubbiamente la
gratitudine per avere influenzato, se non determinato la mia vita. Ma soprattutto
Untersteiner è stato per me, e credo per tutti noi che ci siamo trovati qui questa sera
per ricordarlo con tanto affetto e con tanta commozione, un uomo di verità, un modello di
autenticità, di rigore e di moralità superiore. Grazie.
LA PROF. FERNANDA DECLEVA
CAIZZI
[...] Il prof. Untersteiner apparteneva alla categoria dei
professori esigenti: di quelli che davano molto e richiedevano molto. E quando arrivò
all'Università di Milano alla fine degli anni cinquanta, scelse come suo primo corso di
Storia della Filosofia Antica l'opera perduta di Aristotele Intorno alla filosofia.
Pochi furono gli studenti che lo seguirono [...], e fra questi uno sparutissimo gruppetto
di matricole. Si trattava di un corso estremamente complesso, che dispiegava di fronte a
noi un intero universo di problemi, di metodi, di interpretazioni. Problemi rispetto ai
quali i pur buoni, e in qualche caso eccellenti licei da cui provenivamo, non ci avevano
di certo preparato. I frammenti e le testimonianze del dialogo aristotelico sono
conservati dagli autori più diversi, molti dei quali, come i tardi commentatori di
Aristotele, ci erano del tutto sconosciuti. I pesantissimi volumi dei Commentaria in
Aristotelem Graeca dell'Accademia delle Scienze di Berlino, che Untersteiner si
portava a lezione, apriva, leggeva in greco e commentava, fanno parte, non a caso, delle
immagini indelebili del mio apprendistato universitario, e credo non solo del mio. Durante
quelle lezioni, Untersteiner non si limitò a proporre la propria interpretazione
originale dell'opera aristotelica, ma ci fornì un'enorme quantità di informazioni sulla
strumentazione e la metodologia della ricerca nell'ambito della filosofia antica. Conservo
ancora le schede bibliografiche compilate da me durante quelle lezioni; e che le
compilassi, mi pare oggi non un segno significativo di una vocazione precoce, ma piuttosto
dell'influenza di chi insegnava, perché in realtà io mi ero iscritta a Lettere con
l'intenzione di laurearmi in Archeologia e Storia dell'arte, e non mi sfiorava minimamente
il pensiero che quei foglietti di carta avrebbero costituito il primo nucleo del futuro
schedario che avrebbe poi accompagnato tutta la mia vita lavorativa. Ora molte cose di
quelle che ascoltavamo riuscivano difficili, e io credo che alcune sfuggissero del tutto,
soprattutto a quelli di noi che erano al primo anno. Però un messaggio ci giungeva, ed
era inequivocabilmente chiaro. Quello che ci veniva offerto, o che intravedevamo, valeva
lo sforzo necessario per impadronirsene. E da Untersteiner io ho imparato allora una
lezione fondamentale, a cui negli anni ho cercato di rimanere fedele nei limiti delle mie
capacità molto più modeste: e cioè che il compito di un buon professore, di qualsiasi
buon insegnante in qualsiasi ordine di scuole, è quello di far nascere negli allievi la
convinzione, che, al di là di quello che pensano di aver compreso o di aver acquisito,
esiste sempre qualcosa di importante che non hanno ancora compreso o acquisito, e nel far
sì che questo scarto non generi frustrazione, scettica indifferenza, o, peggio ancora,
rifiuto, ma renda l'anima attiva, desiderosa di cercare, e disponibile ad affrontare con
coraggio la fatica che questo comporta (e qui mi si perdoni il riecheggiamento platonico).
Non è questo un risultato facile da ottenere, e per varie ragioni. Perché l'amore per la
ricerca e la conoscenza non deve essere scambiato con l'impulso utilitaristico a una
formazione professionale, anche se tutti noi sappiamo bene che la formazione professionale
viene enormemente arricchita se si accompagna all'amore per la conoscenza; e perché,
almeno nel nostro ambito di studi, ma probabilmente in ogni caso, l'intelligenza creativa,
per potersi manifestare, dev'essere alimentata da un solido patrimonio di nozioni di base,
cioè da quello che, sfidando l'impopolarità, vorrei chiamare "nozionismo", o,
più elegantemente, "erudizione". L'acquisizione di nozioni comporta sempre
fatica, non è un'attività in cui la componente ludica prevale, certo non quando si
incomincia ad impadronirsi dei rudimenti di una scienza, in quanto i mattoni e le travi
lasciano a stento intravedere la bellezza e l'armonia dell'edificio che sono destinati a
comporre. Questo vale per tutte le scienze. E, contrariamente a quello che molti credono o
fingono di credere, le scienze umanistiche non fanno eccezione.
Il magistero didattico e scientifico di Untersteiner costituisce a
mio parere un bell'esempio di quella che vorrei chiamare "erudizione dotata
di senso". In altri termini è il prodotto di una ricerca che nasce per un
bisogno interiore di conoscenza, che cresce sullo stimolo delle grandi domande che uomini
e donne ieri come oggi si pongono, sul bene, sul male, sul significato dell'esistere, sul
ruolo della persona nel mondo. Come tale, essa non ha bisogno di giustificarsi, perché il
suo significato coincide con il suo oggetto. La frequentazione assidua e paziente dei
testi porta alla luce un messaggio: l'invito ad affrontare i contrasti e le contraddizioni
dell'esistere con l'aiuto del pensiero critico. Si tratta di un messaggio che Untersteiner
sente valido per l'uomo d'oggi, e dunque come qualcosa che ci insegna a capire noi stessi,
e ci aiuta a vivere. E in questo senso i classici sono attuali. Ma secondo Untersteiner,
come ho avuto occasione di far notare anche in altra sede, lo studio del mondo classico ha
valore anche in se stesso, al di là dell'attualità o meno dei suoi contenuti, come
esercizio della capacità e dell'ingegno. In questo, come in ogni altro campo del sapere,
ogni individuo che vi si dedichi, e che vi sia portato per doti naturali, ha non solo la
possibilità, ma anche il dovere morale di dare il meglio di sé. E la stessa esplicazione
delle capacità che la natura ha dato a ciascuno, è fonte di gioia, e contiene in sé un
rasserenante principio di autogiustificazione. E in un'epoca di sbandamento, come quella
in cui oggi viviamo, questo è un messaggio di grande importanza. Tuttavia, perché questo
si esplichi, occorre qualcosa di fondamentale: infatti, nel momento in cui la ricerca del
senso individua nei Greci il luogo d'elezione (almeno naturalmente per quel che riguarda
la tradizione europea ed occidentale), essa non può produrre nulla di realmente
significativo, se non si arma degli strumenti che permettono un rigoroso approccio
storico-filologico al testo. Solo così si può sfuggire al rischio della vana
chiacchiera, delle forzature, delle appropriazioni teoretiche: un aggettivo, questo, che
contrariamente ai tanto bistrattati "erudizione" e "nozionismo", è
molto di moda in tutto il mondo, ma nasconde di rado letture approssimative, nelle quali
la filologia, quando c'è, svolge una funzione di copertura, è una specie di belletto che
nasconde abissi di ignoranza nei confronti dell'oggetto di cui si parla.
Nel campo di studi di Filosofia Antica, la monografia di
Untersteiner sui Sofisti, che è stata recentemente tradotta in francese, e ristampata
anche in Italia dalla Bruno Mondadori, è da questo punto di vista un caso esemplare di
erudizione dotata di senso. E il fatto che sia l'edizione francese, sia la ristampa
italiana abbiano avuto un inaspettato successo di vendite, non può che esser motivo di
conforto per chi oggi si interroga sul destino degli studi classici, e combatte per
difenderli. Tuttavia nell'ambito a me familiare della Filosofia Antica, in tutto il mondo
la produzione scientifica è enormemente aumentata dal punto di vista quantitativo,
indicando un crescendo esponenziale d'interesse, ma si è qualitativamente molto abbassata
di livello. Quella italiana è fino ad oggi riuscita a imporsi anche all'estero, superando
l'ormai tremendo handicap della lingua, proprio grazie alla sua alta qualità. Ma
riusciremo a mantenere questo ruolo anche negli anni futuri?
[...] Al di là delle mode, avvicinare ai classici significa
aiutare il numero maggiore possibile di persone a scoprire l'oro che essi contengono. E
questo è certamente compito della divulgazione, delle traduzioni, e di tutti gli altri
strumenti che la nostra epoca possa suggerire. [...] Ma vorrei fare un esempio concreto:
nei miei corsi, rivolti spesso alle matricole di filosofia, di varia provenienza
scolastica, ho frequentemente letto e commentato dialoghi di Platone in traduzione,
facendo riferimento al testo greco solo quando fosse necessario, per far comprendere
l'importanza di certe scelte lessicali o stilistiche ai fini argomentativi. Negli ultimi
anni, a fronte di un mercato letteralmente invaso da edizioni tascabili di dialoghi
platonici, spesso con testo a fronte, rigorosamente senza apparato critico [...], si è
verificato un fenomeno nuovo e molto inquietante: una parte non minore dell'impegno
didattico mio e dei colleghi che insegnano la mia stessa disciplina, consiste nel mostrare
agli studenti la pessima qualità delle traduzioni, di cui dispongono perché le trovano
in libreria, e come non di rado la traduzione si frapponga in modo irrimediabile alla
comprensione del testo. Viene naturale evocare, come è stato fatto, le splendide edizioni
scolastiche di Untersteiner, e le sue traduzioni: erano splendide, perché mettevano a
disposizione di tutti, e dunque divulgavano, l'oro di quel che ho chiamato un "sapere
erudito dotato di senso". Untersteiner era sensibile al problema della
"divulgazione", e sono certa che, se la sua vita attiva di studioso si fosse
svolta in questi anni di grande mutamento dei processi comunicativi, non avrebbe fatto
parte della categoria di coloro che avrebbero respinto a priori il cambiamento. Ma occorre
star bene attenti ad evitare confusioni, e cercare di contrastare l'idea perniciosa, che
questo sapere sia facile e alla portata di tutti. Divulgare bene, non è divulgare quel
che non si conosce o si conosce male. E ancora una volta desidero insistere sul fatto che
questo discorso è accettato senza difficoltà nel caso della cultura tecnico-scientifica,
mentre non lo è affatto per quella umanistica. [...] Perché una tradizione scientifica
si mantenga, e perché i classici continuino a svolgere bene la loro funzione culturale
nella nostra società [...], è necessario permettere ai giovani dotati che lo desiderino,
di apprendere, di praticare, e di essere in grado di trasmettere ad altri come loro un
sapere rigoroso, erudito, e dotato di senso. [...] Se non vogliamo renderci responsabili
di quello che Untersteiner ha insegnato a tanti di noi a sentire come un crimine molto
grave, e cioè lo spreco dell'intelligenza, è a questi giovani che oggi come ieri, e
certamente ancora domani, si avvicinano ai classici con la passione del vero ricercatore,
che noi dovremo offrire la possibilità e la capacità di mettere a prova e di manifestare
le loro capacità. E questo può avvenire, a mio parere, solo se sapremo combattere per
mantenere le condizioni in cui essi possano lavorare con impegno ed intensità fin
dall'inizio della vita universitaria, così da recuperare rapidamente (e questo sono
convinta si possa fare, come esperienze straniere insegnano) quel solido bagaglio di
nozioni che i buoni licei di una volta fornivano e che l'università perfezionava,
favorendo in tal modo la nascita di un vero ricercatore, e la continuità della tradizione
scientifica. [...]
Permettetemi di concludere ricordando l'atteggiamento di
Untersteiner nei confronti dei suoi allievi: l'attenzione verso le loro qualità morali ed
intellettuali, il modo in cui li aiutava a mostrare il loro valore, senza imporre mai il
proprio punto di vista, felice di ogni forma di indipendenza intellettuale, purché
fondata su solide basi, e capace di rifuggire ogni impressionismo ed approssimazione: ecco
questo, penso, è il suo messaggio, e oggi più che mai mi sembra attuale.-
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