Tratto dal volume Dalla lirica al teatro: nel
ricordo di Mario Untersteiner (1899-1999), Ed. Università degli Studi
di Trento, Dipartimento di Scienze Filologiche e Storiche, Trento 1999,
pp. 437-440.
La scuola deve essere amicizia
Ho seguito con attenzione, benché a distanza, il convegno di cui
qui si pubblicano gli atti. Esso mi pare si sia distinto non solo per la
presenza di tanti autorevoli studiosi e colleghi, nonché carissimi amici,
ma anche per una partecipazione singolarmente ampia di studenti e docenti
di scuola superiore. E quest'ultimo fatto non può non impressionare chi,
come me, si è concentrato per anni (e non è stato il solo) sulla
biografia professionale e intellettuale del Maestro.
Come tanti filologi di questo secolo, anche Untersteiner approdò alla
carriera accademica dopo un lungo tirocinio di docente medio, che nel suo
caso durò per più di vent'anni, dal 1926 al 1947. "Ho fatto -
scriveva in una lettera a Vittorio Enzo Alfieri - tutte le esperienze
scolastiche: dalla scuola privata (laica) alla supplenza all'ordinariato
di liceo".
Di tale passato liceale non restano molte testimonianze epistolari, ma
quelle che restano (e la cui lettura devo, come sempre, alla gentilezza
della signora Linda Candia) sono degne di essere ricordate.
Voglio sottolineare innanzitutto che il gusto del confronto con un
uditorio 'profano' e lo sforzo del continuo rinnovamento, che Untersteiner
sentiva fortissimi, non si persero fra le maglie larghe della nuova
funzione accademica, ma restarono per lui un rito, un impegno quotidiano
sovente protratto anche nei momenti di riposo, nell'ansia di non finire in
tempo gli appunti, le edizioni, le dispense "per i [suoi] cari
studenti". Né si perse la sua puntigliosa attenzione verso il
risvolto etico dei testi, anche di quelli in apparenza meno docili verso
questo tipo di analisi. La prova di ciò è in una ricca serie di
interventi 'di scuola' (così li definirei) che Untersteiner pubblicò,
per lo più negli anni '40, nelle forme 'stravaganti' della prefazione,
della recensione, del pezzo giornalistico. Questi interventi, che per
convenzione si considerano parte di una produzione minore, ebbero quasi
sempre un grande valore culturale. Alludo soprattutto al confronto fra la Costituzione
degli Ateniesi pseudosenofontea e l'Anonymus Iamblichi
(nell'"Educazione politica" del 1947), l'idealista che ereditò
una tirannide e volle trasformarla in un regime di uguali, dovendo infine,
costretto dai disordini, restaurare il dispotismo.
Quando, negli anni '60, si cominciò a parlare di una pedagogia per i
docenti, Untersteiner reagì con ironia. L'idea di insegnare ad insegnare
dovette sembrargli una pretesa grottesca e sofistica. "Pedagogo -
scrisse in una lettera del 1963 - è chi ha intelligenza e senso di
umanità". Conscio del paradosso, egli affermò "che la
pedagogia non esiste", non almeno nell'irrealistica ambizione di
sfornare educatori perfetti come in una catena di montaggio.
Può sembrare, questa, la difesa di una specificità individualistica e
gelosa, ma quella frase sul senso di umanità dimostra il contrario.
Dimostra che Untersteiner ricercò il consenso educativo anche quando
l'unico consenso cui il docente ambiva era quello dell'istituzione, e
quando la scuola si faceva quasi un vanto della sua separatezza ontologica
dalla realtà.
Il disprezzo di Untersteiner verso la scuola 'facile' non rivela simpatie
autoritarie (oggi diremmo 'nostalgie', ma all'epoca l'autoritarismo
esisteva davvero), bensì il rifiuto di un paternalismo di maniera, di una
tolleranza ipocrita che il Sessantotto invece di eliminare accentuò.
Durante le nostre quasi trentennali frequentazioni, mai mi accadde di
cogliere in Untersteiner sciapi rimpianti di un tempus actum in cui
gli studenti studiavano e la scuola funzionava.
Il Sessantotto lo inasprì e suscitò in lui atteggiamenti di fuga e di
chiusura, ma il suo rapporto con la contestazione va letto alla luce del
caso di Meandrio e del suo triste epilogo: il disordine vociante che
ricrea l'assolutismo; perciò credo che Untersteiner avrebbe molto
apprezzato Prova d'orchestra di Fellini. Credo anche che solo con
una categoria di persone egli si sia risolutamente rifiutato di discutere,
cioè con i maoisti da pagliaio che non conoscevano né Mao né Marx, come
egli testualmente scrisse in una lettera del periodo. Solo in questo
Untersteiner fu dogmatico, ritenendo che nessuna ideologia dispensasse dal
conoscere ciò di cui si parla. Altre forme di dogmatismo in lui non ci
furono, come prova se non altro la simpatia che lo legò a figure inquiete
e dubbiose come Cesare Pavese e Giuseppe Rensi, ostili quanto lui ai
sistemi rivelati.
'Amicizia' fu la parola cara ad Untersteiner: per anni essa comparve sul
frontespizio dei suoi biglietti d'auguri. Comparve anche in una lettera
del 1961:
I giovani hanno proprio bisogno di simpatia, soprattutto se le
vicende della vita li hanno posti in situazioni difficili o,
addirittura, anormali. La scuola deve essere amicizia, o non è scuola.
Certo l'amicizia si può prestare a parecchie interpretazioni, specie
dal punto di vista della scuola, che tanto ne parla e tanto poco la
pratica. Nella 'scuola come amicizia' si può trovare l'emblema di
un'istituzione populisticamente paritaria, priva della dignità dei ruoli
e quindi della responsabilità di premiare e castigare propria della
gerarchia; ci si può trovare, viceversa, la formula di un discepolato
socratico fuori dal tempo, isola felice in cui l'insegnare e l'apprendere
siano esperienze speculari e reciproche. Ma proprio oggi, in tempi di
contrattazioni, di carte dei diritti e di patti educativi, oggi che gli
stessi organi di governo accettano e insieme sollecitano negli studenti
una cultura sindacalistica farsescamente ricalcata sul lessico operaio
degli anni '70, proprio oggi corre l'obbligo di rileggere quelle lontane e
informali parole di Untersteiner, e di ricordare come per lui l'amicizia
fosse una cosa molto meno astratta: la buona volontà di estendere anche
alla scuola quella normalità di comportamenti che scandisce la vita di
tutta la società, con i suoi scontri e malintesi, ma anche con i suoi
momenti di crescita e di riscatto. Un concetto semplice, forse, ma
connesso con la grande idea pedagogica della formazione come valore nel
presente, piuttosto che come simulazione di prove in vista di
un'esistenza che verrà.
Oggi Untersteiner avrebbe condannato la philia di un buonismo che
non fa maturare (e che trasforma anche le conquiste in sterile rito), e
avrebbe ribadito la philia dell'autorevolezza e del carisma, una philia
da riconquistare ogni giorno, e non da elargire come atto dovuto.
Soprattutto, egli avrebbe insistito sulla globalità del processo
formativo, sull'urgenza di riannodare il filo spezzato che un tempo, pur
fra tante difficoltà, orgogli, competizioni, teneva uniti l'insegnamento
liceale alla ricerca, e la didattica alla paideia. Questo
tempo c'è stato, anche se sembra preistoria, e Untersteiner non ne fu
l'unico interprete. Penso a Valgimigli, a Paoli, a Pieraccioni, allo
stesso Pasquali; e penso, fra coloro che batterono vie diverse
dall'accademia, a Paolo Focardi e Iginio Crisci. Poi l'osmosi virtuosa
cessò, e i docenti medi disertarono gli atenei, ritirandosi nella cupa e
perdente difesa di un'identità che la scuola di massa disgregava.
Non paia forzatura, dunque, se ritengo di poter vedere in questo
Untersteiner uno e bino, professore di liceo e poi cattedrattico
universitario, un'unità di metodo e di progetto, un riflesso di quelle
potenti sintesi che caratterizzarono le sue migliori aperture ideologiche,
nonché i suoi momenti più grandi di filologo e storico della filosofia.
E non dispiaccia infine se nell'odierna esigenza di ripristinare e creare
affiliazioni fra i diversi livelli dell'istruzione io mi permetto di
riconoscere un altro segno dell'attualità intellettuale e civile del mio
Maestro.-