Gasparotto Leopoldo (Poldo)

Motivazione della Medaglia d'Oro a Poldo Gasparotto La vita
Hanno detto di lui Il campo di Fossoli
L'eccidio del 12 luglio Documenti su Poldo Gasparotto e Fossoli
Breve storia del Partito d'azione

 


Paolo Matteo Maggioni     Mario Abbiezzi    Matteo Spagnolo

'Bisogna pure che uno arrischi per tutti'

La storia di Poldo Gasparotto

A Elia Mondelli,
e a tutti coloro che,
nonostante tutto,
osano ancora sperare
in un mondo migliore.


MOTIVAZIONE DELLA MEDAGLIA D'ORO
AL VALOR MILITARE NELL'ORDINE
CRONOLOGICO DEL SACRIFICIO

Gasparotto Leopoldo (Poldo)

'Avversario d'antica data del regime fascista, già prima dell'armistizio dell'8 settembre 1943 organizzava il movimento partigiano nella Lombardia. Nominato successivamente comandante militare delle formazioni lombarde "Giustizia e Libertà" dava impulso all'iniziativa, esempio a tutti per freddo e sereno coraggio dimostrato nei momenti più difficili della lotta. Caduto in agguato tesogli per vile delazione, sopportava il carcere di San Vittore subendo con superbo stoicismo le più atroci sevizie che non valsero a strappargli alcuna rivelazione. Trasportato nel campo di concentramento di Fossoli per essere deportato in Germania, proseguiva imperterrito a lottare per la causa e tentava di organizzare la fuga e l'attacco ad una tradotta tedesca per salvare i deportati avviati al freddo esilio e alla lenta morte. Sospettato per la sua nobile attività veniva vilmente trucidato dalla ferocia nazista.'

Lombardia, settembre 1943 - Fossoli, 21 giugno 1944


La vita

Leopoldo Gasparotto nasce a Milano il 13 dicembre 1902, il padre Luigi è un parlamentare del partito radicale, e da Maria Biglia, entrambi di origine friulana. Milita fin da giovane nelle file democratiche e con Vittorio Albasini Scrosati fonda un circolo repubblicano tra i liceali milanesi, in particolare quelli del liceo Berchet dove studia.

La carriera scolastica inferiore di Gasparotto è quanto meno atipica. Svolge le attuali medie e il liceo tra il Berchet e un altro istituto, ritirandosi prima in seconda media (quando passa all'altro istituto) e dopo il ritorno al Berchet, in seconda liceo. Questo secondo ritiro è curioso. Alla fine del primo trimestre, molto brillante, decide di provare il colpaccio: preparare l'anno in corso e la terza liceo da solo, per poter dare, a giugno dello stesso anno, la maturità e ottenere la licenza classica. L'impresa gli riesce a metà. Promosso in tutte le materie ad ottobre, ottiene la licenza limitata e deve frequentare la terza liceo solo per latino e greco, materie che supererà poi a Giugno.

Terminato il Liceo, si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza all'Università statale di Milano dove si laurea.

Già celebre avvocato, rifiuta l'iscrizione al Sindacato Avvocati di Milano, in effetti diretto da gerarchi del regime al potere, così come da studente aveva rifiutato l'iscrizione alla Gioventù universitaria fascista (Guf), che richiedeva una dichiarazione in cui si accettava l'ideologia del regime.

Prima di partecipare attivamente alla Guerra di liberazione, è istruttore d'alpinismo presso la Scuola militare di Aosta, poiché esperto scalatore e accademico del Club Alpino Italiano. Sebbene i suoi superiori avanzino periodicamente proposte di avanzamento di grado, esse vengono regolarmente rifiutate dall'autorità fascista.

Il suo essere antifascista si rinnova con lo scoppio della guerra e le relative tragedie che affliggono la popolazione.

Dopo l'8 settembre 1943, a Milano, si organizza la Resistenza e Poldo partecipa alle fasi organizzative sin dall'inizio, provvedendo a reclutamenti e contrattando con l'esercito per la fornitura di armi: tutto ciò che ottiene sono 1000 fucili, che vengono però forniti solamente con 10 cartucce a testa.

Il 27 agosto, in seguito ad una retata venti militanti sono arrestati: sono quasi tutti avvocati, amici di Poldo, tra cui anche Ferruccio Parri. Proprio Poldo il giorno successivo ottiene la loro scarcerazione, intervenendo presso l'autorità militare.

Giuliano Pischel, nel suo testo 'Così è il Partito D'Azione', datato 1945, così descrive l'inizio della Resistenza milanese. 'E infine c'era l'organigramma militare. Parri si era assunto il compito difficilissimo di creare lo schema organizzativo dei vari uffici e il compito politico di mantenere unità d'azione, al di sopra delle possibili differenziazioni politiche, dirimendo ogni possibilità di compromesso, anche locale, con le forze tedesche o con le rinascenti forze armate fasciste, impiegate in bassi scopi polizieschi.

Ma a serbare invece il diretto e subordinato collegamento con i vari gruppi che, nella Lombardia, costituivano più degli sbandati, spesso in pietose condizioni di armamento e rifornimenti, che delle vere e proprie forze armate, occorrevano altri uomini.

Poldo Gasparotto, validamente appoggiato dall'inseparabile Mario Martinelli, fu l'elemento veramente indispensabile per questa bisogna, pronto, sempre, con superbo sprezzo del pericolo, a fare la spola fra le città ed i vari gruppi sulle montagne, per rincuorarli, istruirli, indirizzarli, per scegliere i centri di resistenza, e in città, per procurare armi, viveri e curarne personalmente il trasporto.

Accanto a lui l'avvocato Giovanni Barni aveva trasformato il suo studio in un vero e proprio centro di raccolta, affollatissimo, e di smistamento di tutti gli elementi - e ormai si operava al di fuori dell'orbita di partito - che affluivano, specie a seguito dei primi bandi militari neofascisti, per unirsi alle bande. Questi collaboravano con Gasparotto e con Barni, sia alla organizzazione di un ufficio informazioni, sia per l'inquadramento delle squadre d'azione cittadine, sia infine per l'azione coordinata con gli altri partiti.'

L'8 settembre 1943, fonda la Guardia Nazionale, con sede presso il garage della sua casa, già distrutta dai bombardamenti, di Via Donizetti 32. Il 10, è col padre al Comando del corpo d'Armata di Milano per cercare di convincere i comandi dei presidi a preparare schieramenti difensivi efficaci contro i tedeschi. Due giorni dopo accompagna la moglie e il figlio al confine svizzero per poi organizzare le prime formazioni partigiane sul Pian del Tivano, in Val Codera e in Val Brembo. Prima di essere arrestato partecipa alle più pericolose azioni di guerra.

Nonostante fascisti e tedeschi inizino a dargli la caccia, egli continua a frequentare il Palazzo di Giustizia di Milano, non nascondendosi, ma limitandosi a cambiare domicilio ogni notte. Agli amici che lo implorano di fuggire risponde 'bisogna pure che uno arrischi per tutti'.

L'11 dicembre 1943, alle 17, viene arrestato con alcuni compagni in Piazza Castello: l'imboscata tesa loro dai fascisti con la complicità di un farmacista e del figlio, già conosciuti da Gasparotto, raggiunge l'obbiettivo di arrestare uno dei nemici più pericolosi del nazi-fascismo. Il farmacista traditore, nell'agosto del 1944, sarà catturato e ucciso dagli amici di Poldo.

Gaetano De Martino nel suo 'Dal Carcere di San Vittore ai lager tedeschi', descrive l'arrivo di Gasparotto nel carcere. 'Ai primi di dicembre arrivò un gruppo d'eccezione: vicino al castello sforzesco erano stati arrestati una decina di partigiani, quasi tutti dirigenti. [...]. Quel giorno nel rientrare in cella vidi nel corridoio l'alta figura dell'amico Poldo Gasparotto: aveva l'impermeabile macchiato di sangue, a forza di nerbate gli avevano spaccato la testa. Potei avvicinarlo e scambiare con lui alcune parole, potei anche porgergli un po' del cibo che avevo ricevuto nel pacco. Egli era calmo e parlava sorridendo. Nessun lamento per quel che gli era capitato, e solo un vago accenno alle valigie che temeva sequestrate (le tre valigie infatti contenevano i piani della Linea gotica).'

E' condotto a San Vittore, infine a Verona. Nonostante le torture cui viene sottoposto, non rivela nulla riguardo alla sua attività antifascista.

Tradotto nel campo di Fossoli, nuovamente sottoposto a torture, non fa nomi.

Da Fossoli potrebbe scappare: un cittadino svizzero di Bellinzona, deposita presso una banca di Lugano un'ingente somma per favorire la sua fuga. Quando l'uomo incaricato di farlo fuggire 'che cadrà vittima di un'imboscata dei tedeschi' gli si presentò, Poldo rispose: 'Da qui non uscirò per mercato, ma colle mie forze e i miei compagni'.

Michele Vaina, nel suo 'Il crollo di un regime', descrive quei giorni. 'Malgrado la rigorosa sorveglianza, era riuscito a mantenere i rapporti con i partigiani emiliani, anche allo scopo di organizzare la fuga collettiva dal campo, ma il comando tedesco, venuto a conoscenza di questo suo disegno, ne ordinò la soppressione. [...].'

Il 25 aprile, avendo ricevuto l'ordine di prepararsi a partire per un campo di concentramento in Germania, riesce ad inviare alla moglie un pezzo di carta, lungo cinque centimetri e di tre centimetri di altezza, con queste parole: 'L'incubo è cessato; parto per un c.c. in Germania. Spero sarete anche voi contenti. Il morale come sempre ' altissimo, e non mi spaventa ora l'avvenire. Ritorneremo, e presto, purificati da questa prova. A voi tutti il mio abbraccio più affettuoso, ora più che mai. Arrivederci; il mio pensiero è sempre con te. Baci a papà, P.A.T. ecc. P.L. (il figlio, ndr), poi, è inutile dirlo! E che non mi dimentichi. In alto i cuori! Secol si rinnova''.

Il 22 giugno 1944 è fatto uscire dal campo, salire su un camioncino, e, dopo un chilometro di strada, fatto scendere e ucciso da una raffica di mitragliatore.

La salma fu riportata al campo e sepolta al cimitero di Carpi nella fossa 551 col segno "SCONOSCIUTO".

Sulle ultime ore di Poldo Gasparotto, il Procuratore Militare della Repubblica, Magg. Gen. Raffaele Del Rio, redige un rapporto per la Procura generale militare presso il Tribunale militare supremo, in data 20 febbraio 1947.

'Gasparotto Leopoldo, internato nel campo di concentramento di Fossoli ad opera dei tedeschi dopo l'otto settembre del 1943, venne trucidato dai tedeschi stessi il giorno 22 giugno 1944, verso le 13 e 30, in località prossima al campo cennato.

Il Gasparotto era membro del Comitato militare clandestino "Alta Italia" e si teneva a contatto con elementi partigiani.

Secondo dichiarazione in atti il Gasparotto, oltre a tenersi a contatto con i membri del CLNAI, stava organizzando, nel campo, una rivolta ed una fuga. Sempre, a dire del teste, il Gasparotto, il giorno precedente avrebbe avuto un lungo colloquio con una donna russa internata, Kira Niguiski, ed avrebbe tentato di fare uscire fuori dal campo una lettera, che sarebbe poi stata sequestrata dai tedeschi.

Altro teste poi, Sealtiel Giorgio, accenna ad un colloquio di circa un'ora che il G. avrebbe avuto il giorno 22 stesso con una persona sconosciuta, attraverso il reticolato, e conferma il proposito di fuga del Gasparotto, il quale disponeva di una rivoltella e di arnesi atti alla fuga. Lo stesso esprime dubbio che qualcuno nel campo ne abbia il giorno prima riferito al comando tedesco, giacché parte degli arnesi sarebbero stati in una perquisizione rinvenuti e sequestrati.

L'ordine di uccidere Gasparotto sarebbe venuto dal comando tedesco di Verona, e secondo lo stesso teste, responsabile, sia dell'eccidio di Fossoli sia dell'uccisione di Gasparotto, sarebbe certo Bosshammer, comandante delle SS di Verona.

Gli esecutori materiali, secondo il teste Treves Leone, sarebbe certo Rikoff e secondo il teste Magnani Bruno, che lo avrebbe appreso dall'interprete del campo Fritz, sarebbero il tenente Tito, il maresciallo Hanse Haage, e certo Gönig.

Tali affermazioni non sono però suffragate da altri elementi.

Le indagini in merito hanno fondatamente accertato che il Gasparotto, poco dopo mezzogiorno del 22 giugno, venne prelevato dalla baracca, dove si trovava, dal sottufficiale Haage, consegnato alla porta del campo a due militari delle SS, fatto salire su un automobile, che lo portò via. Dopo mezz'ora i militari predetti si sarebbero presentati al Ten. Tito, comandante del campo, dicendo: "L'ordine è stato eseguito."

Alle ore 13 e 30 circa un motofurgoncino (cfr. Testimonianza di Elia Mondelli), rientrava nel campo di Fossoli con a bordo il cadavere del povero Gasparotto. Pare che ad accompagnare fuori dal campo con l'automezzo il Gasparotto sia stato certo Franz, che si ritiene essere un graduato delle SS.

Trasferitosi questo ufficio a Fossoli, anche per conoscere l'ubicazione del campo e il punto preciso in cui Gasparotto venne passato per le armi e sentire le famiglie abitanti nelle zone più vicine, ha potuto stabilire con certezza:

1- La vettura che trasportava Gasparotto dal campo al luogo dell'uccisione marciava a forte velocità e si fermò sulla strada, nei pressi di un ponticello, per un guasto ad una gomma.

2- Dalla vettura scesero due militari tedeschi, armati di mitra, e successivamente il povero Gasparotto in camicia bianca a mezze maniche ed in calzoncini corti.

3- A pochi passi dalla strada, in un prato adiacente, il Gasparotto venne ucciso con una scarica di mitra.

4- I due militari, per uno dei quali si hanno i connotati (alto, bruno, quasi moro, con macchie scure sulla faccia) subito dopo, non potendo fare uso della macchina, bussarono alla porta di certa Manfredini Vittoria, abitante a circa 50 metri dal luogo dell'esecuzione, e chiesero in prestito due biciclette per restituirsi al campo, adducendo che la loro macchina si era guastata e che occorreva loro rilevare un meccanico. Uno dei due poi - quello moro che balbettava qualche parola in italiano - nel mentre prometteva la restituzione delle due biciclette ingiungeva la donna di non uscire e di non avvicinarsi alla macchina perché pericoloso.

5- Dopo mezz'ora i due militari, riportando le biciclette, ritornarono sul posto, seguiti da un moto furgoncino, sul quale venne caricato il corpo di Gasparotto, coperto da un telo (cfr. Elia Mondelli, ndr)

6- L'autovettura poi, quando già il motofurgoncino era andato via, fu rimessa in funzione dai due soldati, con il cambio della ruota guasta con quella di scorta, e proseguì la strada nella direzione opposta al campo.

L'istruttoria, d'altronde, può considerarsi completa, e, quando saranno messi a disposizione di questo ufficio gli imputati su indicati, potrà chiudersi in brevissimo tempo.


HANNO DETTO DI LUI

INTERVENTI DI:

Luigi Gasparotto
Indro Montanelli
Elia Mondelli
Luigi Meda
Leo Valiani
Paolo Liggeri
Articoli da 'l'Avanti!' e  'l'Unità'

'Avanti!', edizione romana del 28 luglio 1944

MARTIRI

POLDO GASPAROTTO
Viene confermata la notizia dell'assassinio dell'Avv. Leopoldo Gasparotto, Poldo per gli amici, figlio di Luigi Gasparotto, ex ministro della guerra ed ex presidente, nominato da Badoglio, della Associazione Italiana Combattenti, e spentosi in esilio, in Svizzera. (Notizia tra l'altro inesatta, poiché Luigi Gasparotto, che in vita fu anche deputato radicale dal 1913 e presidente della Fiera Campionaria di Milano, nonché Ministro della difesa nei primi governi De Gasperi, riparò sì in Svizzera, dove tenne contatti, finché gli fu possibile, col figlio Poldo e con altri partigiani, ma morì in provincia di Varese nel 1954, dopo aver appunto ricoperto i citati incarichi di governo, ndr.) I fatti si sarebbero così svolti. Dopo alcuni mesi di detenzione a San Vittore, mesi contrassegnati da inaudite torture, Poldo Gasparotto, come tanti altri compagni ed amici, era stato mandato al campo di concentramento di Fossoli, vicino a Carpi. E' qui che nelle prime ore del pomeriggio del 22 giugno u.s., lo prelevò, dopo averlo fatto ammanettare, il capitano delle SS Rubanzed. Condotto sulla strada per Carpi in automobile, ad un certo punto fu fatto discendere e camminare e quindi ucciso alle spalle con una raffica di mitragliatore. La sua salma, che riposa in un piccolo cimitero di campagna, è costantemente ricoperta da fiori. Poldo Gasparotto onora con il suo martirio il partito per il quale militava e l'Italia per la quale combatteva.

 

'l'Unità' edizione romana del 25 luglio 1944

Salviamo i prigionieri politici

Nel campo di Fossoli, i nazisti hanno concentrato a migliaia i migliori italiani: operai d'avanguardia, contadini ed intellettuali, che nella lotta hanno affrontato l'occupante. Accanto ad essi, centinaia e centinaia di ebrei, vittime innocenti del cieco furore razziale nazista. Terribili le condizioni di vita: la fame, la completa separazione da ogni contatto col mondo, le quotidiane umiliazioni morali inflitte dai bruti delle SS. Ma i Tedeschi non vogliono abbandonare le loro vittime e nell'imminenza della ritirata si preparano a portarle in Germania. Hanno cominciato col massacrare orrendamente Leopoldo Gasparotto, militante del Partito d'azione, hanno quindi assassinato 67 prigionieri sventagliando su di loro, dopo averli incatenati nella piazza del paese, raffiche di mitragliatrici. Ci giunge notizia del massacro di altre 70 persone (...). Noi dobbiamo impedire la morte dei nostri compagni. Dobbiamo seguire l'esempio dei Patrioti di Cesena, Fossano, Saluzzo, Como: con ardita azione partigiana essi hanno liberato i detenuti, salvando preziose energie alla lotta e alla ricostruzione.

Dal Diario di Luigi Gasparotto

3 Agosto, 1944
Riprendo la penna che sta per arrugginire.
Mio figlio è stato assassinato. Arrestato a Milano, ai primi di dicembre dell'anno scorso, dietro un attentato fascista, dai tedeschi delle SS; tradotto dapprima nelle caserme di Porta Nuova e qui seviziato a calci di fucile in volto, non ha voluto parlare. Non ha fatto nessun nome di amico o compagno. Trascinato da carcere in carcere, da giudice a giudice, per rispondere ad interrogatori sempre più stringenti e crudeli, si è rifiutato di fare nomi. Non ha dato solo un indizio, non è sceso a concessioni. L'avvocato Greppi, che lo ha incontrato un giorno nel corridoio del carcere di San Vittore mentre tornava da uno dei tanti interrogatori, lo ha visto col viso coperto di bende, ma col sorriso sulle labbra. L'infermiere del carcere che, tra un interrogatorio e l'altro, gli curava le ferite, lo vedeva di giorno in giorno sempre più sereno e deciso. Davanti ai giudici di Milano e Verona, si è dichiarato fieramente avverso al fascismo e al nazismo. Ma non una parola di più. Non ha avuto il coraggio di portarli alla pubblica udienza perché non ripetesse la protesta contro i nemici della sua Patria. Hanno preferito assassinarlo. A San Vittore tutti parlavano di lui, di Poldo, anche quelli che non lo conoscevano e non lo avevano mai veduto, perché era quello che sotto il calcio dei fucili si era rifiutato di parlare. Vi era, più che della fermezza, della celeste serenità nel suo contegno. Così mi hanno fatto sapere. Così ha ripetuto l'infermiere che gli medicava le ferite: cosi mi ha mandato a dire Indro Montanelli, arrestato dopo di lui.

Il console generale tedesco di Milano, avendo avvicinato un mio amico, il comm. E.G., gli ebbe a dire: 'Abbiamo trovato in lui un nemico degno di noi.' Tutta Milano interpretò queste parole come un atto di lealismo militare da parte dei tedeschi. A un certo momento mi sono io stesso lasciato lusingare un poco. Ma per poco. Mi fu raccomandato da amici, mi fu comandato poi da voci disperatamente affettuose e insistenti che arrivarono fin qui superando il confine, che non mi muovessi, che non mettessi in vista la mia persona, che mi sottraessi ad ogni pubblica curiosità per non dare luogo a rappresaglie su di lui. E mi sono ridotto a vivere nella più stretta solitudine, nella romita campagna di Gudo, per potermi macerare in silenzio, e affogare la mia anima nella più cupa e umiliante impotenza. E allora gli hanno fatto credere che fossi morto. Ed egli non ebbe pace finché non riuscì a commuovere il meno feroce dei suoi custodi e farmi pervenire l'invito a farmi vivo con una parola, una mia parola soltanto e una data scritta di mio pugno, senza firma. Sono riuscito a fargli arrivare un talloncino di carta con il mio saluto e una firma. Sono riuscito a fargli arrivare un talloncino di carta con il mio saluto e la data, ciò egli aveva voluto, perché sapesse che suo padre soffriva ma viveva, che lo aspettava. 'Ti bacio e ti aspetto'. Ecco tutto. Ebbe il conforto di morire sapendomi vivo, ma non ebbe il conforto di sapere che, un'altra creatura, da pochi giorni, era venuta al mondo a portare per la seconda volta il suo nome. Nel mese di aprile fece sapere alla moglie che sarebbe partito per la Germania. Il biglietto diceva (cfr. in biografia): 'Non mi spaventa l'avvenire. Ritorneremo da questa prova purificati. In alto i cuori!'. Ma egli non è tornato; è morto, purificato.

Da quel giorno, abbiamo atteso trepidanti sue notizie. Si seppe finalmente che era stato portato al campo di concentramento di Fossoli, presso Carpi. Colà teneva accesa presso i suoi compagni la fiaccola della speranza. Ci fu detto che persino i guardiani gli volevano bene; che anch'essi lo chiamavano Poldo. Ma egli non poteva essere perdonato perché mio figlio; no, perché era lui, perché era la protesta vivente contro i fascisti e i tedeschi.

Perciò gliel'hanno giurata. Lo aspettavano al varco. I fascisti lo hanno denunciato ai tedeschi. I tedeschi lo hanno preso, e ucciso a tradimento. I fascisti non potevano perdonargli di aver rifiutato dal regime qualsiasi ufficio, di aver respinto ogni loro blandizia, di aver rinunciato a promozioni di grado nell'esercito per non umiliare la sua volontà, i tedeschi non potevano perdonargli di non essere riusciti a piegarlo. Era vissuto, tra studio e casa, fratello più che padre al suo piccolo Pier Luigi, innamorati l'uno dell'altro; nelle ore di ozio sempre insieme, in casa, nelle strade, negli uffici, persino in tribunale, in montagna, sui passi impervi della Grigna: la piccola creatura aggrappata alle spalle del padre gagliardo.

Era educato a tutti gli ardimenti (...)

Poi, quando le notizie si fecero più fosche, ci venne proposto un piano di evasione. Lo abbiamo accettato. Occorreva una somma enorme, il patrimonio di tutta una famiglia, al di là di ogni mia forza. Fu trovata la persona amica e onesta, qui del Ticino, che ce la ha prestata, senza porre condizioni, purché non si facesse il suo nome. Attendemmo per un mese con il cuore in ansia l'esito dell'impresa disperata. Si seppe, infine - come già prevedevo - che egli aveva respinto l'offerta. Rifiutava la salvezza, disse, per evitare rappresaglie sui suoi compagni; soltanto insieme a loro e per loro, avrebbe aderito all'idea di fuga. Ha voluto mantenere la parola che aveva dato a sua moglie quando l'aveva accompagnata col piccolo Pier Luigi alla rete del confine. 'Non abbandonerò i miei compagni.'
Non li ha abbandonati nemmeno allora; li ha abbandonati per morire.


Da una lettera di Indro Montanelli, inviata da Lugano a Luigi Gasparotto, datata 22 agosto 1944.

Ci incontravamo quasi ogni giorno, quando scendevamo a Milano, ed io non mi stancavo di ammirarlo per la sua indomabile energia e per il suo temerario coraggio. Lo ammiravo trepidando e azzardando qualche timido consiglio di prudenza, ma inutilmente. E d'altra parte egli aveva ragione di dire che 'chi non rischia di persona nulla ottiene'. Quando fu arrestato, seppi da Martinelli che Poldo aveva taciuto il mio nome, insieme a quello di tanti altri, nonostante le torture a cui era stato sottoposto. Quando poi fu arrestato, seppi o meglio compresi, che egli aveva taciuto, negli interrogatori, il mio nome. E a questo silenzio, a questo difficile coraggioso silenzio di Poldo, devo la vita.

Testimonianza di Elia Mondelli

Elia Mondelli oggi ha 78 anni. Ha trascorso la propria infanzia ad Ospitaletto di Cormano, fino a quando, nel 1943, si è unito alla Formazione partigiana Cinque Giornate, operante nella zona di San Martino, in provincia di Varese. Dopo la battaglia (si tratta della prima battaglia sostenuta dai partigiani in Lombardia), fugge in Svizzera, dove lavora per alcuni mesi, prima di rientrare in Italia; arrestato a seguito di una delazione, è condotto alle carceri di San Vittore. Nell'aprile del 44 viene trasferito a Fossoli, e di lì prima a Mathausen e poi a Gusen I. Rientra in Italia nel giugno del 1945.

Elia Mondelli conobbe Poldo Gasparotto perché incarcerato con lui a Fossoli nell'area destinata ai prigionieri politici.

'Vorrei incominciare da San Vittore, dove venni incarcerato il 2 aprile del 1944. Venni assegnato al VI Raggio. Quando venni arrestato, i compagni di prigionia, anch'essi arrestati per motivi politici, mi ordinarono di non dire nulla ai tedeschi: "non dire niente, non sai niente, anche se ti interrogano, te le daranno comunque, sia che parli, sia che non parli."

Alla vigilia di Pasqua, il giorno 8 di aprile, il Cardinale Schuster venne in carcere per celebrare la Messa, e ci rassicurò di aver parlato col comando nazista, e di avere avuto rassicurazioni che non si sarebbero più verificati pestaggi e torture nei confronti dei prigionieri politici.

Per tutta risposta al messaggio del Cardinale, il martedì dopo Pasqua, l'11 aprile, i tedeschi mi chiamarono per interrogarmi.

Condotto in un ufficio vi trovai tre uomini, i quali mi chiesero le mie generalità, dove lavoravo e quando ero arrivato al san Martino: io negai, respinsi qualsiasi accusa. Poco dopo arrivò il terribile Franz, una SS che aveva il soprannome di "porcaro". Varcò la porta, mentre mi distesero su un tavolaccio, ancora vestito, a pancia in giù. Franz ordinò che mi venissero bloccate le mani, e iniziò a picchiarmi sulla schiena con un frustino gommoso. Il sudore gli nascondeva quasi i lineamenti. Avrò preso almeno una ventina di stilettate, poi mi fecero alzare. Ci riuscii a fatica; barcollando mi accorsi che uno dei tre aveva preso una sedia e si stava avvicinando pericolosamente, brandendola come una clava.

Scappai verso l'angolo della stanza, per istinto cercai di proteggere la testa con le braccia. Il colpo mi raggiunse violentemente, ma per mia fortuna fu notevolmente attutito dalle pareti che convergevano in quel punto. La sedia si ruppe io rimasi impaurito e stordito; la giacca marrone chiaro che indossavo iniziava a macchiarsi col sangue che mi scendeva dalla fronte. Oggi so di avere accusato in quel pestaggio uno schiacciamento del cranio (che ha causato malori improvvisi nel corso di tutta la sua vita e che gli ha sempre impedito di guidare, ndr.). Mi strattonarono afferrandomi i capelli fino a farmi sedere e continuarono insistentemente a fare altre domande.
Avevo sete. Non se ne curarono.
Mi riportarono in cella. Una volta disteso sul letto qualcuno provvide a medicarmi. Le stesse guardie che dovevano sorvegliarmi, forse per pietà, mi aiutarono dedicandosi al mio recupero fisico. Quando mi picchiarono non ero a dorso nudo, ma con giacca e camicia in maniera che soffrissi di più in quanto la stoffa entrava nella carne.

Mi curavano a letto. Sono stato in quelle condizioni per quindici giorni, fino al 26 aprile. Con quel riposo forzato recuperai i sensi e una discreta condizione fisica, giusto in tempo per essere trasferito a Fossoli.
E' qui che la mia strada si incrocia quella di Poldo Gasparotto.
Non vorrei usare molti giri di parole, la faccio breve: per noi era un mito.
Quando sono stato internato, mi hanno assegnato alla baracca detta degli Intellettuali, la numero 18. In questa erano presenti personalità molto importanti, e di riferimento per noi, come il generale Robolotti, l'Avv. Malagodi, l'Avv. Steiner, l'arch. Belgioioso (del gruppo dei Bpr, pionieri dell'architettura milanese, di cui anche Gianluigi Banfi fu tradotto a Fossoli e che poi perì a Mathausen).
Afferrai quasi subito di non essere un prigioniero soggetto alle normative internazionali. Mi immatricolarono. Ebbi il numero 231.

Più passava il tempo e più soffrivo di fortissimi attacchi di mal di testa. Poldo Gasparotto era un uomo molto umano: ricordo tra i tanti episodi che vivemmo insieme, che spesso veniva a farmi visita nella baracca dove riposavo gran parte della giornata, per confortarmi, per rasserenarmi sul nostro futuro. Non ci negava mai la speranza. Al tempo stesso era anche una persona semplice e dolce. Frequentemente, oltre al conforto della speranza che ci dava, non si negava mai per favori anche più pratici. Ricordo che non di rado era lui a venire a prendere la benda che avevo sulla testa per alleviare le mie emicranie, a riportarla inumidita e a rimettermela sul capo.

Gasparotto nonostante che fosse una vera e propria autorità, era innanzitutto un prigioniero, come tutti noi. Ma rispetto a tutti noi aveva un'altra cultura. Aveva degli ideali più sviluppati; era stato tra i fondatori del Partito D'Azione. Non era solo un partigiano, non era solo antifascista. Lo vedevamo come un filosofo: si vedeva che aveva progetti più grandi, più ampi: di questi parlava solo con pochi amici fidati, non perché credesse che noi altri non fossimo degni di ascoltarlo, ma perché essi erano estremamente segreti. Ma in generale aveva sempre una parola per tutti. Parlavamo del più e del meno, della vita del campo; non ci negava mai il conforto. La nostra prigionia scorreva così. Ho letto in alcuni testi di un suo possibile tentativo di fuga, che egli rifiutò per non abbandonare i suoi compagni. Devo dire che non ne seppi nulla.

Un giorno ci disse che lo avrebbero portato a Verona, dove i fascisti volevano interrogarlo. Passarono due o tre giorni e lo caricarono su un camioncino. Da quel momento nessuno lo ha più rivisto.

Non potevamo sapere che Gasparotto sarebbe stato ucciso. A noi aveva detto che sarebbe andato a Verona. E non potevamo immaginare che lo avrebbero fucilato a poche centinaia di metri dal campo. Quando lo hanno fucilato il nostro campo era nel pieno delle sue attività, e a nessuno fu possibile accorgersi di cosa era accaduto.

Eravamo ancora incoscienti di quanto era successo, e un giorno i fascisti chiamarono un certo Carlini. Questo Carlini era prigioniero come tutti noi, ma aveva un ruolo superiore al nostro. Veniva infatti spesso chiamato dai fascisti per svolgere dei servizi, ovvero per sbrigare certe faccende che potevano andare dal trasporto di alcuni materiali allo scarico di merce, e cosi via. Aveva un moto-furgoncino Gilera, a tre tempi. Quando faceva queste operazioni poteva anche uscire dal campo, sempre scortato da un paio di guardie. Un giorno lo chiamarono per un servizio diverso: lo incaricarono, infatti, di spostare e nascondere il corpo di Gasparotto dal luogo dove era stato ucciso. Lui eseguì l'ordine mettendo il suo cadavere in un punto isolato del campo ricoprendolo con un telo (il corpo venne in seguito consegnato ai tedeschi senza dichiararne le vere generalità, vedi documento allegato, ndr.).

Successe un'altra cosa strana: da quel giorno non fecero più parlare Carlini con noi. Fu un altro prigioniero, che, insospettito da alcune macchie di sangue vicino a quel famoso telone, a rischio della propria vita lo scoperse e riconobbe Poldo. Per lui e per noi fu un colpo durissimo. Oltre che un grande uomo ci aveva lasciato un simbolo e una guida per tutti noi.

Il racconto di Elia prosegue:

'Accadde pochi giorni dopo l'esecuzione di Leopoldo che, per rappresaglia, uccisero sessantasette uomini. Tutti noi volevamo partire, anche per la Germania, pur di lasciare Fossoli. Da qui infatti venivano spesso scelti alcuni prigionieri da uccidere in caso di rappresaglia. E così successe. In risposta ad una azione partigiana, i nazifascisti sorteggiarono alcuni numeri di matricola interni al campo da uccidere, li sollevarono dicendo che sarebbero partiti per la Germania, li caricarono su dei camion. Io ero stato immatricolato con il numero 230. Sorteggiarono il 229 e il 231. In primo luogo pensavo di essere stato sfortunato. Qualche tempo dopo scoprimmo che erano stati uccisi. Sono riuscito a recuperare nel campo i documenti in cui quei 68 venivano schedati con nomi e cognomi. Tra di loro c'erano Carlini, e anche il Generale Della Rovere, a cui Montanelli ha dedicato un libro e un film interpretato da De Sica. Quest'ultimo, considerato traditore, campeggiava nell'elenco sotto falso nome, ma un asterisco in fondo alla pagina ne rivelava la vera identità.' (L'elenco dei martiri è riportato, integralmente, alla fine del capitolo).

Testimonianza di Luigi Meda

'Il morale di Poldo era sempre rimasto altissimo, Vidi Gasparotto l'ultima volta pochi minuti prima della mia scarcerazione. La sera sarebbe partito per Fossoli. Dopo cinque mesi di isolamento il potere ritornare tra i compagni gli era motivo di grande consolazione. Ci abbracciammo e il nostro saluto fu un affettuoso arrivederci. Povero Poldo. Lo avrei rivisto nel maggio del 45 cadavere già in decomposizione, quando la sua salma venne esumata dal cimitero di Carpi, dove era stata sepolta dopo il vile assassinio da parte delle SS tedesche.'

Testimonianza di Leo Valiani

'Poldo Gasparotto, il primo comandante delle nostre bande di Lombardia che aveva stoicamente sopportato le più atroci sevizie, è stato abbattuto.'

Testimonianza di Paolo Liggeri

Oggi alle due, hanno chiamato Gasparotto al comando. Quando lo hanno chiamato, dormiva sdraiato sul pagliericcio; non gli hanno dato nemmeno il tempo di vestirsi. "Subito, subito" Ha quindi dovuto presentarsi al comando a torso nudo, in pantaloncini e sandali. Appena giunto al comando è stato ammanettato e fatto salire su una lussuosa macchina che recava la targa di Verona e che era arrivata da pochi minuti al campo. Tutti ci siamo chiesti dove lo avrebbero portato, mezzo nudo com'era, e il perché di tanta fretta. Dopo una decina di minuti la macchina è ripartita. Gasparotto non c'era. E' uscito però dal campo anche un camioncino guidato da un sottotenente delle SS, ed è ritornato ben presto accuratamente coperto con del tendone impermeabile. Nel pomeriggio assolato quel tendone era così anacronistico, che avrebbe destato la curiosità di chiunque. Subito alcuni compagni che per ragioni di lavoro potevano circolare attorno alla autorimessa hanno messo in giuoco tutte le manovre possibili per sollevare un lembo di quel tendone, ed hanno confermato quello che era ormai nel presentimento di tutti: Gasparotto è stato ucciso!'


Il Campo di Fossoli

Poldo Gasparotto è stato inserito tra i Martiri del Campo di Fossoli: ucciso il 22 giugno 1944, fu seguito da altri sessantasette prigionieri il 12 luglio dello stesso anno.

Dal gennaio 1943 al novembre dell'anno successivo, furono le carceri delle grandi città (S. Vittore, ad esempio) a ospitare i prigionieri in attesa di raggiungere il numero necessario a formare un convoglio, mentre in seguito fu il Campo di Fossoli (Carpi) a svolgere il ruolo di centro poliziesco di raccolta e di transito per la deportazione (Polizei und Durchgangslager). Altri campi che ricoprirono questo ruolo furono la caserma degli alpini di Borgo San Dalmazzo, e la Risiera di San Sabba (Trieste), attivo soprattutto come campo di sterminio.

Il 28 maggio 1942 un decreto del Genio del VI Corpo d'Armata di Bologna informava il Podestà di Carpi dell'imminente occupazione di terreni agricoli 'da adibirsi a servizi militari', per insediarvi un campo di prigionia destinato a internati inglesi, australiani e neozelandesi catturati in nord Africa, denominato 'Campo prigionieri n. 73'.

Il campo, costituito esclusivamente da tende, entrò in funzione con l'arrivo di circa 1800 prigionieri e 350 militari italiani per la sorveglianza. Alla fine di settembre fu attivato un secondo settore attendato, e furono iniziati i lavori di trasformazione delle tende in baracche in muratura: nel novembre 1942 i prigionieri del primo campo si trasferirono nelle cento baracche appena ultimate, mentre entrambi la trasformazione di entrambi i settori da attendati a baraccati fu portata a termine solamente alla fine del 1943.

Il Campo era così diviso in due parti dal canale della Francesa: il 'Campo Vecchio' e il 'Campo Nuovo'.

Il Campo era diretto dal colonnello Giuseppe Ferraresi per conto del Comando superiore Forze Armate Africa settentrionale e, nell'estate del 1943, probabilmente, il numero di prigionieri nel campo era compreso tra 4500 e 5000.

Grazie alle testimonianze dei prigionieri, si può ipotizzare un buon trattamento, anche grazie all'interessamento della Croce Rossa militare.

Nella notte tra l'8 e il 9 settembre del 1943, una colonna motorizzata tedesca circondò il Campo: il Comando italiano che presiedeva il Campo fu arrestato e trasferito a Modena; solamente due ufficiali per occuparsi della gestione ordinaria del Campo. Nel corso del mese di settembre tutti i prigionieri furono condotti in campi di concentramento in Germania.

In Italia l'antisemitismo non affondava le proprie radici nella storia politica e sociale del Paese, ed anche le leggi razziali del 1938 erano parte di una strategia fascista di avvicinamento alla Germania nazista. La costituzione della Rsi e l'approvazione della cosiddetta 'carta di Verona' legittimarono le persecuzioni degli ebrei italiani, già avviate d'altra parte dai tedeschi. Il 30 novembre 1943, il Ministro degli Interni Buffarini-Guidi emanò l'ordine di polizia n° 5, che dava disposizione ai capi delle province affinché riunissero 'gli ebrei in campi di concentramento provinciali in attesa di essere riuniti in campi di concentramento speciali appositamente attrezzati'.

Il Campo di Fossoli fu considerato il più adeguato per essere trasformato in campo di concentramento speciale. Fino al febbraio 1944, quando il Campo fu ufficiosamente requisito dal BdS (Il Befehlhaber der SIPO & SD era il capo della Polizia di Sicurezza (Sicherheitspolizei und Sicherheitsdienst, solitamente indicate come SIPO & SD) di Verona, i testimoni sono concordi a ricordare una certa umanità nel trattamento subito a Fossoli, chiaro riflesso dell'atteggiamento incerto e ambiguo mostrato dalle autorità italiane nell'applicazione delle leggi razziali. Il passaggio ufficiale del Campo nelle mani dei tedeschi avvenne ufficialmente il 15 marzo, anche se la presenza di un reparto di SS già dal mese precedente à testimoniata da Primo Levi (Se questo è un uomo, Einaudi, 1986, pag. 14).

La direzione italiana fu trasferita nel Campo Vecchio con gli internati non ebrei, mentre gli ebrei, sotto la giurisdizione tedesca, erano prigionieri nel Campo Nuovo.

Nel Campo italiano erano internati prigionieri della R.S.I. non destinati alla deportazione come antifascisti, partigiani, detenuti comuni, genitori di renitenti alla leva, civili di nazionalità nemica. Le testimonianze permettono di pensare che le condizioni di vita non fossero particolarmente penose: gli appelli di controllo erano rari, erano possibili le visite e il ricevimento dei pacchi di corrispondenza e il lavoro non era obbligatorio.

Nel Campo tedesco, invece, erano internati ebrei e prigionieri politici destinati alla deportazione, alloggiati in due settori separati dallo stesso reticolato che cingeva il campo.

Le condizioni di vita peggiorarono nel maggio del 1944, con un particolare irrigidimento della disciplina. Punizioni e maltrattamenti erano quotidianamente inflitte ai prigionieri, ma il momento più drammatico fu sicuramente il 12 luglio 1944 quando, forse per rappresaglia, le SS trucidarono al poligono di tiro di Cibeno (Carpi) 67 prigionieri. Altro martire del Campo fu l'avvocato Leopoldo Gasparotto, dirigente del movimento clandestino dell'Alta Italia.

Già prima del marzo '44, comunque, Fossoli era attivo come centro di smistamento per la deportazione nei Lager di Auschwitz, Bergen-Belsen, Ravensbruck, Buchenwald e Mathausen: risalgono infatti a febbraio le prime partenze di prigionieri dalla stazione di Carpi, destinati ai campi di sterminio.

E' documentata la partenza di più di 3800 prigionieri nell'arco di appena 6 mesi, ma congetture, basate sul materiale documentario relativo alla fornitura quotidiana di pane, permettono di ipotizzare che circa 4925 prigionieri transitarono da Fossoli, destinati ai campi tedeschi. Nel luglio 1944 il Polizei und Durchgangslager fu trasferito a Gries, nelle vicinanze di Bolzano (per notizie sul Campo di Gries, vedasi il testo 'Orgogliosi di essere Rom e Sinti', di Mario Abbiezzi e Ernesto Rossi, con scritti di Carlo Cuomo, CGIL Regione Lombardia). La deportazione del 2 agosto concluse l'attività del campo di transito di Fossoli.

In seguito, fino al novembre 1944, il Campo svolse la funzione di 'Centro di raccolta e smistamento della manodopera', poi trasferito a Gonzaga. Nel dicembre 1944 il Campo, seppur abbandonato, era ancora controllato dai tedeschi.


L'eccidio del 12 luglio 1944

La sera dell'11 luglio 1944, il sottufficiale delle SS Haage legge l'elenco dei prigionieri destinati al trasferimento al 'nord'.

Il mattino seguente tre autocarri portano li portano in tre scaglioni al Poligono di tiro di Cibeno.

Due condannati - Mario Fasoli e Eugenio Jemina - riescono a fuggire: questa fuga ha permesso di scoprire cosa veramente accadde quel giorno, verità che altrimenti sarebbe rimasta nascosto per chissà quanto tempo. Un altro prigioniero è graziato, 'come loro abitudine' dice l'Avanti!, sul luogo dell'esecuzione. Quasi un anno dopo, il 17 e il 18 maggio 1945, vengono esumati i cadaveri delle vittime dell'eccidio, riconosciute o da parenti o da documenti che portavano addosso. Al momento quattro salme rimasero non identificate: l'identificazione avvenne solamente in seguito.


Documenti su Gasparotto e sull'attività del Campo di Fossoli

Der Befehlshaber

der Sichereitpolizei u. des SD

in Italien

Carpi, 23/6/1944

Es handelt sich hier um einen Toten der als Gefangener auf der Flucht erschossen wurde. Um die Beerdigung desselben wird gebeten.

SS Untersturmführer

F.to Fritz

Certificato

Si tratta di prigioniero ucciso, in fuga. Si prega di seppellirlo. Questo avviso vale come certificato di morte.

 

MUNICIPIO DI CARPI

Ufficio di Polizia Mortuaria

verbale di sepoltura di persona sconosciuta

L'anno MILLENOVECENTOQUARANTAQUATTRO, in questo giorno ventitrè (sic) del mese di giugno, alle ore otto, si è presentato al cimitero di Carpi un incaricato del Comando Tedesco del Campo di Concentramento di Fossoli, chiedendo di dare sepoltura alla salma di un internato ucciso da colpi di arma da fuoco, durante un tentativo di fuga.

Il comando a richiesta fatta da questo ufficio si è opposto dal dare indicazione relativa alle generalità del deceduto e la salma stessa era priva di ogni documento atto alla sua identificazione.

La salma rinchiusa in cassa d'abete acquistata dallo stesso Comando del Campo di concentramento, è stata sepolta nel campo N. 7 del Cimitero di Carpi al cippo n. 551 presenti i testi che qui si sottoscrivono. (Campo sette, cippo numero cinquecentocinquantuno).

Unico documento, la richiesta del Comando del Campo redatta in tedesco e tradotta in italiano richiedente la sepoltura della salma che viene allegata alla copia di questo verbale che resta agli atti del Comune.

Il presente verbale redatto in quattro copie, delle quali una resta agli atti del Comune, una all'ufficio di Polizia Mortuaria, una all'ufficio di Stato Civile e una al custode del Cimitero.

Carpi, 23 giugno 1944

TESTI:

- Malagoli Amilcare - Direttore Uff. Pol. Mortuaria F.to Malagoli Amilcare
- Galli Dante - Custode Cimitero F.to Galli Dante
- Munarini Vittorio - Fossaiolo F.to Munarini Vittorio

Visto: L'UFFICIALE SANITARIO IL COMMISSARIO PREFETTIZIO

F.to Benassi F.to Artioli

COMUNE DI CARPI

Si porta a conoscenza della Cittadinanza che, per ordine del Comando Superiore Germanico, i sottoelencati sono stati fucilati stamattina all'alba per espiazione, a seguito di atto di sabotaggio verificatosi sulla ferrovia Carpi-Mantova in località Fossoli, che ha costato la vita a due soldati Tedeschi e causato gravi ferite a cinque altri:

1) GALLIANI ROBERTO fu Casimiro ' Classe 1900 ' residente in Carpi

2) MONTANARI ORLANDINO fu Patrizio ' Classe 1913 ' residente in Carpi

3) PANTERI GIUSEPPE fu Antonio ' Classe 1893 ' residente in Carpi

4) PASCALE VITO fu Nicola ' Classe 1906 ' residente in Carpi

5) DIACCI RINO di Enrico ' Classe 1910 ' residente in Migliarina di Carpi

6) MISELLI UGO di Tranquillo ' Classe 1914 ' residente in Cibeno di Carpi

Il Comando Germanico fa affidamento allo spirito di comprensione e di disciplina della popolazione tutta, e si augura che l'atto increscioso sia l'ultimo compiuto; invita inoltre ad assecondare le Forze di Polizia allo scopo di individuare i veri colpevoli.

Si esortano i Cittadini a mantenersi calmi e a non commettere comunque atti di sabotaggio contro le Forze Armate Germaniche: atti che provocherebbero provvedimenti sempre più gravi.

Dalla Residenza Municipale, addì 25 Giugno 1944 - XXII

IL COMMISSARIO PREFETTIZIO

Dott. DE MARZI

Nota di persona non identificata: Pascale, ex carabiniere che disertò dai CC. e si nascose, fu vittima di una spiata: gli altri erano antifascisti, già noti per essere stati al confino; fu fatto deragliare un treno esplodendo una mina sui binari la notte fra il 23 e il 24; quella notte cercarono invano per fucilarli invece dei 6 Darfo Dallai, i fratelli Sbrillanci, Primo Garuti e altri noti antifascisti.

Ordine di sgombero della zona del tiro a segno dove avvenne l'eccidio del 12 luglio

Bescheinigung

Es wird hiermit, dass der Schiesstand Carpi vom 11.7.44, 13 Uhr bis 13.7.44, 13 Uhr von allen Zivilpersonen für die Deutsche Wermacht geräumt sein muss.

Im Auftrage:

(firma illeggibile)

Der Ortskommandant

Dichiarazione

Che il tiro a segno di Carpi deve essere sgombrato di tutte le persone civili dall'11.7.44 ore 13, al 13.7.44 ore 13, per le Forze Armate Tedesche.

Per l'ordine:

(firma illeggibile) Ortskommandant

Per copia conforme all'originale

Carpi, li 12 Luglio 1944 - XXII

IL PRESIDENTE

(Lugli cav. Giorgio)

F.to Giorgio Lugli


Il Partito d'Azione in breve

Abbiamo ritenuto opportuno unire alla biografia di Poldo Gasparotto una breve storia del Partito d'Azione nel quale Gasparotto militava, per dare un quadro d'insieme e di riferimento a quanti, leggendo della vita del partigiano ucciso dai fascisti a Fossoli, avessero la 'curiosità di capire in quale contesto e quale riferimento ideologico muoveva Poldo Gasparotto.

A partire dal Liceo Berchet, per poi risalire nella vita di Poldo, ci pare indispensabile tessere la sua biografia con la storia del Partito d'Azione, quale trama e ordito di un unico percorso, per poter comprendere quell'unico 'pezzo di stoffa', rappresentato dalla storia che a partire dagli anni Quaranta termina con la morte di Gasparotto, ma che 'finisce', se così ci si può esprimere, con la Liberazione e con la nascita della nostra Repubblica.

Il proclama che riportiamo, datato 15 giugno 1945, è il frutto di tutta una stagione dei partigiani milanesi, alla cui maturazione contribuì con il pensiero e la vita Poldo Gasparotto.

PROCLAMA DEL COMANDO GENERALE A TUTTI I PARTIGIANI ALL'ATTO DEL SUO SCIOGLIMENTO

Milano, 15 giugno 1945

Partigiani!
Dopo venti mesi di cospirazione e di lotta, il Comando generale del Corpo volontari della libertà si scioglie con la data di oggi, chiudendo così il ciclo della smobilitazione.
In questo momento il pensiero di tutti si rivolge commosso e riverente ai caduti, ai martiri delle galere, ai valorosi combattenti che dalla prima ora hanno contribuito alla liberazione della Patria. Il Comando generale, nel lungo e faticoso periodo della lotta, ha dato quanto umanamente possibile. Obbligato a vivere di vita clandestina, stretto nelle maglie di una polizia feroce che non dava tregua, esso ha operato tra molteplici difficoltà, a voi collegato da fili impalpabili e a volte discontinui. Più che vera e propria azione di comando, ha esercitato azione di coordinamento, tuttavia alimentando senza tregua la fiamma della passione, bandendo tenacemente la lotta senza quartiere e senza compromessi e conferendo alla lotta stessa il carattere unitario proprio di una nazione che combatte per la libertà.

Legittimo titolo d'orgoglio è quello di essere stato in prima linea, onore purtroppo pagato a duro prezzo con la morte di componenti: Gasparotto, Citterio, Vercesi, con le sofferenze di innumerevoli collaboratori finiti nelle carceri o deportati nei campi tedeschi, dai quali ancora non sappiamo quando torneranno.

Partigiani!

All'atto della smobilitazione si è fatto ogni sforzo per ottenere il giusto riconoscimento del vostro sacrifizio, per ridare a ognuno di voi la possibilità di riprendere la vostra vita nella pace e nel lavoro.

Non sempre questi sforzi sono stati coronati da successo. Circostanze indipendenti dalla nostra volontà lo hanno spesso impedito. L'Associazione nazionale partigiani continuerà in questa opera. Ma la ricompensa maggiore sta nella coscienza di avere compiuto tutti insieme, combattenti delle montagne e delle città, il nostro dovere di italiani.

Idealmente continueremo a marciare uniti sulle vie della riconquistata libertà per ridare alla nostra Patria non solo il benessere materiale e spirituale, ma anche quella giusta considerazione che possa farle riprendere degnamente il suo posato tra i popoli liberi e civili.

Viva l'Italia libera e democratica!

Luglio 1942, nasce il Partito d'Azione, ne è segretario Leo Valiani. Riccardo Lombardi (che sarà il primo Prefetto della Milano liberata), aderisce subito al Partito d'Azione, diventando tra i promotori un personaggio di spicco, partecipa alla lotta di liberazione con il nome di battaglia di Rio, prende tale decisione in quanto ritiene che l'esperienza del Partito socialista fosse tragicamente finita con l'avvento del fascismo. 'A Milano si giunse prestissimo alla definizione degli organismi dirigenti della sezione locale con Zanotti, Paggi, Boneschi, R. Lombardi e Poldo Gasparotto. Le sedi di riunione erano casa Damiani, casa Andreis, gli uffici della Banca commerciale (nelle sue casseforti furono custodite le bozze del primo numero de "L'Italia libera"), il bar Cova. Contatti "di base" esistevano con l'Alfa Romeo e la Bianchi di sesto San Giovanni (Mario Damiani), e con la Magneti Marelli (Alberto Damiani)): ma a Giuliano Pischel, che al PdA aderì nel settembre 1942, il partito sembrava orientato prevalentemente verso l'alta borghesia "era la reazione della borghesia industriale al corporativismo e all'autarchia" e le classi medie "quasi uno strumento di espiazione per il complesso di colpa dei ceti medi". Particolarmente intensa era (...) l'attività verso le forze armate legata a Poldo Gasparotto, ex ufficiale degli alpini [...].'

(Da Storia del Partito d'Azione 1942 - 1947, Giovanni De Luna, Feltrinelli, Milano 1982)

Riccardo Lombardi, già membro, dalla nascita nel 1930, del movimento 'Giustizia e Libertà', sorto su iniziativa dei fratelli Carlo e Renzo Rosselli e di Emilio Lussu, fu tra i fondatori del Paritito d'Azione al quale diede un notevole contributo Ferruccio Parri (che sarà il primo presidente del Consiglio dopo la Liberazione).

Nel 1943, Lombari per il partito scrisse un volumetto dal titolo 'Il Partito d'Azione - Cos'è e cosa vuole' che venne pubblicato nel mese di dicembre dello stesso anno.

'Il PdA è un partito nuovo: non solo per il nome, ma soprattutto, perché i suoi iniziatori ritengono che le vecchie formazioni politiche italiane, siano di destra che di sinistra, qualunque siano state le varie benemerenze passate, hanno esaurito la loro funzione e sono per conseguenza inadeguate per le loro ideologie, per i sistemi organizzativi, per i metodi di lotta e i ceti sociali cui sono tradizionalmente legate ad assumersi i compiti di una rivoluzione costruttiva e rinnovatrice dalla quale ultima dipende strettamente la possibilità stessa di esistenza di un'Italia libera, progressiva, prospera e ordinata. Le vecchie formazioni politiche subirono durante il ventennio trascorso una serie di memorabili sconfitte, la cui analisi ci persuade essere esse incapaci di affrontare i nuovi compiti con diverse prospettive: questa critica investe tutta la classe politica, della quale i partiti sono le espressioni organiche, e ci avverte dell'urgenza del suo rinnovamento radicale, rinnovamento solo possibile mercé l'immissione risoluta nella vita politica, amministrativa, economica, culturale, di nuove forze provenienti dai ceti popolari che fin oggi ne sono stati esclusi di fatto.

Il compito storico del PdA è di guidare ordinatamente il Paese nelle condizioni difficili della sua storia moderna, a questa operazione rinnovatrice che equivale a un vero e proprio passaggio di poteri dalle mani della vecchia classe dirigente autocondannatasi per passività, incapacità e difetto di energia morale anche se dotata di esperienza tecnica di governo, a quelle della nuova classe politica [...] Esso vuole innovare in profondità la vita sociale e politica italiana riformandone la struttura e incidendo spietatamente negli istituti decrepiti, parassitari o corrotti e conservando e potenziando i principi tuttora vivi, sani e progressivi [...].

La perequazione dei patrimoni e la democratizzazione dell'economia.

E' questa la cerniera e, nello stesso tempo, il fulcro del sistema di riforme sociali proposto dal PdA; senza di esso le restanti riforme perderebbero buona parte della loro organicità. L'opera di ricostruzione dovrà iniziarsi con una grande provvedimento riparatore che dia a tutti il senso preciso del nuovo clima di giustizia: non basta però che un provvedimento sia ispirato a una giustizia astratta: occorre ancora che esso sia equo, che rispetti gli interessi legittimi, che non distrugga ricchezze, che sia economicamente progressivo. La riforma da noi proposta, pur nel suo radicalismo, e nella sua semplicità di linee, è ben tollerata dall'essere un espediente demagogico diretto a soddisfare rancori e a perseguire responsabilità di classe: essa è una grande opera di giustizia e, nel tempo stesso, di progresso economico e sociale. I patrimoni comunque costituiti, proprietà industriali, agrarie, forestali, commerciali, azioni di societè anonime, titoli di rendita privati e pubblici, verranno confiscati senza indennità per tutta la parte eccedente una quota base; cioè l'ammontare del massimo patrimoniale consentito, verrà stabilito col criterio della sufficienza ad assicurare una media agiatezza familiare; esso non potrà essere fissato se non al momento della traduzione in legge della riforma, per tener conto del valore della moneta. Allo scopo di tutelare il risparmio costituitosi precedentemente alla guerra, i valori di risparmio di documentata formazione precedente a una data da stabilire, verranno rivalutati in modo da sottrarli alla svalutazione della moneta (il piccolo risparmiatore, ad esempio, che prima della guerra possedeva un libretto di risparmio di 10.000 lire, riceverà un titolo di risparmio che tenga conto dell'avvenuta svalutazione della moneta di 15 o di 20.000 lire). Alla determinazione della quota base di patrimonio consentita, e non confiscabile, concorreranno tutti gli elementi costitutivi del patrimonio, ad eccezione, ovviamente, degli oggetti di arredamento, vestiario e simili aventi carattere personale o familiare. I titoli di debito pubblico verranno annullati totalmente o per quella parte consentita dall'ammontare dei patrimoni confiscati: i detentori di titoli di debito pubblico, per la parte eccedente la quota base, non riceveranno indennità di sorta mentre per la parte corrispondente alla quota base, riceveranno, in cambio dei titoli di debito pubblico, titoli di partecipazione ad attività patrimoniali provenienti dal fondo patrimoni confiscati. Ciascuna azienda, impresa o ditta, non verrà sminuita nella sua consistenza tecnica ed economica: avverrà solo una parziale ridistribuzione dei titoli di proprietà e ciascuna ditta, ad eccezione del ristretto settore da nazionalizzare, sarà gestita dai possessori dei titoli di compartecipazione. Saranno esentati dalla confisca gli enti morali e di beneficenza [...].'

Il Partito d'azione e la sua pubblicazione

'Il primo numero de l'Italia libera era già allestito nel novembre 1942, anche se sopravvenute difficoltà logistiche ne differirono la pubblicazione al gennaio 1943; con il testo dei "Sette Punti" erano stati stampati un messaggio agli italiani (di R. Lombardi e dei fratelli Damiani) ed un articolo di presentazione, Chi siamo, scritto da La Malfa. Gli appelli all'azione diretta erano ancora generici: "in un comune slancio abbracciate le decisioni che l'ora esige ed impone"; le parole d'ordine (pace immediata, decadenza del regime autoritario, libertà politiche e civili) slegate da ogni indicazione operativa; molto esplicita era invece la caratterizzazione politica del nuovo partito: rivendicando una ideale continuità con l'antifascismo democratico di Amendola, Gobetti e Rosselli (si avvertiva però che il "PdA non è la continuazione di nessuno di tali movimenti, ma tutti li comprende e li supera, in un disegno ed in un'azione politica più ampi, più decisi, più radicali"), venivano accentuati tutti gli elementi liberali delle loro proposte politiche fino ad affermare che per Gl "sia la nuova istituzionale soluzione, sia il nuovo ordinamento sociale (...) dovevano fondarsi stabilmente sulla garanzia di un assetto liberale, il solo idoneo ad assicurare una consapevole ed ardita esperienza democratica". Le tremila copie del giornale furono rapidamente diffuse, partendo dall'Italia meridionale per allontanare i sospetti della polizia dalla centrale milanese, con la mobilitazione di tutte le sezioni già in attività, Bari, Napoli, Roma, soprattutto, Bologna, Torino, spezzando un lungo attesismo cospirativo; l'iniziativa, in una fase in cui l'Unità era il solo giornale pubblicato da un partito antifascista, era di vasta portata organizzativa e politica, tale da incuriosire e allarmare lo stesso apparato repressivo fascista. L'Ovra si confrontava con un avversario inedito, giudicato pericoloso perché in grado di "infiltrarsi nell'aristocrazia", sostenuto da "appoggi finanziari largamente elargiti" dalla Banca commerciale, con simpatie e consensi in ambienti sociali solitamente refrattari alla cospirazione del ventennio.'

(Da Storia del PdA 1942 - 1947, cit.)

'Inoltre, è ancora il Partito d'azione, che pone agli altri partiti del Clnai, il problema politico della riorganizzazione dello Stato post-fascista, nei suoi punti ritenuti allora essenziali' e già indicati in una lettera di Leo Valiani del 30 aprile 1944 alla cui stesura avevano partecipato Riccardo Lombardi, Altiero Spinelli e Vittorio Foà.

Sul Partito d'Azione e gli Altri, Emilio Lussu, Mursia)

'Nell'orientamento complessivo del partito tendevano, però a prevalere altri criteri, più definiti nel sociale, strettamente legati alle indicazioni sulla "piccola borghesia tecnica" come parte "sana" dei ceti medi; ai "tecnici" avevano infatti guardato con favore gli stessi giellisti nelle loro tesi consiliari, assumendoli come il cardine di un processo di unificazione tra strati sociali "diversi" che nella fabbrica, direttamente a partire dalla loro collocazione produttiva, aveva, con i consigli, la sua forma politica espressa più compiutamente. A partire dall'estate 1944, con il progressivo abbandono delle ipotesi consiliari e l'emergere della consapevolezza dell'impossibilità politica di quel tipo di sintesi sociale, l'attenzione per i tecnici divenne esclusiva, la teorizzazione di una loro funzione di avanguardia sempre più convinta. Tra le critiche vivacissime dei residui settori operaisti del partito fu allora varata a Milano (con l'avallo dello Esecutivo Alta Italia del PdA) un'Unione tecnici italiani con lo scopo di raccogliere tutti coloro che svolgevano "una professione tecnica, sia come liberi professionisti, sia come dipendenti delle aziende industriali", organizzandoli a partire dai loro interessi particolari, intorno ad un programma con forti accentuazioni "tecnocratiche" ("promuovere il progresso della tecnica e stimolare i tecnici italiani a raggiungere il più alto grado di perfezionamento, riunendoli e fondendone gli interventi allo scopo di porre la tecnica al servizio della collettività [...] per assicurare alla tecnica, nel quadro delle nuovo istituzioni che regoleranno il paese la funzione che le compete"). Nel comitato direttivo dell'Uti entrarono dirigenti azionisti di prestigio (Lombardi, Savelli) e, dopo la Liberazione, si cercò di estenderla da Milano al resto d'Italia ['].'

(Da Storia del PdA 1942 - 1947, cit.)

Il Partito d'Azione nel 1946 e 1947

Marzo 1946, scissione nel Partito d'azione, Riccardo Lombardi viene eletto segretario del partito all'unanimità. Il partito è diviso in varie e anime e 'per "correnti" che nel partito portava a coesistere l'attenzione ad "una democrazia parlamentare e riformistica, che riconosce i suoi organi esclusivamente nel meccanismo di governo (Paggi) ed il suo massimo mezzo propulsivo e realizzare nell'azione generale del manovratore politico, del demiurgo (La Malfa), con quella per una "democrazia basata sull'iniziativa e sul controllo popolare, capace di mantenere il contatto permanente con le esigenze popolari, decise a realizzare un rinnovamento profondo dal basso.'

(Da Un partito e un congresso, in Nuovi Quaderni di Gl, a. 1946, n. 3)

'Per la "destra" azionista si trattava di razionalizzare i poteri statali e garantire l'effettivo funzionamento degli istituti, dando quindi per scontata una rigorosa continuità degli assetti istituzionali; la democratizzazione giuridica della forma stato appariva secondaria, mentre si riteneva essenziale il suo adeguamento alle profonde trasformazioni della società, la sua apertura verso nuovi soggetti sociali, la sua efficacia nell'istituzionalizzare e valorizzare il "conflitto". La consapevolezza diffusa della crisi dell'ideologia liberale si arrestava, in questo caso, alle soglie della riconsiderazione critica della sua espressione statuale (...).'

(Da Storia del PdA 1942 - 1947, cit.)

Agosto 1947, a Roma si svolge il Congresso del Partito d'azione. Lombardi tenta una mediazione per evitare il declino e la spaccatura del partito tra Ugo La Malfa, che rappresenta l'anima repubblica repubblicana e Emilio Lussu, che rappresenta la corrente socialista, senza riuscirvi. 'Porto a nome del Pci il saluto al Congresso del Partito d'Azione. Il mio saluto è in chiave polemica con Riccardo Lombardi, allora segretario del Partito d'Azione in crisi. Fu quello l'ultimo congresso del Partito d'Azione che poi si sfasciò (...).'

(Dall'Archivio Pietro Secchia 1945 - 1973 , a cura di Enzo Collotti, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli)

'Dopo la pausa estiva, di una confluenza nelle file socialiste si era ricominciato a parlare in occasione degli incontri Lombardi - Morandi nei giorni della "crisi Corbino" e già allora, in seno al Comitato centrale, (22 - 24 settembre 1946) i soli Codignola e Garosci si erano pronunciati a favore dell'autonomia, contrastando duramente le tendenze fusioniste particolarmente vive in Lussu e Valiani; al "centro" si erano collocati Foa e Lombardi che, pur senza escluderne completamente l'eventualità, si limitarono a considerare la fusione inattuabile nei tempi brevi. Fu votata così una mozione che, nel recepire questa posizione, lasciava comunque piena libertà ai singoli di propagandare o meno il progetto filo-socialista nel partito.' Dopo le elezioni del 10 novembre 1946 era subentrato un vero sconforto generale tanto che circolava la frase tra i delegati di essere "un club di amici". 'Le antiche diffidenze per il "marasma interno" del Psiup, e soprattutto per il ricorrente "compromesso giolittiano" che ispirava la sua politica, sopravvivevano intatte in tutti gli azionisti che rivendicavano con orgoglio i motivi della scelta, fatta nel '42, per un "partito nuovo" in grado di avviare una rifondazione del socialismo, fuori dei condizionamenti di una tradizione storica intrisa di riformismo, di oscillazioni massimaliste, di "cadute" e di errori; le divergenze tra "fusionisti" e "antifusionisti" riguardavano piuttosto l'opportunità o meno di un tentativo per modificare dall'interno i "difetti storici" del partito socialista, ed entrambi guardavano quindi con la massima attenzione ai suoi fermenti, pronti a cogliere l'emergere di un eventuale "fatto nuovo" a cui legare le proprie tesi. (...) ( Sintesi dell'intervento di LOMBARDI, in Verbale del Congresso regionale, Firenze 23-24.25 novembre 1946 N.d.R.) 'La scissione di Palazzo Barberini (11 gennaio 1947) fu in questo senso decisiva per la "partecipazione" del dibattito nel PdA. Fin dalle prime avvisaglie della frattura interna allo Psiup (l'acuirsi della polemica Saragat-Nenni a ridosso dei deludenti risultati delle elezioni amministrative del 10 novembre), gli azionisti avevano fatto tutto quanto era in loro potere per scongiurarla, considerandola una catastrofe per tutto lo schieramento democratico, indebolito in quel nucleo socialista che ne rappresentava l'unica garanzia di sopravvivenza (...). In questo quadro, per la "autonomia" del PdA non c'era più alcuna giustificazione: tutte le prospettive politiche su cui il partito si era impegnato nell'ultimo anno (il "condizionamento", l'unità delle sinistre, il progetto di una "terza forza" socialista, ecc.), potevano con molta più efficacia essere rilanciate all'interno del nuovo partito o comunque di una organizzazione politica più ampia di quella rappresentata dal PdA: "negli stati moderni i grandi partiti hanno assunto una importanza e una funzione costituzionale, sono diventati dei veri e propri parlamenti in prima istanza (...) unici strumenti che permettono realizzazione concrete; che quindi l'esperienza specifica del PdA dovesse finire era un giudizio comune a tutto il gruppo dirigente azionista: le divergenze, se mai, riguardavano i diversi orientamenti verso l'uno o l'altro dei due tronconi socialisti.' (Questa amara sconfessione della vecchia linea "antipartito" della "rivoluzione democratica" di LOMBARDI (in: Direzione generale del PdA, A tutti i compagni del partito, Roma 30 gennaio 1947 N.d.R.) 'Anche coloro che con più determinazione si impegnarono fino all'ultimo per la sopravvivenza autonoma del PdA, lo fecero non tanto per fiducia nelle sue possibilità di ripresa, quanto semplicemente in funzione strumentale, per contrastare il delinearsi della vittoria dell'uno o dell'altro schieramento (...). Nella prima riunione del Comitato centrale del PdA dopo la scissione socialista (25-26-27 gennaio 1947), si confrontarono, così, due "correnti identificate soltanto dall'opzione verso il Psdi (Valiani - Codignola) e verso il Psi (Lombardi - Foa), mentre quella di Lussu (che riprendeva il suo vecchio progetto per una "federazione" socialista", aperta a tutti) appariva soltanto come un ennesimo tentativo di compromesso. Nonostante alcune riserve sulle "modalità procedurali" della scissione e su alcuni aspetti politici della fisionomia della formazione saragattiana (gli eccessi anticomunisti, la "mancata presa di posizione sul problema dell'attuale governo e sui rapporti con la Dc", il perdurante contrasto al suo interno tra massimalisti e riformisti), a prevalere fu la scelta favorevole al Psli, a cui l'ordine del giorno conclusivo (votato da tutti i rappresentanti delle federazioni regionali del PdA, con le eccezioni di Calace e dei delegati calabresi, siciliani e milanesi) proponeva (ed era un'offerta di esplicita collaborazione) di affiancarsi al PdA per la fondazione di "un forte partito socialista impegnato nella costruzione della democrazia"' (Le titubanze espresse da LOMBARDI ai segretari regionali e provinciali del PdA, sono contenute in una lettera datata 15 gennaio 1947 ' N.d.R.). 'Non si trattava però di una adesione incondizionata allo "specifico" della proposta saragattiana; a parte i termini protocollari dell'eventuale accordo (e comunque Lombardi ci teneva a precisare che non si parlava di un "assorbimento", ma di una "fusione fra i due partiti con piena garanzia di pariteticit' fino al congresso del partito risultante della fusione stessa"), l'inclinazione per il Psli non era tanto indirizzata alla sua realtà immediata, quanto alle sue potenzialitò future: si à puntato - affermava Lombardi - verso una formazione designata come quella più capace di divenire, anche a nostro mezzo, quello che attualmente non sono né l'uno né l'altro tronco del vecchio partito socialista (...), un partito, cioè, moderno, democratico, autonomo, che si batta per una rivoluzione democratica da operare nella struttura dello stato e nella classe politica dirigente" (...). L'orientamento filo Psli assunto dal Comitato centrale di gennaio fu, così, puntualmente rovesciato al II Congresso nazionale del PdA (...). In realtà, le trattative avviate in gennaio col Psli (...), avevano fino ad allora conseguito risultati modestissimi (...), il partito nenniano si muoveva con maggiore duttilità e spregiudicatezza, avviando, segnatamente con Basso, un'accorta manovra di "agganciamento" nei confronti soprattutto della residua base azionista e di quei suoi dirigenti (Andreis, Cannetta, Fancello, ma anche Lombardi e Foà) che maggiormente avevano avversato la decisione del Comitato centrale di gennaio. [...] Il dialogo andava ripreso (dopo i primi contatti Basso-Fancello, avutisi proprio in occasione delle elezioni amministrative romane), anche con il Psi (richiamato dalla scissione "alla sua essenza e alle sue origini"), con il gruppo di 'Europa socialista' di Silone, con i cristiano sociali, con tutte, insomma, quelle forze interessate ad un progetto di "unificazione socialista" [']. Nonostante i termini sfumati usati nella mozione congressuale il significato della "svolta" era abbastanza palese: l'equidistanza tra Psli e Psi era un fatto puramente formale ed era ormai verso il partito nenniano che si indirizzavano le scelte del Pda.'

( Da Storia del PdA 1942 - 1947, cit. )

'[...]l'abbandono della militanza a livello individuale e la fine del PdA sancirono una conclusione inevitabile e quando, nel 1947-48, si delineò un "blocco dominante" che ripeteva, in funzione antioperaia, la tradizionale alleanza tra classe dirigenti e ceti medi, quei settori sociali che si erano identificati nell'azionismo ne furono assorbiti sotto il segno di una loro sconfitta complessiva. A quel punto gli azionisti, anzi, meglio, i dirigenti del PdA che continuarono a far politica anche dopo la dissoluzione del partito, andavano considerati un "ceto politico" sopravvissuto al crollo del proprio referente sociale e delle stesse condizioni storiche che ne avevano permesso l'affermazione, e autoperpetuatosi in quanto tale: le scelte successive di La Malfa, Lussu, Parri, Foa, Lombardi, ecc. testimoniavano soltanto più la coerenza personale e gli sviluppi politici di singoli percorsi biografici, senza nessun riferimento a quei comportamenti collettivi di cui il PdA era stato espressione nella Resistenza. In questo senso, però, la liquidazione del PdA non coincise con quella della "questione azionista" intesa nei suoi termini essenziali di "questione sociale": il ruolo degli intellettuali nella società moderna e nei rapporti tra le classi, i problemi della dialettica tra integrazione e conflitto riferita in particolare ai nessi tra classe operaia e ceti medi, il tipo di alleanze storicamente determinate che è possibile stabilire tra i settori intermedi della gerarchia economica e produttiva e il proletariato, la stessa generale categoria della "egemonia", tutti i suoi principali elementi, cioè, sopravvissero intatti nella vicenda dell'Italia repubblicana, riproponendosi con drammatica evidenza nei momenti di crisi sociale più acuta quasi a segnare l'attualità e l'interesse di una rivisitazione critica di quella ormai lontana esperienza.'

(Da Storia del PdA 1942 - 1947, cit. )


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