Il premier italiano Berlusconi (a sinistra), a Roma con il colonnello Gheddafi, capo di governo della Libia dal 1969

 

Dopo la seconda guerra mondiale, il processo di decolonizzazione, iniziato già alla metà del XVII secolo nell’America settentrionale e, successivamente, negli stati dell’America Latina e dell’Australia, si è concluso con la conquista dell’indipendenza da parte delle ultime colonie di Africa e di Asia.
Alcuni paesi sono arrivati all’indipendenza solo dopo rivolte vere e proprie guerre di liberazione contro le potenze coloniali, in particolare contro la Francia e il Portogallo; una parte delle ex colonie ha raggiunto invece questo obbiettivo grazie ad accordi politici che hanno permesso il passaggio del potere dalle mani dei colonizzatori a quelle dei nuovi governanti locali, senza grandi traumi apparenti.
In effetti la destabilizzazione dell’apparato coloniale era stata introdotta, suo malgrado, anche dal sistema coloniale stesso. L’istruzione, ad esempio, che i colonizzatori avevano promosso con lo scopo di formare dei funzionari fedeli, aveva gradualmente generato e diffuso tra i popoli colonizzati la consapevolezza dell’ingiustizia che si stava perpetrando nei loro confronti. Così come la privatizzazione della terra e le trasformazioni dell’economia tradizionale, con la conseguente formazione di una classe di contadini senza terra e senza lavoro, avevano creato una situazione tanto esplosiva per le autorità coloniali da far preferire gli accordi politici a molto più probabili rivolte. Accanto a queste spinte di carattere interno,la rottura del sistema coloniale è stata facilitata anche da fattori esterni, dovuti all’emergere della nuova situazione politico-internazionale. All’indomani del secondo conflitto mondiale infatti, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, usciti vittoriosi dalla guerra, avevano favorito e sostenuto i vari movimenti di liberazioni anticoloniali, con l’obbiettivo di privare le potenze europee delle ricchezze provenienti dalle colonie e facilitare così il declino dell’imperialismo europeo, già fortemente indebolito dalla vicenda bellica.ciò avrebbe permesso alle nove superpotenze mondiali di prendere in mano, a loro volta, il controllo politico ed economico del globo.
Con l’indipendenza le ex colonie si trovarono a dover gestire una situazione politica estremamente confusa e instabile. Da un lato perché il fatto puramente formale dell’indipendenza non aveva risolto le situazioni conflittuali, esistenti all’interno di uno stesso paese, tra etnie o tribù. Originate a suo tempo dalla violenta spartizione coloniale, cioè dall’artificiosità ed irrazionalità con cui gli ex colonizzatori disegnarono i confini dei loro possedimenti in Africa e in Asia, esse continuavano a provocare lotte intestine nei vari paesi del Terzo Mondo. Dall’altro perché i legami di dipendenza economica con la ex madrepatria rimanevano ancora molto forti in quanto i nuovi governanti erano spesso, per educazione e privilegi, i diretti discendenti della classe dirigente creata dagli ex dominatori e quindi restavano loro fedeli alleati.
Dopo l’indipendenza e malgrado alcuni tentati vidi istituire forme i governo parlamentari, i nuovi paesi sono stati in genere teatro di continui scontri di interesse di tipo nazionalistico, etnico, o semplicemente personalistico, che hanno portato alla instaurazione di regimi autoritari e ad un susseguirsi di colpi di stato.
Le promesse di un pronto miglioramento sociale ed economico e dell’abolizione di vecchie e nuove ingiustizie, l’insofferenza delle stesse popolazioni ai tempi lunghi della democrazia, hanno legittimato forme di dittature con qualifica progressista, ma che poi si sono rivelate quasi sempre sostanzialmente reazionarie. I metodi principali di queste forme di governo sono stati la repressione dei più elementari diritti civili, come la libertà di parola e di associazione, ed il conseguente annullamento del pluralismo politico e della effettiva partecipazione popolare alla vita politica della nazione.
La mancanza di consenso e la fragilità dei nuovi apparati governativi spiega il frequente ricorso, da parte delle dittature, all’uso dell’esercito e dei più duri sistemi di repressione per conquistare e successivamente imporre il proprio regime all’interno del paese. L’esigenza, poi, di mantenere il proprio potere all’interno e di salvaguardarsi all’esterno da eventuali attacchi degli stati confinanti, ha spinto spesso i governanti ad istaurare un sistema di relazioni con una delle superpotenze per ottenere tutti gli appoggi necessari.

Questo tipo di relazioni ha comportato però una situazione politica contraddittoria per i paesi del Terzo Mondo: se, per un verso, l'alleanza con una superpotenza dava qualche garanzia per il mantenimento e il consolidamento del regime in atto, dall'altro creava rapporti di dipendenza nei confronti del nuovo alleato. Infatti, una volta instaurato il cosiddetto patto di solidarietà, il paese bisognoso di aiuti rientrava fatalmente nell'ordine di influenza della superpotenza e ricadeva in una nuova forma di dipendenza non meno grave di quella coloniale. L'amicizia con lo Stato più forte implicava anche (e soprattutto) la soddisfazione di suoi precisi interessi, che non erano solo ideologici ma quasi sempre economici o strategici. Tanto maggiori erano questi interessi, tanto più forte si rivelava l'ingerenza della superpotenza alleata nella gestione politica, economica e sociale della nazione più debole. Si creava in questo modo una situazione senza uscita per l'emancipazione di molti paesi. I capi dei vari governi militari dei paesi del Terzo Mondo, impadronitisi del potere con l'intento dichiarato di "salvare la nazione", in pratica difendevano invece gli interessi delle superpotenze e della classe dominante del paese. Tutto ciò senza tenere in alcuna considerazione i bisogni primari della maggior parte della popolazione, che rimaneva inchiodata in una situazione di miseria e di sottosviluppo.

Il Terzo Mondo, terreno di scontro tra le due superpotenze

Dopo il secondo conflitto mondiale l'Europa divenne il primo motivo di contrapposizione tra le due nuove potenze mondiali, USA e URSS, in quella che venne chiamata "la guerra fredda". Ma se in Europa lo scontro tra i due giganti si è limitato allo scambio di accuse, alle ripetute sfide e ad una continua fortissima tensione, è nel Terzo Mondo che la guerra fredda ha avuto i suo momenti più "caldi" ed ha scatenato una serie interminabile di guerre e conflitti locali. E così il Terzo mondo è stato il principale terreno di scontro tra le due superpotenze. E' qui che esse hanno lottato per strapparsi l'una all'altra i territori dove si trovavano importanti risorse naturali o per assicurarsi il controllo di regioni strategicamente importanti. La graduale spartiziobe dei paesi del Terzo Mondo è avvenuta anche e soprattutto attraverso le forti ingerenze che le due superpotenze esplicavano nelle varie istituzioni governative di quelle nazioni. Ciò permetteva loro di mantenere al potere il regime più consono ai loro interessi, assicurandogli i mezzi militari (forniture di armi e uomini) per reprimere eventuali moti di rivolta interni al paese. Quando però tale regime non rispondeva più alle loro esigenze, esse appoggiavano nuovi colpi di stato per favorire l'instaurazione di un sistema politico più promettente. E' quindi il Terzo Mondo che ha subito le conseguenze della contrapposizione tra le due superpotenze: il conflitto di Corea, quello del Vietnam, quello dell'Afghanistan, sono esempi di come lo scontro tra potenti sia realizza completamente a scapito dei popoli più deboli.


Armi come queste vengono importate clandestinamente in Africa

La corsa agli armamenti: un inutile e pericoloso dispendio di risorse

Il sistema militare è una caratteristica costante di tutti gli stati del mondo in quanto rappresenta non solo lo strumento prioritario dell'autodifesa nazionale ma è spesso anche il mezzo essenziale delle azioni coercitive dei governi. La potenza di uno stato si identifica quindi con il suo apparato militare, mediante il quale è possibile condizionare i settori chiave del sistema politico-economico mondiale. La rivalità militare è stata uno degli ambiti chiave della più ampia rivalità esistente tra le potenze e si è giocata in un sistema politico mondiale sempre più complesso ed interdipendente, di cui le due superpotenze sono state le principali protagoniste. Se la rivalità tra USA e URSS si è manifestata nelle loro politiche di espansione, nel tentativo cioè di controllare e gestire il sistema politico ed economico del maggior numero di regioni del mondo, tale contrapposizione si è espressa ancor più compiutamente nell'acuirsi della corsa al riarmo, nella ricerca di quella superiorità necessaria ad ottenere il massimo dei montaggi nel sistema globale. Dopo Hiroshima e Nagasaki, con l'irruzione sulla scena mondiale della bomba atomica prima, di quella termonucleare poi, è iniziata l'era della corsa agli armamenti, sia nucleari sia convenzionali. Già nei primi anni '60 le potenze mondiali erano in grado di danneggiarsi reciprocamente in maniera determinante, indipendentemente da chi fosse ad iniziare lo scontro. L'equilibrio del terrore, la ricerca della parità del potenziale bellico tra le due parti era salita ad un livello sempre  più alto assumendo dimensioni che sono al di là di ogni logica, anche di quella, molto discutibile, della politica di potenza. Tuttavia, nonostante la fine della contrapposizione Est-Ovest e la conseguente ratifica dei due Trattati sulla riduzione delle armi strategiche offensive, la minaccia nucleare non è affatto scomparsa. Gli obiettivi previsti da questi due Trattati comportano, per esempio, la rimozione di 20.000 testate dagli arsenali nucleari degli stati interessati. Ma questo processo di smantellamento sta incontrando numerosi ostacoli.

La spesa militare mondiale- che ha raggiunto nel 1987 quasi 1.000 miliardi di dollari, il massimo storico- in questi ultimi anni ha manifestato una leggera inversione di tendenza: è diminuita del 15% nei P.I. e del 10% nei P.V.S.
I motivi sono stati i più diversi. Negli USA, per esempio,la politica governativa di taglio delle spese militari è dovuta alla necessità di ridurre il deficit pubblico. Anche i paesi del Medio Oriente in alcuni casi sono stati costretti a ridurre la loro spesa perché soggetti ad embargo sulla fornitura di armi. È stata questa la conseguenza della guerra del Golfo del 1991 che ha coinvolto, per la prima volta dopo la fine della seconda guerra mondiale, tutte le potenze occidentali in un conflitto complesso interpretabile sulla base di più variabili (politiche, economiche, culturali).
Si sono avuti tagli anche in America Latina, ma soprattutto là dove i governi , in fase di assestamento economico, hanno dovuto ridurre le loro spese generali interne.
Nonostante questo rallentamento nella corsa agli armamenti, la strada da percorrere per ottenere una consistente diminuzione delle spese belliche mondiali è ancora molto lunga. Va ricordato che l’Europa occidentale non ha ancora ridotto di molto questa sua spesa. Il progetto militare più costoso- il caccia europeo progettato per combattere la minaccia sovietica- sta procedendo malgrado il venir meno della contrapposizione Est-Ovest.
In alcuni paesi vi sono stati addirittura degli incrementi nella produzione degli armamenti. È il caso dell’Australi e del Giappone che hanno preso impegni lungo termine per il mantenimento o addirittura l’espansione delle loro industrie belliche.
Il quadro è più cupo nell’Africa subsahariana e nell’Asia meridionale. Queste regioni continuano a spendere nell’acquisto di armamenti cifre ingenti che vanno da 8 miliardi di dollari nel primo caso a 19 miliardi di dollari nel secondo.
Il commercio di armi è notoriamente una faccenda oscura. Ciò che è molto più chiaro è il fatto che, mentre l'aumento delle esportazioni di armi arricchisce i paesi già ricchi, la spesa militare dei paesi del Sud pesa duramente sulla loro già precaria bilancia dei pagamenti. Infatti molti di questi paesi arrivano ad impegnare gran parte delle loro già magre risorse finanziarie nel settore militare, perché considerato come l'unico efficace deterrente non solo contro eventuali disordini interni, ma anche contro un intervento armato di potenze straniere o di paesi confinanti. Questa costosa scelta non sembra tuttavia aver accresciuto la loro autonomia o il loro prestigio nel più ampio contesto internazionale. Dopo alcune tragiche esperienze (Iran-Iraq, Iraq-Kuwait, Etiopia-Ertrea, Somalia, ex Jugoslavia, Rwanda, Haiti), in vari ambiti politici e sociali mondiali si è manifestata l'esigenza di una maggiore capacità dell'ONU di risolvere le crisi ed i conflitti locali, anche attraverso un suo rinnovamento democratico. Una delle maggiori preoccupazioni di questo secolo è infatti l'alto grado di militarizzazione di intere società. Si calcola che nel 1990, dei 5,7 milioni di ricercatori nel mondo, ben 1,5 milioni si è occupato del settore militare. Malgrado la persistenza di situazioni di sottosviluppo nella maggior parte del mondo vengono sprecati ingenti quantità di risorse per tenere dietro alla modernizzazione e alla standardizzazione dei sistemi d'arma. Questa constatazione è quanto mai evidente confrontando gli enormi investimenti fatti nel settore militare mondiale con quelli, vergognosamente più bassi, finalizzati a sconfiggere la povertà e la miseria della maggioranza della popolazione mondiale. La spesa militare globale malgrado un confortante declino, è ancora pari ogni anno al reddito complessivo di metà della popolazione mondiale. Contro questa pericolosa situazione è cresciuto un vasto movimento di massa a dimensioni internazionali che lotta per il disarmo, la pace e lo sviluppo umano. Gli accordi sulla riduzione delle spese militari costituiscono il primo passo verso questo obbiettivo. E' indispensabile però che le risorse così risparmiate vengano completamente impegnate per lo sviluppo e non per accrescere conti bancari dei vari amministratori locali.


Parata militare in Zimbabwe

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