Torna all'indice dei capitoliCAP. VI°

La morale di don Rodrigo
L'atteggiamento di fra Cristoforo
La proposta di Agnese
Il desco della casa di Tonio
La tesi generale del capitolo

 

A) La morale di don Rodrigo
La prima sequenza del sesto capitolo amplia ed approfondisce il personaggio di don Rodrigo, mettendone in evidenza meglio le caratteristiche. Prima era trattenuto dai commensali, ma ora la sua natura di signorotto fatto solo di esteriorità e di senso del potere viene a galla in tutta la sua odiosità. Don Rodrigo è testardo, cinico, sprezzante, si ritiene al centro del suo miserabile mondo: e soprattutto ha una sua morale da signorotto laico, in virtù della quale egli ritiene un oltraggio intollerabile che un frate, un villano plebeo, in ultima analisi, possa venire a casa sua per fargli una predica non richiesta, per parlargli del suo comportamento con una ragazza qualunque, una contadinella; per lui tale comportamento riguarda la sua vita privata, di cui non deve rendere conto a nessuno. Per lui il mondo della religione è un "affar di chiesa", qualcosa che non riguarda affatto il mondo nobile cavallersco a cui si sente di appartenere. Come osa il frate parlargli di una plebea? E come si permette questo mascalzone di religioso di agitargli davanti agli occhi addirittura un teschietto, e di fargli misteriose profezie? Le sicurezze di don Rodrigo, però, sono alquanto scosse dal tono veemente del padre Cristoforo. Partito lui, egli si ritroverà a misurare a grandi passi la stanza, in preda a una misteriosa ed indefinita inquietudine. Qualche critico, fra cui il Croce, ha qui voluto vedere un indizio di larvale coscienza del male in don R., da cui forse un giorno gli potrebbe anche venire possibilità di salvezza. E' indubbiamente una tesi interessante, ma non dobbiamo dimenticare che il M. gioca qui invece la carta del realismo, e si limita a rappresentarci un don R. in cui qualunque apertura al cosiddetto "bene" è preclusa, dall'ambiente, dall'educazione, dal tempo. Per don R., si potrebbe dire, non esiste un diritto umano, ma solo il diritto che dà il potere. Egli è chiuso alla vita interiore, non sa cosa siano i sentimenti di umanità. Dunque la salvezza gli verrà solo per via esterna, in virtù della misericordia di Dio o del perdono degli uomini, proprio come accadrà al lazzaretto, quando egli starà morendo di peste. In questo caso la Grazia può operare solo ad opera della misericordia, che è pure una forma di Provvidenza, ma non già muovere dall'interno: abbiamo già sintetizzato tutto ciò nella formula "don Rodrigo: un'anima negata al bene".

B) L'atteggiamento di fra Cristoforo
La negatività morale di don R. influenza anche il comportamento di fra Cristoforo. Il quale, nonostante il giudizio su di lui che già conosciamo, uscirà da questo scontro duramente sconfitto. Non otterrà nulla, solo di entrare nel mirino dei potenti, i quali a tempo debito, sapranno vendicarsi da quello da loro considerato come un affronto. Ma la veemenza e la violenza della reazione di fra C. ha proprio origine dalla cupa malvagità del signorotto: sì che pare proprio che per un attimo si riaccenda il vecchio Lodovico, quello sdegno irrefrenabile che era stato del giovane di fronte alle ingiustizie e alla superbia e alla sfacciataggine dei potenti. Il suo discorso è anche sublime, è anche pieno qua e là di autoumiliazione: ma la sostanza di esso è antidiplomatica. Il padre pone in modo assoluto l'accento sulla questione morale generale, dicendo: "Nessuno ha il diritto di molestare una creatura umana". Ma, nella casa del suo nemico, egli avrebbe anche potuto porre la questione in termini più morbidi: "Non molestando questa creatura, ne verrebbero a questa casa riconoscenza e gratitudine immense, come a chi rinuncia a un proprio disegno in vista della libertà di autodeterminazione di un innocente". Invece i modi del discorso del padre sono non solo veementi, ma anche a tratti violenti e ricattatori, e culminano nella celebre profezia ("Verrà un giorno..."). Così, prospettando l'infallibile vendetta di Dio (che in bocca al padre suona più quello vendicativo della tradizione ebraica che quello amorevole e pieno di perdono della cristiana), egli sancisce anche il fallimento e l'inutilità del suo intervento. Il padre, forse, è qui troppo sicuro di sé, perché anch'egli non sa, come tutti gli altri, quali saranno le imperscrutabili vie disposte dalla Provvidenza per i suoi protetti.

C) La proposta di Agnese
Anche Agnese sarà sconfitta, perché la sua proposta delle nozze clandestine fallirà al pari dell'intervento del padre C. Agnese acquista in questa sequenza alcuni tratti che le saranno poi sempre peculiari durante il romanzo: ella ha una smisurata ammirazione per le persone che sanno, tanto smisurata da divenire infine alquanto saccente. Il M. sottolinea questa saccenteria tutta fatta di bontà e di generosità. Agnese si crede una donna vissuta, e pensa anche di conoscere il mondo. Nella prima redazione del romanzo tutto questo era detto esplicitamente. Ma la sostanza della proposta delle nozze clandestine è un'altra: messa di fronte da Lucia alla questione fondamentale, ancora una volta etica, se questo stratagemma sia bene o male, Agnese non sa altro dire se non che il fine giustifica i mezzi. Il M. può qui quindi prendere posizione contro il machiavellismo, atteggiamento da lui francamente aborrito. Per una natura etica come quella del Manzoni, il fine non può giustificare i mezzi, perché tranquillizzare la propria coscienza con questa argomentazione è una cosa di dubbia natura, è un limite. Ma l'argomento ha buona presa proprio su Renzo, al quale non par vero, nella sua giustificata impulsività giovanile, che la cosa possa esser risolta tanto a comodo. Diversa, invece, la reazione di Lucia, la quale non è d'accordo, perché è male ingannare il proprio curato per un tornaconto personale. Ma anche Lucia, col suo atteggiamento remissivo, è qui nel torto - pare volerci dire il narratore - perché limitarsi, in questa circostanza, a una bella massima ("tiriamo avanti con fede, e Dio ci aiuterà"), avrebbe sicuramente significato cadere nelle mani dell'abborrito don Rodrigo. Non basta starsene passivi, quando si è in difficoltà, ed aspettare l'intervento salvifico della Provvidenza. Quale concezione limitante sarebbe questa: occorre agire ed impegnarsi, e vedere negli accadimenti terreni un segno del disegno superiore.

D) Il desco della casa di Tonio
Renzo pensa a procurarsi i testimoni delle nozze clandestine, e pensa a un certo Tonio, che gli doveva un favore. Il M. ci apre qui uno squarcio su un'umile dimora contadina, un semplice desco fatto di una misera polentina di grano saraceno, che doveva servire a sfamare sette o otto persone. Il M. ha qui in mente, non tanto un idillio sulla vita dei poveri, com'è stato detto, ma un quadro di genere rusticano, doloroso, sì, ma pur sempre realistico. La mensa della casa di Tonio va poi idealmente confrontata col banchetto al palazzotto, dove la carestia è argomento di conversazione, ma non è direttamente visibile come a casa di Tonio, e dove, soprattutto, restar serviti significa non tanto accettare un atto di generosità che viene dal cuore, quanto il restar per sempre compromessi con gl'ingranaggi di un potere e di una società corrotta. Il naturale prosieguo di questa sequenza, che conferma il carattere rusticano della stessa, è poi la cena di Tonio e Renzo all'osteria del paese, dove l'invitato mostra la sua natura gioviale e un po' sempliciotta, come per esempio quando accenna all'avarizia di don Abbondio, con chiari intenti mimici.

E) La tesi generale del capitolo
Tutti i personaggi si agitano in questo capitolo secondo la loro logica umana, con coerenza psicologica, cioè ciascuno in base al suo carattere e alle sue aspettative. Agnese, Lucia, fra Cristoforo, Renzo: tutti sono implicati in una questione che li mette in gioco umanamente con grande dolore, ma tutti falliscono nel trovare una soluzione vincente. Sono, certo, tutti in buona fede, e sostenuti da una morale sana, grazie a cui cercano di ottenere il loro scopo. Il M. però vuole sottolineare due principi: il primo, che non è lecito fare cose cattive neppure per ottenerne di buone (tesi antimachiavellica); il secondo, più importante, perché è centrale della sua visione del mondo: che le vie della salvezza esistono certo, ma non si identificano mai con quelle viste dalla piccola mente degli uomini, o comunque dei diretti interessati. Uno spirito, ancora una volta, che guarda in alto, alla vita e alla storia, e molto da lontano. Un capitolo imprtante, dunque,. per meglio arrivare alla comprensione della visione dell'accadere terreno che il M. ha elaborato durante tutta la sua formazione.

 

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