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L'arte può avere intenti morali?
Il Principe padre: alcuni giudizi critici
Gertrude: alcuni giudizi critici

 

A) L'arte può avere intenti morali?
Se nella violenza che pretende di esercitare don Rodrigo noi possiamo vedere un arbitrio di carattere privato, non così è per la sopraffazione del Principe padre, il quale pretende di avere dalla sua anche la società e le istituzioni. Se in una situazione di tipo fuedale, dove la sopravvivenza del patrimonio e dei possessi del casato costituiva l'ossatura stessa della società, il maggiorascato poteva avere risvolti anche positivi, nel nuovo mondo vagheggiato dal Manzoni, per quella società romantica ove all'individuo e alla sua libertà è associato il più sacro dei valori, l'atto di violare una coscienza e una libertà diventa qualcosa di criminoso e di barbarico, un atto contro l'anima, e dunque ancor più grave che una violenza contro il corpo. Il problema della corretta funzione da assegnare all'individuo dentro la società è dunque uno dei centri vitali della concezione manzoniana della realtà. Il quadro della sua analisi comincia allora qui a farsi più ampio, perché le responsabilità personali non sono qui più frutto dell'arbitrio, o di una certa mediocrità, ma sono anche legate alle responsabilità sociali, a tutto un modo di intendere la vita, derivante dal costume di una certa età storica. Eppure, cionondimeno, si tratta qui ancora una volta di problemi morali, su cui il Manzoni si sofferma con tutto il suo grande impegno in questo ambito, da noi moltissime volte evidenziato.
Ora è lecito porci una domanda più volte sollevata dalla critica: se l'arte ha validità estetica assoluta, non deve avere al centro la morale. Una posizione di questo tipo ha per lunghi decenni impedito un'autentica fruizione dell'arte manzoniana, facendo storcere il naso a quei critici che inseguivano nell'opera d'arte il solo valore estetico. Ma, mutando la nostra società, ed avvertendo nuove esigenze, venne poi il tempo in cui l'arte doveva essere concepita come "impegnata": al problema etico andò sostituendosi quello "sociale": e anche qui il Manzoni non fu certo eletto a modello. La realtà è che l'arte del Manzoni si rifà sicuramente a un patrimonio morale, senza però che esso possa essere riconosciuto in alcuna codificazione o dogmatizzazione, di questo o quel pensiero: è una morale che non si lascia etichettare, né definire, perché ogni autentica morale è, a ben vedere, un'inesausta aspirazione al bene, intendosi con bene il principio del diritto alla vita, della lealtà, del dovere e della gratitudine. Insomma quei principi eterni senza di cui nessuna società umana può reggersi. Che siano questi i principi che ha in mente il Manzoni è uno dei motivi più autentici che fanno del suo romanzo un'opera intramontabile, eternamente valida nel suo valore paradigmatico di affermazione di un mondo più giusto ed umano. Solo che questi principi "eterni" emergono nel romanzo solo per antifrasi rispetto alle colpe ed alle manchevolezze dei vari personaggi. E questo vale tanto più per l'episodio della monaca di Monza, ove si fronteggiano nella loro lotta spietata un padre e una figlia, Gertrude ed il crudele Principe padre.

B) Il Principe padre: alcuni giudizi critici
Per il Principe padre la critica si è schierata fra colpevolisti e revisionisti. I primi hanno forse vita più facile: il P.p è crudele, machiavellico (qualunque mezzo pur di ottenere lo scopo), ipocrita, ambizioso e incapace di qualunque ripiegamento. La storia contribuisce poi a questa accusa, visto che Maria Anna era figlia della sua prima moglie, e dunque, escludendola dal patrimonio, egli non faceva che garantirlo tutto al fratellastro di lei, avuto da secondo letto.
Viceversa, i revisionisti hanno voluto vedere nella presenza dell'istituto del maggiorascato il motivo vero per cui il P.p agisce in modo così risoluto. Dati i tempi, tale istituto aveva ancora forza di legge, e non poteva essere discusso. Il monastero poi era sentito come un mezzo per mettere al riparo dai pericoli del mondo (Donadoni). Il Goffis è arrivato persino a dire che il P.p compie il suo dovere di capo casata, sempre rispetto ai tempi. Anzi egli eccelle in diplomazia, ed evita grandi scenate o situazioni di scandalo nell'ottenere il suo scopo.
Se il P.p ha attenuanti nella mentalità del tempo, il cuore del discorso manzoniano è però che egli ha anche una sua responsabilità precisa, che non si può attenuare con alcuna giustificazione. Egli non riesce a capire quanto nel caso di Gertrude sarebbe stato distruttivo imporle la legge della consuetidine sociale. E' per questo che non è padre, che egli nega alla radice la funzione della paternità, che è quella di instradare sulla realtà, di proteggere nella crescita. E' la ristrettezza mentale che il Manzoni vuole segnalarci: forse più che una colpa morale è in questo senso una colpa intellettuale. E' il momento in cui sua figlia è ai suoi piedi chiedendogli pietà, ed egli ancora pensa di sfruttare quel momento ai suoi fini, che sancisce la sua colpa di padre: nessuna mentalità o istituzione può salvare un padre che non sente alcuna forma di affetto per una figlia. Egli non fu intelligente, o abbastanza duttile da capire che nulla al mondo giustifica la distruzione della vita di una figlia: se avesse potuto capire che tale sarebbe stato l'effetto del suo agire con lei, egli avrebbe già avuto un'intelligenza ed un'umanità di cui in realtà è totalmente privo. Astuto egli è, certo: ed il Manzoni pare proprio che voglia mostrarci questa distinzione, fra autentica intelligenza ed astuzia, la qualità di chi non arretra di fronte a nulla pur di raggiungere il suo scopo.

C) Gertrude:alcuni giudizi critici
Ma quale è la responsabilità di Gertrude? E come si sono schierati i critici al suo riguardo? Anche qui v'è stato chi ha sostenuto che, date le circostanze, tutte violentemente costrittive, Gertrude non avrebbe potuto fare altrimenti che cedere. C'è anche chi ha voluto vedere in questo fatto un'applicazione del presunto giansenismo manzoniano, visto che la volontà individuale, secondo il giansenismo, non può da sola ottenere la Grazia. Il De Lollis volle addirittura fare di Gertrude una Madame Bovary della letteratura italiana, mentre altri ha invocato la circostanza psicologica del "plagio" della volontà del padre sull'animo indifeso della figlia adolescente. Il Manzoni avrebbe addirittura anticipato constatazioni psicanalitiche, tratteggiando inconsapevolmente con grande maestria il carattere ambivalente del rapporto padre-figlia: un'involontarietà di un meccanismo affettivo quasi coercitivo che attenuerebbe comunque la responsabilità morale di Gertrude.
Ma il Manzoni non può essere letto percorrendo queste vie. Per il fatto che esista il complesso di Caino, non tutti gli uomini ammazzano il proprio fratello. Una responsabilità individuale esiste sempre, anche quando la storia o il destino ci mettano in situazioni obiettivamente scabrose: anche Lucia è stata vittima di circostanze sfavorevoli, ma ha una certezza: "Piuttosto morire, che cader nelle sue mani". Getrude, per quanto siano grandi le sue attenuanti - e il narratore ce le segnala tutte con straordinaria attenzione - è priva di una vera coscienza morale, perchè non arretra davanti al delitto, ma soprattutto perchè è una natura profondamente sensuale, legata al fantasticare. Il Momigliano bene ha sostenuto che quella di Gertrude è una tragedia della sensualità, non tanto intesa come rapporto fra uomo e donna, quanto attitudine profonda alla vita intesa come sapori e cose, negazione alla rinuncia, avidità di pigrizia e di facile allegria. Gertrude è in sostanza incapace di raffrenare ed indirizzare ad altre mete quella sua sensualità di fondo, e ne rimane preda: sia quando si rassegna alla monacazione per il desiderio di entrare in contatto con gli altri, sia quando, da sventurata, risponde alle parole di Egidio.
Ma il Manzoni va ben oltre questo ritratto e questo giudizio, quando ci vuole trasmettere tutta la sua pietà per questa anima straziata. E' qui, come già detto nel commento al capitolo precedente, che l'arte del Manzoni si innalza immensamente. Gertrude ha la poesia della donna sconfitta, della sua debolezza, del suo essere travolta da un destino inesorabile, dalla violenza psicologica, sottile, eppur più dolorosa di una tortura fisica, cui è spietatamente sottoposta. Gertrude non fu, come la Francesca dantesca, vinta dall'amore, ma semplicemente vinta dalla vita, da un padre snaturato, da un amante assassino e delinquente, da una natura che, creatala per una vita fatta di sensualità e di divertimento, finì col negarle anche la consolazione dello spirito e della religione. Una vita sbagliata, come ve ne sono tante. Ma è precisamente qui la tragedia e la bellezza incomparabile delle pagine manzoniane.

 

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