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Don Rodrigo: un'anima negata al bene
Il banchetto e i commensali di don Rodrigo
La figura del padre Cristoforo nel contesto dei commensali

 

A) Don Rodrigo: un'anima negata al bene
La condanna morale per il primo eroe del male del romanzo è completa. La colpa di d.R. non è tuttavia solo legata al fatto che egli attenta con la sua "passionaccia" all'innocenza e alla purezza di una faciulla innocente: sta caso mai nella sua superficialità, nell'indifferenza con cui pratica il male, nella gioia di farlo, nel puro compiacimento per la sofferenza altrui. Di un personaggio di questo genere il M. non può fornirci il ritratto: sarebbe concedere troppo alla sua persona. Invece interessa al narratore, e molto, descriverci l'ambiente, la casa del tiranno: il palazzotto, con tutto ciò che lo circonda, è sicuramente una prova altissima del realismo manzoniano. Non solo esiste la capacità realistica qui, però, ma anche quella di porre in relazione tutti gli elementi naturali, insieme con le persone che abitano attorno al palazzotto, con l'animo del signore del luogo. Tutta l'atmosfera, dai bravi travestiti da contadini agli avvoltoi inchiodati ai battenti dà una sensazione di esaurimento e decadimento, non di autentica energia: il mondo di don Rodrigo non solo è iniquo, ma è anche storicamente falso. Lo stesso padrone in realtà è impotente di fronte alla storia che lo nega, alle ragioni vere della vita che stanno dalla parte del vero (quello che, abbiamo detto, il Manzoni persegue, indaga), ma che sono fatalmente negate all'ambiente di don Rodrigo. Il vero è santo, e corrisponde al bene: il male è falso, perché, soprattutto, è la negazione delle ragioni della storia.

B) Il banchetto e i commensali di don Rodrigo
La nota su cui il M. gioca nella rappresentazione del banchetto in casa di don Rodrigo, per comunicarci i contenuti che veniamo dal dire, è poi anche quella della mediocrità: i  commensali di d. R. infatti sono mediocri, piccoli parassiti, insignificanti relitti della storia, squallidi provinciali, il cui carattere è ancor più sottolineato ed enfatizzato per contrasto dalla presenza del conte Attilio, cugino di don Rodrigo, venuto a villeggiare da Milano, e dunque in un ambiente non suo. Ma don R. ha bisogno di circondarsi di uomini di legge, purchè corrotti, perchè non c'è modo migliore di violare la giustizia che ingraziarsi proprio loro (questo è il messaggio alto che il M. vuole lanciarci qui):

La discussione, nelle sue varie fasi, vuole anche essere una riprova della molteplicità dei livelli di lettura possibili nel romanzo: infatti, ad un primo livello, noi potremmo pensare di trovarci di fronte ad un'appassionata discussione alla tavola di un nobile anfitrione, che verte su argomenti in parte mondani in parte di attualità. Un cavillo di diritto cavalleresco, e la situazione politica dei grandi, delle corti francese e spagnola. Ma ad un livello più alto, guardando il tutto in filigrana, in controluce, emerge con forza il discorso della condanna manzoniana: qui siamo solo di fronte ad un gruppo di potenti mediocri, disonesti, ignoranti, imbecilli, volgari e violenti: una specie di piccola associazione per delinquere inconsapevole, e quindi ancor più nociva, per il veleno di ingiustizia che instilla nella società. Questa analisi ci dà ragione della potenza della lente implacabile con cui il M. seziona il reale, alla ricerca del vero. E poi ne esce come sempre, insieme alla condanna dei singoli, anche la condanna per un intero secolo, e mondo: siamo qui nel momento massimo dell'asservimento dell'Italia allo straniero, e la classe sociale qui raffigurata, che dovrebbe avere la responsabilità della vita italiana del tempo, è in realtà l'artefice del suo asservimento, della perpetuazione di quel tanto deprecabile asservimento, che coincide con l'oppressione di quel popolo fatto di tanti Renzo e Lucia.

C) La figura del padre Cristoforo nel contesto dei commensali
Il capitolo si apre e si chiude non con don Rodrigo, che bene riassume il mondo di piccola prevaricazione provinciale che asserve l'Italia, ma con il padre Cristoforo, l'eroe cristiano del romanzo, il quale, qui, e soprattutto nel capitolo seguente, subirà una cocente sconfitta. Basti osservare come cade e quali reazioni suscita la sua osservazione sul dibattito in atto: una massima evangelica che richiama il tema altissimo della non violenza appare in questo contesto eticamente morto come una presa in giro, una battuta degna di un giullare fuori luogo in una corte depravata. E tutta intessuta di beceraggine e di vacuità storica, per non dire di autentica mancanza di cultura, è la conversazione che si svolge sotto gli occhi del padre Cristoforo: il quale però non può certo avere quella passione di italianità, che la rovente polemica antistraniera del capitolo farebbe quasi avvertire come necessaria. Il proteggere e difendere gli interessi degli umili è certo già un primo passo per il riscatto d'un'intera nazione, ma sarebbe errato vedere coloriture politiche nella presenza del padre a questo banchetto. Come stupirsene d'altronde, se è vero che la profonda visione religiosa della vita nasce nel M. proprio come sonseguenza della delusione cocentissima del fallimento della rivoluzione francese, scaduta nelle atrocità del Terrore e nell'assolutismo tirannico dell'Impero poi?

 

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