I Promessi Sposi
Capitolo XXII
Poco dopo, il bravo venne a riferire che, il giorno avanti,
il cardinal Federigo Borromeo, arcivescovo di Milano, era arrivato a ***, e ci
starebbe tutto quel giorno; e che la nuova sparsa la sera di quest'arrivo ne'
paesi d'intorno aveva invogliati tutti d'andare a veder quell'uomo; e si
scampanava più per allegria, che per avvertir la gente. Il signore, rimasto
solo, continuò a guardar nella valle, ancor più pensieroso. "Per un uomo! Tutti
premurosi, tutti allegri, per vedere un uomo! E però ognuno di costoro avrà il
suo diavolo che lo tormenti. Ma nessuno, nessuno n'avrà uno come il mio; nessuno
avrà passata una notte come la mia! Cos'ha quell'uomo, per render tanta gente
allegra? Qualche soldo che distribuirà così alla ventura... Ma costoro non vanno
tutti per l'elemosina. Ebbene, qualche segno nell'aria, qualche parola... Oh se
le avesse per me le parole che possono consolare! se...! Perché non vado
anch'io? Perché no?... Anderò, anderò; e gli voglio parlare: a quattr'occhi gli
voglio parlare. Cosa gli dirò? Ebbene, quello che, quello che... Sentirò cosa sa
dir lui, quest'uomo!"
Fatta così in confuso questa risoluzione, finì in fretta di vestirsi, mettendosi
una sua casacca d'un taglio che aveva qualche cosa del militare; prese la
terzetta rimasta sul letto, e l'attaccò alla cintura da una parte; dall'altra,
un'altra che staccò da un chiodo della parete; mise in quella stessa cintura il
suo pugnale; e staccata pur dalla parete una carabina famosa quasi al par di
lui, se la mise ad armacollo; prese il cappello, uscì di camera; e andò prima di
tutto a quella dove aveva lasciata Lucia. Posò fuori la carabina in un cantuccio
vicino all'uscio, e picchiò, facendo insieme sentir la sua voce. La vecchia
scese il letto in un salto, e corse ad aprire. Il signore entrò, e data
un'occhiata per la camera, vide Lucia rannicchiata nel suo cantuccio e quieta.
"Dorme?" domandò sotto voce alla vecchia: "là, dorme? eran questi i miei ordini,
sciagurata?"
"Io ho fatto di tutto," rispose quella: "ma non ha mai voluto mangiare, non è
mai voluta venire..."
"Lasciala dormire in pace; guarda di non la disturbare; e quando si sveglierà...
Marta verrà qui nella stanza vicina; e tu manderai a prendere qualunque cosa che
costei possa chiederti. Quando si sveglierà... dille che io... che il padrone è
partito per poco tempo, che tornerà, e che... farà tutto quello che lei vorrà."
La vecchia rimase tutta stupefatta pensando tra sé: "che sia qualche principessa
costei?"
Il signore uscì, riprese la sua carabina, mandò Marta a far anticamera, mandò il
primo bravo che incontrò a far la guardia, perché nessun altro che quella donna
mettesse piede nella camera; e poi uscì dal castello, e prese la scesa, di
corsa.
Il manoscritto non dice quanto ci fosse dal castello al paese dov'era il
cardinale; ma dai fatti che siam per raccontare, risulta che non doveva esser
più che una lunga passeggiata. Dal solo accorrere de' valligiani, e anche di
gente più lontana, a quel paese, questo non si potrebbe argomentare; giacché
nelle memorie di quel tempo troviamo che da venti e più miglia veniva gente in
folla, per veder Federigo.
I bravi che s'abbattevano sulla salita, si fermavano rispettosamente al passar
del signore, aspettando se mai avesse ordini da dar loro, o se volesse prenderli
seco, per qualche spedizione; e non sapevan che si pensare della sua aria, e
dell'occhiate che dava in risposta a' loro inchini.
Quando fu nella strada pubblica, quello che faceva maravigliare i passeggieri,
era di vederlo senza seguito. Del resto, ognuno gli faceva luogo, prendendola
larga, quanto sarebbe bastato anche per il seguito, e levandosi rispettosamente
il cappello. Arrivato al paese, trovò una gran folla; ma il suo nome passò
subito di bocca in bocca; e la folla s'apriva. S'accostò a uno, e gli domandò
dove fosse il cardinale. "In casa del curato," rispose quello, inchinandosi, e
gl'indicò dov'era. Il signore andò là, entrò in un cortiletto dove c'eran molti
preti, che tutti lo guardarono con un'attenzione maravigliata e sospettosa. Vide
dirimpetto un uscio spalancato, che metteva in un salottino, dove molti altri
preti eran congregati. Si levò la carabina, e l'appoggiò in un canto del
cortile; poi entrò nel salottino: e anche lì, occhiate, bisbigli, un nome
ripetuto, e silenzio. Lui, voltatosi a uno di quelli, gli domandò dove fosse il
cardinale; e che voleva parlargli.
"Io son forestiero," rispose l'interrogato, e data un'occhiata intorno, chiamò
il cappellano crocifero, che in un canto del salottino, stava appunto dicendo
sotto voce a un suo compagno: "colui? quel famoso? che ha a far qui colui? alla
larga!" Però, a quella chiamata che risonò nel silenzio generale, dovette
venire; inchinò l'innominato, stette a sentir quel che voleva, e alzando con una
curiosità inquieta gli occhi su quel viso, e riabbassandoli subito, rimase lì un
poco, poi disse o balbettò: "non saprei se monsignore illustrissimo... in questo
momento... si trovi... sia... possa... Basta, vado a vedere." E andò a
malincorpo a far l'imbasciata nella stanza vicina, dove si trovava il cardinale.
A questo punto della nostra storia, noi non possiam far a meno di non fermarci
qualche poco, come il viandante, stracco e tristo da un lungo camminare per un
terreno arido e salvatico, si trattiene e perde un po' di tempo all'ombra d'un
bell'albero, sull'erba, vicino a una fonte d'acqua viva. Ci siamo abbattuti in
un personaggio, il nome e la memoria del quale, affacciandosi, in qualunque
tempo alla mente, la ricreano con una placida commozione di riverenza, e con un
senso giocondo di simpatia: ora, quanto più dopo tante immagini di dolore, dopo
la contemplazione d'una moltiplice e fastidiosa perversità! Intorno a questo
personaggio bisogna assolutamente che noi spendiamo quattro parole: chi non si
curasse di sentirle, e avesse però voglia d'andare avanti nella storia, salti
addirittura al capitolo seguente.
Federigo Borromeo, nato nel 1564, fu degli uomini rari in qualunque tempo, che
abbiano impiegato un ingegno egregio, tutti i mezzi d'una grand'opulenza, tutti
i vantaggi d'una condizione privilegiata, un intento continuo, nella ricerca e
nell'esercizio del meglio. La sua vita è come un ruscello che, scaturito limpido
dalla roccia, senza ristagnare né intorbidarsi mai, in un lungo corso per
diversi terreni, va limpido a gettarsi nel fiume. Tra gli agi e le pompe, badò
fin dalla puerizia a quelle parole d'annegazione e d'umiltà, a quelle massime
intorno alla vanità de' piaceri, all'ingiustizia dell'orgoglio, alla vera
dignità e a' veri beni, che, sentite o non sentite ne' cuori, vengono trasmesse
da una generazione all'altra, nel più elementare insegnamento della religione.
Badò, dico, a quelle parole, a quelle massime, le prese sul serio, le gustò, le
trovò vere; vide che non potevan dunque esser vere altre parole e altre massime
opposte, che pure si trasmettono di generazione in generazione, con la stessa
sicurezza, e talora dalle stesse labbra; e propose di prender per norma
dell'azioni e de' pensieri quelle che erano il vero. Persuaso che la vita non è
già destinata ad essere un peso per molti, e una festa per alcuni, ma per tutti
un impiego, del quale ognuno renderà conto, cominciò da fanciullo a pensare come
potesse render la sua utile e santa.
Nel 1580 manifestò la risoluzione di dedicarsi al ministero ecclesiastico, e ne
prese l'abito dalle mani di quel suo cugino Carlo, che una fama, già fin
d'allora antica e universale, predicava santo. Entrò poco dopo nel collegio
fondato da questo in Pavia, e che porta ancora il nome del loro casato; e lì,
applicandosi assiduamente alle occupazioni che trovò prescritte, due altre ne
assunse di sua volontà; e furono d'insegnar la dottrina cristiana ai più rozzi e
derelitti del popolo, e di visitare, servire, consolare e soccorrere gl'infermi.
Si valse dell'autorità che tutto gli conciliava in quel luogo, per attirare i
suoi compagni a secondarlo in tali opere; e in ogni cosa onesta e profittevole
esercitò come un primato d'esempio, un primato che le sue doti personali
sarebbero forse bastate a procacciargli, se fosse anche stato l'infimo per
condizione. I vantaggi d'un altro genere, che la sua gli avrebbe potuto
procurare, non solo non li ricercò, ma mise ogni studio a schivarli. Volle una
tavola piuttosto povera che frugale, usò un vestiario piuttosto povero che
semplice; a conformità di questo, tutto il tenore della vita e il contegno. Ne
credette mai di doverlo mutare, per quanto alcuni congiunti gridassero e si
lamentassero che avvilisse così la dignità della casa. Un'altra guerra ebbe a
sostenere con gl'istitutori, i quali, furtivamente e come per sorpresa,
cercavano di mettergli davanti, addosso, intorno, qualche suppellettile più
signorile, qualcosa che lo facesse distinguer dagli altri, e figurare come il
principe del luogo: o credessero di farsi alla lunga ben volere con ciò; o
fossero mossi da quella svisceratezza servile che s'invanisce e si ricrea nello
splendore altrui; o fossero di que' prudenti che s'adombrano delle virtù come
de' vizi, predicano sempre che la perfezione sta nel mezzo; e il mezzo lo fissan
giusto in quel punto dov'essi sono arrivati, e ci stanno comodi. Federigo, non
che lasciarsi vincere da que' tentativi, riprese coloro che li facevano; e ciò
tra la pubertà e la giovinezza.
Che, vivente il cardinal Carlo, maggior di lui di ventisei anni, davanti a
quella presenza grave, solenne, ch'esprimeva così al vivo la santità, e ne
rammentava le opere, e alla quale, se ce ne fosse stato bisogno, avrebbe
aggiunto autorità ogni momento l'ossequio manifesto e spontaneo de' circostanti,
quali e quanti si fossero, Federigo fanciullo e giovinetto cercasse di
conformarsi al contegno e al pensare d'un tal superiore, non è certamente da
farsene maraviglia; ma è bensì cosa molto notabile che, dopo la morte di lui,
nessuno si sia potuto accorgere che a Federigo, allor di vent'anni, fosse
mancata una guida e un censore. La fama crescente del suo ingegno, della sua
dottrina e della sua pietà, la parentela e gl'impegni di più d'un cardinale
potente, il credito della sua famiglia, il nome stesso, a cui Carlo aveva quasi
annessa nelle menti un'idea di santità e di preminenza, tutto ciò che deve, e
tutto ciò che può condurre gli uomini alle dignità ecclesiastiche, concorreva a
pronosticargliele. Ma egli, persuaso in cuore di ciò che nessuno il quale
professi cristianesimo può negar con la bocca, non ci esser giusta superiorità
d'uomo sopra gli uomini, se non in loro servizio, temeva le dignità, e cercava
di scansarle; non certamente perché sfuggisse di servire altrui; che poche vite
furono spese in questo come la sua; ma perché non si stimava abbastanza degno né
capace di così alto e pericoloso servizio. Perciò, venendogli, nel 1595,
proposto da Clemente VIII l'arcivescovado di Milano, apparve fortemente turbato,
e ricusò senza esitare. Cedette poi al comando espresso del papa.
Tali dimostrazioni, e chi non lo sa? non sono né difficili né rare; e
l'ipocrisia non ha bisogno d'un più grande sforzo d'ingegno per farle, che la
buffoneria per deriderle a buon conto, in ogni caso. Ma cessan forse per questo
d'esser l'espressione naturale d'un sentimento virtuoso e sapiente? La vita è il
paragone delle parole: e le parole ch'esprimono quel sentimento, fossero anche
passate sulle labbra di tutti gl'impostori e di tutti i beffardi del mondo,
saranno sempre belle, quando siano precedute e seguite da una vita di
disinteresse e di sacrifizio.
In Federigo arcivescovo apparve uno studio singolare e continuo di non prender
per sé, delle ricchezze, del tempo, delle cure, di tutto se stesso in somma, se
non quanto fosse strettamente necessario. Diceva, come tutti dicono, che le
rendite ecclesiastiche sono patrimonio de' poveri: come poi intendesse infatti
una tal massima, si veda da questo. Volle che si stimasse a quanto poteva
ascendere il suo mantenimento e quello della sua servitù; e dettogli che
seicento scudi (scudo si chiamava allora quella moneta d'oro che, rimanendo
sempre dello stesso peso e titolo, fu poi detta zecchino), diede ordine che
tanti se ne contasse ogni anno dalla sua cassa particolare a quella della mensa;
non credendo che a lui ricchissimo fosse lecito vivere di quel patrimonio. Del
suo poi era così scarso e sottile misuratore a se stesso, che badava di non
ismettere un vestito, prima che fosse logoro affatto: unendo però, come fu
notato da scrittori contemporanei, al genio della semplicità quello d'una
squisita pulizia: due abitudini notabili infatti, in quell'età sudicia e
sfarzosa. Similmente, affinché nulla si disperdesse degli avanzi della sua mensa
frugale, gli assegnò a un ospizio di poveri; e uno di questi, per suo ordine,
entrava ogni giorno nella sala del pranzo a raccoglier ciò che fosse rimasto.
Cure, che potrebbero forse indur concetto d'una virtù gretta, misera, angustiosa,
d'una mente impaniata nelle minuzie, e incapace di disegni elevati; se non fosse
in piedi questa biblioteca ambrosiana, che Federigo ideò con sì animosa
lautezza, ed eresse, con tanto dispendio, da' fondamenti; per fornir la quale di
libri e di manoscritti, oltre il dono de' già raccolti con grande studio e spesa
da lui, spedì otto uomini, de' più colti ed esperti che poté avere, a farne
incetta, per l'Italia, per la Francia, per la Spagna, per la Germania, per le
Fiandre, nella Grecia, al Libano, a Gerusalemme. Così riuscì a radunarvi circa
trentamila volumi stampati, e quattordicimila manoscritti. Alla biblioteca unì
un collegio di dottori (furon nove, e pensionati da lui fin che visse; dopo, non
bastando a quella spesa l'entrate ordinarie, furon ristretti a due); e il loro
ufizio era di coltivare vari studi, teologia, storia, lettere, antichità
ecclesiastiche, lingue orientali, con l'obbligo ad ognuno di pubblicar qualche
lavoro sulla materia assegnatagli; v'unì un collegio da lui detto trilingue, per
lo studio delle lingue greca, latina e italiana; un collegio d'alunni, che
venissero istruiti in quelle facoltà e lingue, per insegnarle un giorno; v'unì
una stamperia di lingue orientali, dell'ebraica cioè, della caldea,
dell'arabica, della persiana, dell'armena; una galleria di quadri, una di
statue, e, una scuola delle tre principali arti del disegno. Per queste, poté
trovar professori già formati; per il rimanente, abbiam visto che da fare gli
avesse dato la raccolta de' libri e de' manoscritti; certo più difficili a
trovarsi dovevano essere i tipi di quelle lingue, allora molto men coltivate in
Europa che al presente; più ancora de' tipi, gli uomini. Basterà il dire che, di
nove dottori, otto ne prese tra i giovani alunni del seminario; e da questo si
può argomentare che giudizio facesse degli studi consumati e delle riputazioni
fatte di quel tempo: giudizio conforme a quello che par che n'abbia portato la
posterità, col mettere gli uni e le altre in dimenticanza. Nelle regole che
stabilì per l'uso e per il governo della biblioteca, si vede un intento
d'utilità perpetua, non solamente bello in sé, ma in molte parti sapiente e
gentile molto al di là dell'idee e dell'abitudini comuni di quel tempo.
Prescrisse al bibliotecario che mantenesse commercio con gli uomini più dotti
d'Europa, per aver da loro notizie dello stato delle scienze, e avviso de' libri
migliori che venissero fuori in ogni genere, e farne acquisto; gli prescrisse
d'indicare agli studiosi i libri che non conoscessero, e potesser loro esser
utili; ordinò che a tutti, fossero cittadini o forestieri, si desse comodità e
tempo di servirsene, secondo il bisogno. Una tale intenzione deve ora parere ad
ognuno troppo naturale, e immedesimata con la fondazione d'una biblioteca:
allora non era così. E in una storia dell'ambrosiana, scritta (col costrutto e
con l'eleganze comuni del secolo) da un Pierpaolo Bosca, che vi fu bibliotecario
dopo la morte di Federigo, vien notato espressamente, come cosa singolare, che
in questa libreria, eretta da un privato, quasi tutta a sue spese, i libri
fossero esposti alla vista del pubblico, dati a chiunque li chiedesse, e datogli
anche da sedere, e carta, penne e calamaio, per prender gli appunti che gli
potessero bisognare; mentre in qualche altra insigne biblioteca pubblica
d'Italia, i libri non erano nemmen visibili, ma chiusi in armadi, donde non si
levavano se non per gentilezza de' bibliotecari, quando si sentivano di farli
vedere un momento; di dare ai concorrenti il comodo di studiare, non se n'aveva
neppur l'idea. Dimodoché arricchir tali biblioteche era un sottrar libri all'uso
comune: una di quelle coltivazioni, come ce n'era e ce n'è tuttavia molte, che
isteriliscono il campo.
Non domandate quali siano stati gli effetti di questa fondazione del Borromeo
sulla coltura pubblica: sarebbe facile dimostrare in due frasi, al modo che si
dimostra, che furon miracolosi, o che non furon niente; cercare e spiegare, fino
a un certo segno, quali siano stati veramente, sarebbe cosa di molta fatica, di
poco costrutto, e fuor di tempo. Ma pensate che generoso, che giudizioso, che
benevolo, che perseverante amatore del miglioramento umano, dovesse essere colui
che volle una tal cosa, la volle in quella maniera, e l'eseguì, in mezzo a
quell'ignorantaggine, a quell'inerzia, a quell'antipatia generale per ogni
applicazione studiosa, e per conseguenza in mezzo ai cos'importa? e
c'era altro da pensare? e che bell'invenzione! e mancava anche
questa, e simili; che saranno certissimamente stati più che gli scudi spesi da lui in quell'impresa; i quali
furon centocinquemila, la più parte de' suoi.
Per chiamare un tal uomo sommamente benefico e liberale, può parer che non ci
sia bisogno di sapere se n'abbia spesi molt'altri in soccorso immediato de'
bisognosi; e ci son forse ancora di quelli che pensano che le spese di quel
genere, e sto per dire tutte le spese, siano la migliore e la più utile
elemosina. Ma Federigo teneva l'elemosina propriamente detta per un dovere
principalissimo; e qui, come nel resto, i suoi fatti furon consentanei
all'opinione. La sua vita fu un continuo profondere ai poveri; e a proposito di
questa stessa carestia di cui ha già parlato la nostra storia, avremo tra poco
occasione di riferire alcuni tratti, dai quali si vedrà che sapienza e che
gentilezza abbia saputo mettere anche in questa liberalità. De' molti esempi
singolari che d'una tale sua virtù hanno notati i suoi biografi, ne citeremo qui
un solo. Avendo risaputo che un nobile usava artifizi e angherie per far monaca
una sua figlia, la quale desiderava piuttosto di maritarsi, fece venire il
padre; e cavatogli di bocca che il vero motivo di quella vessazione era il non
avere quattromila scudi che, secondo lui, sarebbero stati necessari a maritar la
figlia convenevolmente, Federigo la dotò di quattromila scudi. Forse a taluno
parrà questa una larghezza eccessiva, non ben ponderata, troppo condiscendente
agli stolti capricci d'un superbo; e che quattromila scudi potevano esser meglio
impiegati in cent'altre maniere. A questo non abbiamo nulla da rispondere, se
non che sarebbe da desiderarsi che si vedessero spesso eccessi d'una virtù così
libera dall'opinioni dominanti (ogni tempo ha le sue), così indipendente dalla
tendenza generale, come, in questo caso, fu quella che mosse un uomo a dar
quattromila scudi, perché una giovine non fosse fatta monaca.
La carità inesausta di quest'uomo, non meno che nel dare, spiccava in tutto il
suo contegno. Di facile abbordo con tutti, credeva di dovere specialmente a
quelli che si chiamano di bassa condizione, un viso gioviale, una cortesia
affettuosa; tanto più, quanto ne trovan meno nel mondo. E qui pure ebbe a
combattere co' galantuomini del ne quid nimis, i quali, in ogni cosa, avrebbero
voluto farlo star ne' limiti, cioè ne' loro limiti. Uno di costoro, una volta
che, nella visita d'un paese alpestre e salvatico, Federigo istruiva certi
poveri fanciulli, e, tra l'interrogare e l'insegnare, gli andava amorevolmente
accarezzando, l'avvertì che usasse più riguardo nel far tante carezze a que'
ragazzi, perché eran troppo sudici e stomacosi: come se supponesse, il buon
uomo, che Federigo non avesse senso abbastanza per fare una tale scoperta, o non
abbastanza perspicacia, per trovar da sé quel ripiego così fino. Tale è, in
certe condizioni di tempi e di cose, la sventura degli uomini costituiti in
certe dignità: che mentre così di rado si trova chi gli avvisi de' loro
mancamenti, non manca poi gente coraggiosa a riprenderli del loro far bene. Ma
il buon vescovo, non senza un certo risentimento, rispose: "sono mie anime, e
forse non vedranno mai più la mia faccia; e non volete che gli abbracci?"
Ben raro però era il risentimento in lui, ammirato per la soavità de' suoi modi,
per una pacatezza imperturbabile, che si sarebbe attribuita a una felicità
straordinaria di temperamento; ed era l'effetto d'una disciplina costante sopra
un'indole viva e risentita. Se qualche volta si mostrò severo, anzi brusco, fu
co' pastori suoi subordinati che scoprisse rei d'avarizia o di negligenza o
d'altre tacce specialmente opposte allo spirito del loro nobile ministero. Per
tutto ciò che potesse toccare o il suo interesse, o la sua gloria temporale, non
dava mai segno di gioia, né di rammarico, né d'ardore, né d'agitazione: mirabile
se questi moti non si destavano nell'animo suo, più mirabile se vi si destavano.
Non solo da' molti conclavi ai quali assistette, riportò il concetto di non aver
mai aspirato a quel posto così desiderabile all'ambizione, e così terribile alla
pietà; ma una volta che un collega, il quale contava molto, venne a offrirgli il
suo voto e quelli della sua fazione (brutta parola, ma era quella che usavano),
Federigo rifiutò una tal proposta in modo, che quello depose il pensiero, e si
rivolse altrove. Questa stessa modestia, quest'avversione al predominare
apparivano ugualmente nell'occasioni piú comuni della vita. Attento e
infaticabile a disporre e a governare, dove riteneva che fosse suo dovere il
farlo, sfuggì sempre d'impicciarsi negli affari altrui; anzi si scusava a tutto
potere dall'ingerirvisi ricercato: discrezione e ritegno non comune, come ognuno
sa, negli uomini zelatori del bene, qual era Federigo.
Se volessimo lasciarci andare al piacere di raccogliere i tratti notabili del
suo carattere, ne risulterebbe certamente un complesso singolare di meriti in
apparenza opposti, e certo difficili a trovarsi insieme. Però non ometteremo di
notare un'altra singolarità di quella bella vita: che, piena come fu d'attività,
di governo, di funzioni, d'insegnamento, d'udienze, di visite diocesane, di
viaggi, di contrasti, non solo lo studio c'ebbe una parte, ma ce n'ebbe tanta,
che per un letterato di professione sarebbe bastato. E infatti, con tant'altri e
diversi titoli di lode, Federigo ebbe anche, presso i suoi contemporanei, quello
d'uom dotto.
Non dobbiamo però dissimulare che tenne con ferma persuasione, e sostenne in
pratica, con lunga costanza, opinioni, che al giorno d'oggi parrebbero a ognuno
piuttosto strane che mal fondate; dico anche a coloro che avrebbero una gran
voglia di trovarle giuste. Chi lo volesse difendere in questo, ci sarebbe quella
scusa così corrente e ricevuta, ch'erano errori del suo tempo, piuttosto che
suoi: scusa che, per certe cose, e quando risulti dall'esame particolare de'
fatti, può aver qualche valore, o anche molto; ma che applicata così nuda e alla
cieca, come si fa d'ordinario, non significa proprio nulla. E perciò, non
volendo risolvere con formole semplici questioni complicate, né allungar troppo
un episodio, tralasceremo anche d'esporle; bastandoci d'avere accennato così
alla sfuggita che, d'un uomo così ammirabile in complesso, noi non pretendiamo
che ogni cosa lo fosse ugualmente; perché non paia che abbiam voluto scrivere
un'orazion funebre.
Non è certamente fare ingiuria ai nostri lettori il supporre che qualcheduno di
loro domandi se di tanto ingegno e di tanto studio quest'uomo abbia lasciato
qualche monumento. Se n'ha lasciati! Circa cento son l'opere che rimangon di
lui, tra grandi e piccole, tra latine e italiane, tra stampate e manoscritte,
che si serbano nella biblioteca da lui fondata: trattati di morale, orazioni,
dissertazioni di storia, d'antichità sacra e profana, di letteratura, d'arti e
d'altro.
"E come mai, dirà codesto lettore, tante opere sono dimenticate, o
almeno così poco conosciute, così poco ricercate? Come mai, con tanto ingegno,
con tanto studio, con tanta pratica degli uomini e delle cose, con tanto
meditare, con tanta passione per il buono e per il bello, con tanto candor
d'animo, con tant'altre di quelle qualità che fanno il grande scrittore, questo,
in cento opere, non ne ha lasciata neppur una di quelle che son riputate insigni
anche da chi non le approva in tutto, e conosciute di titolo anche da chi non le
legge? Come mai, tutte insieme, non sono bastate a procurare, almeno col numero,
al suo nome una fama letteraria presso noi posteri?"
La domanda è ragionevole senza dubbio, e la questione, molto interessante;
perché le ragioni di questo fenomeno si troverebbero con l'osservar molti fatti
generali: e trovate, condurrebbero alla spiegazione di piú altri fenomeni
simili. Ma sarebbero molte e prolisse: e poi se non v'andassero a genio? se vi
facessero arricciare il naso? Sicché sarà meglio che riprendiamo il filo della
storia, e che, in vece di cicalar piú a lungo intorno a quest'uomo, andiamo a
vederlo in azione, con la guida del nostro autore.