Torna alla pagina principale

 

Il primo personaggio presentato da Todorov è Colombo, lo scopritore dell’America, paradossalmente mai accortosi di averla scoperta, l’uomo che per primo osò sfidare le radicate credenze che descrivevano il tragitto tra Europa ed Asia come immenso, ed il mare popolato di sirene e mostri di ogni tipo.
I primi dubbi su Colombo li abbiamo non appena cerchiamo di capire perché è partito, quali scopi aveva e quali teorie lo hanno convinto a lasciare la Spagna per una terra la cui esistenza appariva ai suoi contemporanei quanto meno dubbia.
Scorrendo le pagine del suo diario di bordo, abbiamo l’impressione che Colombo abbia un unico obiettivo nella spedizione, e cioè l’oro, e che tutto il suo agire abbia questo esclusivo fine; citeremo due passi dal suo diario –la gamma degli esempi è sterminata, ma ci limiteremo, in questo caso come nel resto del lavoro, ad una o due citazioni- il primo dei quali è datato 13 ottobre 1492, il giorno successivo alla scoperta: "Facevo attenzione e cercavo di comprendere se avessero dell’oro"; e ancora: "Decise di andare all’isola che chiamavano Baneque, dove aveva capito da informazioni ricevute che c’era molto oro" (13 novembre 1492).

E’ però sufficiente leggere per intero i suoi scritti per accorgersi che è vero semmai il contrario: a Colombo le ricchezze interessano in quanto ne conosce il valore di esca per gli altri, e sa utilizzarle per tenere legati a sé i suoi uomini durante tutti i viaggi; ad essere interessati alle ricchezze sono i suoi uomini, ma non solo i marinai, anche i gentiluomini che lo accompagnano nei viaggi successivi e gli stessi sovrani spagnoli che hanno finanziato la spedizione.
Malgrado la controversia scoppiata poi tra gli eredi del navigatore e la Corona, a Colombo il denaro interessava relativamente, e solo in quanto faceva parte del riconoscimento del suo ruolo di scopritore: ciò che gli stava davvero a cuore, era la diffusione della fede cristiana in tutto il mondo, come dice egli stesso nel febbraio del 1502: "Spero di poter diffondere il santo nome di Nostro Signore e il Suo vangelo in tutto l’universo".
La religiosità di Colombo non è solo di facciata, ma è autenticamente vissuta, tanto che, ad esempio, egli non viaggiava mai la domenica, e il suo bisogno di denaro è anch’esso al servizio della diffusione del vero Dio: Colombo coltiva il sogno, in ritardo di diversi secoli, di bandire con i denari guadagnati nelle Americhe una nuova Crociata per liberare i luoghi santi di Gerusalemme.
Questa idea è ben documentata dagli scritti personali del navigatore, e ci dà notizie di un uomo niente affatto moderno, ed ancora legato ad un’idea ormai morta nei suoi conterranei europei almeno dal XIII^ secolo: può suonare paradossale che l’America sia stata scoperta da un uomo che ci è difficile definire moderno, a cui i contatti con Dio interessano più di quelli con gli uomini, e con una forma di religiosità ancora di tipo medioevale, e che sia proprio tale scoperta, fatta da un medioevale, a proiettarci nell’età moderna.

Torna all'inizio

La figura di Colombo è però troppo complessa per poter essere abbracciata tutta da un unico aggettivo: da un lato, infatti, egli subordina tutto a un ideale esteriore ed assoluto, la religione cristiana, mentre dall’altro la scoperta della natura, l’attività in cui meglio è riuscito, diviene per lui non un mezzo, ma un fine: per Colombo, come per noi moderni, "scoprire" è un’azione intransitiva: "Voglio vedere e scoprire più terre possibili" (19 ottobre 1492); "Ciò che più desiderava era, a quel che diceva, di fare altre scoperte" (riportato in Las Casas, Historia, I, 146).
Pare perfino che i profitti interessino a Colombo solo secondariamente: ciò che conta sono le terre e la loro scoperta, e si direbbe quasi che tale scoperta sia a sua volta subordinata al resoconto del viaggio stesso: la cosa non ci sorprenda, in un uomo che è partito per l’ignoto per aver letto il racconto di Marco Polo.

Per conoscere meglio la controversa personalità di Colombo, è interessante è un episodio raccontato da Las Casas nella sua Historia, in cui è riportato il diario del terzo viaggio del navigatore: per dimostrare che la terra che aveva scoperto era il continente, e non un’altra isola, dice infatti "Sono convinto che questa è una terraferma […]. Ciò che mi conferma saldamente in questa opinione è questo fiume così grande, e il mare che è così dolce. Sono anche parole di Esdra, libro IV capitolo sesto, là dove si dice che sei parti del mondo sono di terraferma e una parte è acqua […]. Me lo confermarono anche i discorsi di molti indiani cannibali da me catturati in altra occasione, i quali dicevano che a sud del loro paese c’era la terraferma" (Historia, I, 138).
La convinzione di Colombo si fonda dunque su tre argomenti, cioè l’abbondanza di acqua dolce, l’autorità dei libri santi e l’opinione di altri uomini da lui incontrati, e questi argomenti rivelano che il suo mondo si articolava in tre sfere, una naturale, una divina ed una umana, sfere che corrispondono, niente affatto casualmente, ai tre moventi all’origine della conquista: uno umano (cioè la ricchezza), un altro divino (l’espansione del cristianesimo) ed infine uno legato al godimento della natura.
Per noi queste tre sfere non possono essere messe sullo stesso piano, e per giunta Colombo, in questa specifica circostanza, se ha ragione, ce l’ha soltanto in relazione al primo argomento, poiché non capiva nulla di quanto gli indiani dicessero, né questi capivano lui, e per quanto riguarda Dio, noi non consideriamo questo rapporto, come invece chiaramente faceva Colombo, facente parte del mondo della comunicazione; questa "comunicazione" con Dio è però assai importante nel suo mondo concettuale, come dimostra, ad esempio, il suo credere all’esistenza del paradiso terrestre.
Egli ha infatti letto, nell’Imago mundi dello scrittore Pierre d’Ailly che il paradiso terrestre deve trovarsi in una zona temperata oltre l’equatore, e, specie durante il terzo viaggio, continua ad annotare particolari che dimostrano il suo approssimarsi ad esso; riportiamo un brano per noi particolarmente spassoso: "Trovai che il mondo non era rotondo così come viene descritto, ma aveva la forma di una pera, tutta rotondeggiante salvo là dove si trova il picciolo, che è il punto più elevato; oppure aveva la forma di una palla rotonda, su un punto della quale fosse posata una mammella femminile; la parte dove si trovava la mammella era la più elevata e la più vicina al cielo, ed era situata sotto la linea equinoziale in questo mare Oceano, all’estremità dell’Oriente" (Lettera ai sovrani, 31 agosto 1498).
Questa elevazione, descritta come un capezzolo su una pera, diventa un argomento in più per affermare che si tratta del paradiso terrestre; Colombo si comporta analogamente nel caso delle sirene, vedendo che in realtà non si tratta di belle donne, ma rifiutandosi di concludere che esse non esistono, e concludendo invece che in realtà non sono belle come si racconta.

Il modo con cui Colombo interpreta ciò che si trova di fronte, è analogo al modo adottato dai Padri della Chiesa nell’interpretare la Bibbia: il senso finale è dato subito, di primo acchito, e ciò che si cerca è il percorso che collega il senso iniziale (il significato apparente delle parole, nel caso del testo biblico) con quel significato ultimo; egli non è affatto un empirista moderno, poiché l’argomento decisivo non è certo dato dall’autorità, bensì dall’esperienza.
Egli sa già in anticipo cosa troverà, e l’esperienza concreta non viene interrogata per ricercare la verità, ma semplicemente per illustrare una verità che già si possiede prima.

Torna all'inizio

Colombo, tuttavia, non applica sempre questa strategia finalistica, e nell’osservazione della natura rivela, come abbiamo osservato prima a proposito del suo concetto di "scoprire", alcuni aspetti incontestabilmente moderni: egli, anzitutto, è curiosissimo, e per accorgersene è sufficiente leggere qualche pagina del suo diario, in cui si dilunga spesso e volentieri in elaborate descrizioni degli animali visti e dei loro comportamenti, ed anche in una situazione assai delicata, cioè mentre la sua nave è arenata sulle coste della Giamaica, trova il tempo di descrivere il combattimento di un pecari ed una scimmia.
Se egli è molto attento agli animali ed alle piante, lo è ancora di più a tutto ciò che riguarda la navigazione, e ciò gli permette di compiere delle vere e proprie prodezze, scoprendo nozioni fino ad allora sconosciute, quali la declinazione magnetica, ed inaugurando il sistema di navigazione con le stelle.

Quando però Colombo cessa di essere il navigatore o il naturalista dilettante, ecco che subito la strategia finalistica ha il sopravvento, e tutta la ricerca serve a cercare conferme ad una verità giù conosciuta in anticipo: egli infatti, sebbene impieghi circa un mese a raggiungere l’America una volta lasciate le Canarie, trova già a partire dal 16 settembre gli indizi di cui è alla ricerca, che gli indichino cioè la prossimità della terra: "Qui essi cominciarono a vedere grande quantità d’alghe molto verdi che, come sembrava, non si erano staccate molto tempo prima da terra"; ancora il 18, il 19, il 20 ed il 21 settembre, e poi sempre, tutti i giorni, Colombo avvista segni della presenza della terra, malgrado essa sia ancora distante centinaia di miglia, tanto che vi giungerà solo il 12 ottobre: in mare, tutti i segni indicano la prossimità della terra poiché tale è il suo desiderio.
Analogamente, a terra tutti i segni rivelano la presenza dell’oro, anche se questo non si trova; uno dei suoi corrispondenti, poi, gli aveva scritto nel 1495 che "la maggior parte delle cose buone proviene dalle regioni molto calde, abitate da negri o da pappagalli", e dunque non ci stupiamo che egli faccia sempre notare l’abbondanza di pappagalli, il colore nero della pelle degli indiani e l’intensità del calore: "Dal caldo che dice di aver provato qui l’Ammiraglio arguì che in queste Indie, e là dove si trovava, ci doveva essere molto oro" (Giornale, 21 novembre 1492).

Si può notare lo stesso tipo di comportamento anche nella ricerca del continente: quando gli indigeni gli dicono che Cuba è un’isola, e non il contrario, come egli invece credeva, prima mette in dubbio l’attendibilità della testimonianza ("E poiché sono uomini bestiali, i quali pensano che il mondo intero è un’isola e non sanno neppure cos’è la terraferma, e sono senza lettere e memorie del passato, e non trovano altro piacere che nel mangiare e nello star con le donne, dicevano che quella terra era un’isola []"), e poi fa giurare a tutti i suoi compagni che "quella era senza subbio alcuno la terraferma e non un’isola, e che, continuando a navigare lungo la detta costa, dopo non molte leghe si sarebbe giunti a un paese abitato da gente civile e conoscitrice del mondo []", promettendo a chiunque avesse detto il contrario la pena del taglio della lingua.

Questo atteggiamento non paia strano, poiché se Colombo è giunto a scoprire l’America, è soltanto perché egli "sapeva" che essa ci doveva essere, come testimoniano Las Casas, che dice come egli "aveva sempre pensato in fondo all’animo, quali che fossero le ragioni di questa opinione, che […] alla distanza di settecentocinquanta leghe avrebbe finito con lo scoprire la terra" (Historia, I, 139), e gli stessi sovrani spagnoli, che, in una lettera del 16 agosto 1494, scrivono che "quel che ci avevate annunciato si è realizzato come se l’aveste visto prima di parlarne con noi"; se poi Colombo, nel corso del terzo viaggio, finisce per scoprire il continente vero e proprio, ciò accade perché sta cercando quella che noi chiamiamo America meridionale, convinto che, per ragioni di simmetria, vi debbano essere sulla Terra quattro continenti, divisi in due coppie, la prima formata dall’Europa e dall’Africa, mentre l’Asia è l’elemento settentrionale della seconda.

Ognuno si avvede che questo tipo di interpretazione, fondata sulla prescienza e sull’autorità non ha nulla di moderno, ma tale atteggiamento è compensato, come dicevamo sopra, da un altro a noi più famigliare, cioè l’ammirazione intransitiva della natura, un godimento della natura che non obbedisce ad alcuna finalità: il verde degli alberi diviene così talmente intenso da non essere più verde, ed ogni isola è la cosa più deliziosa che esista al mondo e "tanta era la gioia nel vedere quella vegetazione e quegli alberi e nell’udire il canto degli uccelli, che non avrebbe più voluto allontanarsene per fare ritorno" (28 ottobre 1492).

Per riassumere, dunque, l’osservazione attenta della natura conduce Colombo a tre diversi esiti, cioè all’interpretazione pragmatica nel caso di questioni di navigazione, all’interpretazione finalistica quando i segni confermano le credenze e le speranze già possedute, e a quel rifiuto di ogni interpretazione che è l’ammirazione intransitiva.

Torna all'inizio

Occupandoci ora, invece, della comunicazione umana, dobbiamo premettere che, a differenza dei segni della natura, che sono associazioni stabili, i segni umani, cioè le parole di una lingua, non collegano direttamente un suono (il significante) e l’oggetto (il referente, per intenderci), ma passano attraverso la mediazione del significato.
Colombo, che abbiamo detto essere più portato alla comunicazione con la natura, presta infatti un’attenzione pressoché esclusiva ai nomi propri, cioè a quanto vi è di più simile agli indizi naturali.
Egli poi, nel corso di tutta la sua vita, dedicò al suo nome ed alla sua firma una attenzione quasi feticistica: non solo infatti cambiò il suo cognome in Colòn (che significa ripopolatore) ed il suo nome in Cristòbal (cioè portatore di Cristo), convinto che, come diceva Aristotele, i nomi dovessero convenire alle qualità e agli usi delle cose, ma addirittura impone la sua firma, così complessa che non siamo ancora giunti a penetrarne il segreto, ai suoi discendenti.

È perciò assai naturale che Colombo si dedichi con grande vigore, quasi da novello Adamo nel paradiso terrestre, ad assegnare ai luoghi che incontra i nomi "giusti": il battesimo dei luoghi segue l’ordine di importanza degli oggetti assegnati a quei nomi, e dunque, se la successione è Dio, la Madonna, il re di Spagna, la regina, l’infanta erede al trono, la prima isola è chiamata San Salvador, la seconda Santa Maria de la Concepciòn, la terza Fernandina, la quarta Isabela e la quinta Juana.
Colombo sa benissimo che quei luoghi hanno già dei nomi, che sono in un certo senso più naturali, ma egli vuole attribuire i nomi "giusti", e contemporaneamente, attraverso il battesimo, prenderne possesso; la sua furia nominatrice raggiunge in certi giorni livelli incredibili: "Navigò verso est verso un capo che chiamò "Bel Prado", a quattro leghe di distanza. Da qui verso sud-est c’è una montagna che chiamò "Monte de Plata" […] il capo che chiamò "del Àngel" […] il promontorio che chiamò "del Hierro" […] il promontorio che chiamò "Punta Seca" […] il capo che chiamò "Redondo", e da lì, verso est c’è Capo Francés" (11 gennaio 1493).

Se egli pare preoccuparsi molto dei nomi propri, vediamo che invece è assai poco interessato agli altri settori del vocabolario, e mostra la sua concezione ancora ingenua del linguaggio, confondendo sempre i nomi con le cose che essi designano, senza che gli si riveli, per un attimo solo, tutta la dimensione della intersoggettività, del valore reciproco delle parole, cioè del carattere umano, e dunque arbitrario dei segni; non a caso, infatti, appena appresa la parola indiana "cacicco", Colombo non cerca di capire che cosa esattamente significa nella gerarchia degli indiani, ma si preoccupa di trovare a quale parola spagnola essa corrisponda: "L’Ammiraglio sino ad allora non era stato in grado di capire se con questa parola intendessero re o governatore. Essi usano poi un’altra parola per dire "grande", cioè "nitayno", ma egli non capì se in tal modo chiamassero un hidalgo, un governatore o un giudice": egli non dubita che anche gli indiani distinguano, come gli spagnoli, tra un gentiluomo, un governatore o un giudice.

Torna all'inizio

Una volta mostrato come gli uomini, nella concezione della comunicazione di Colombo, non abbiano un ruolo a parte, non desta affatto meraviglia la scarsa attenzione che egli dedica alle lingue straniere: la sua convinzione della vicinanza dell’Europa all’Asia, e dunque circa la praticabilità della sua impresa, è anzi basata proprio su un malinteso linguistico, cagionato dal fatto che, Colombo, mentre tutti quanti pensano, peraltro giustamente, che la distanza sia insuperabile per via occidentale, prende come autorità un celebre astronomo arabo, che fornisce una misura della circonferenza terrestre abbastanza esatta, esprimendola però in miglia arabe: esse sono superiori di un terzo alle miglia italiane cui egli è abituato, e dunque la distanza gli appare non eccessiva.
Ecco ancora una dimostrazione di come Colombo non riesca a concepire che neppure le misure siano un fatto convenzionale, così come le parole di una lingua.
Trovatosi di fronte ad una lingua diversa, egli non può fare altro che riconoscere che è una lingua e rifiutarsi di credere che sia diversa, o ritenerla diversa ma negare che si tratti di una lingua: è proprio quest’ultima la sua reazione all’incontro con gli indiani, tanto che scrive nel suo diario, il 12 ottobre, che "A Nostro Signore piacendo, al momento della partenza porterò sei di questi uomini alle Vostre Altezze, così che possano imparare a parlare"; in seguito ammette che gli indiani abbiano una lingua, rifiutandosi però di crederla diversa, e continuando a trovare nei loro discorsi parole famigliari e rimproverandoli per la loro cattiva pronuncia.

Il risultato di tutto ciò fu che, durante il primo viaggio, vi fu una totale incomprensione fra spagnoli ed indiani, fatto peraltro non scandaloso e che non ci sorprenderebbe affatto, se però Colombo non pretendesse di capire quanto gli veniva detto fornendo contemporaneamente le prove della sua incomprensione: ad esempio, egli scrive il 24 ottobre 1492: "A mezzanotte salpai l’ancora […] per raggiungere l’isola di Cuba, che questa gente mi dice essere molto grande ed avere molto commercio; dicono anche che in essa si trova molto oro e spezie e grandi navi e molti mercanti", per poi aggiungere poche righe dopo "Io non conosco la loro lingua": ciò che egli sente dire, dunque, non è altro che il riassunto dei libri di Marco Polo e Pierre D’Ailly.

Gli esiti negativi nella comunicazione umana non sono però attribuibili solo all’ignoranza della lingua, dato che le cose non migliorano nei rapporti con gli europei: Colombo, ad esempio, commette sulla via del ritorno l’errore di fidarsi di un capitano portoghese, trovandosi così con la ciurma messa agli arresti e non riuscendo, da grossolano dissimulatore qual era, ad attirare sulla sua nave quel capitano, per arrestarlo a sua volta; egli commette gli stessi errori circa gli individui che lo circondano, fidandosi di persone che presto gli si rivolteranno contro e diffidando invece di quanti gli sono seriamente devoti.

La comunicazione umana non riesce bene a Colombo perché non gli interessa, così come bene si evince da questo passo: "Neppure li capiva bene né loro capivano bene lui, e dice anche che essi avevano la più gran paura del mondo del popolo di quest’isola. Per parlare con essi l’Ammiraglio avrebbe dovuto fermarsi qualche giorno in questo porto, ma non lo fece, perché voleva esplorare molte terre e temeva che il bel tempo non continuasse" (6 dicembre 1492): in queste frasi sono espresse tutte le sue idee, a cominciare dalla sommaria percezione che egli ha degli indiani, alla incomprensione che ha della loro lingua, fino alla preferenza che egli ha per le terre rispetto agli uomini, uomini che sono nominati solo perché sono anch’essi, in fondo, parte del paesaggio, come dimostra il fatto che i suoi accenni agli abitanti delle isole sono inframmezzati alle sue notazioni sulla natura, come ad esempio in questo passo, scelto tra un gran numero di altri: "Continuamente in queste scoperte fino ad allora era andato di bene e in meglio, tanto per le terre, gli alberi, i frutti e i fiori quanto per gli abitanti" (25 novembre 1492).

Gli indiani, che si presentano come fisicamente nudi, sono anche privi di ogni proprietà culturale, e sono caratterizzati dalla mancanza di costumi, di riti e di religioni: "Questa gente è molto mite e timida, nuda, come ho detto, senza armi né legge" (4 novembre 1492); l’atteggiamento di Colombo nei confronti di questa cultura è, nel migliore dei casi, quello del collezionista di curiosità, tanto che, trovando per la prima volta delle costruzioni in pietra in occasione del suo quarto viaggio, si accontenta che ne venga staccato un pezzo per ricordo.
È naturale che questi indiani si somiglino tutti fra loro, privi come sono di ogni identità culturale: "Vennero molti di questi abitanti, che sono simili a quelli delle altre isole, nello stesso modo nudi e dipinti"; la cultura degli indiani è quindi misconosciuta, ed essi sono assimilati alla natura, venendo perciò ammirati, analogamente a quanto Colombo faceva con le piante, i fiori e gli animali, e tale ammirazione, decisa a priori, si estende anche al campo morale: egli, ad esempio, mai si stanca di lodare la generosità degli indiani, che danno tutto per niente: "Diedi ad alcuni di loro qualche berretta rossa e qualche collanina di vetro che essi si misero al collo, e molti altri oggetti di poco valore. Essi gradirono molto questi doni" (11 ottobre 1492).
Colombo non capisce che, come le lingue e le unità di misura, anche i valori sono convenzionali, e che, in sé, l’oro non è più prezioso del vetro; sulla base di questi scambi, però, egli conclude che gli indiani sono la gente più generosa del mondo, fornendo così un notevole contributo al mito del buon selvaggio.

Torna all'inizio

Dopo che abbiamo osservato come Colombo vedeva gli indiani, cerchiamo di capire se attraverso le sue note possiamo intuire come gli indiani vedessero a loro volta gli spagnoli: l’informazione è però, anche in questo caso, viziata dal fatto che egli ha deciso tutto a priori, e che se il suo tono è di ammirazione, allora anche gli indiani debbono ammirarli: "Molte altre cose mi dissero ma io non potei capir tutto, e tuttavia mi accorsi che essi guardavano ogni cosa con meraviglia".

Colombo, nell’atteggiamento che ha verso gli indiani, non riesce a superare queste due posizioni: o gli indiani sono degli esseri umani completi, con gli stessi suoi diritti, ma sono visti non come uguali ma come identici, e dunque egli sbocca nell’assimilazionismo, cioè nella proiezione dei propri valori sugli altri, oppure parte dalla differenza, ma questa viene subito tradotta in inferiorità.
Il proposito di fare adottare i costumi spagnoli alle popolazioni indigene, pur continuamente ribadito, non viene mai giustificato, poiché è una cosa che viene da sé, così come il desiderio di cristianizzarle; in questo secondo caso, poi, il discorso è più complesso, e si fonda sull’equilibrio tra il dare la religione e il prendersi l’oro, equilibrio che appare però piuttosto precario, dato che diffondere la religione presuppone che gli indiani siano considerati, almeno di fronte a Dio, come uguali, mentre per prendere l’oro, se essi non vogliono darlo, sarà necessario sottometterli per poterglielo prendere con la forza, ponendoli così in una chiara posizione di inferiorità.

Colombo però, gradatamente, passa dall’assimilazionismo all’ideologia schiavista, che parte dall’affermazione di principio della inferiorità degli indiani, anche se egli continua a fare distinzioni, per una sorta di coerenza con sé stesso, tra indiani buoni, potenzialmente cristiani ed indiani bellicosi da sottomettere: resta però il fatto che coloro che non sono già cristiani non possono essere altro che schiavi, senza che esista una terza possibilità.
Egli, come è noto, fu un fermo sostenitore della schiavitù degli indiani, ma, anche quando non si trattava di schiavi, il suo comportamento nei confronti degli indiani indica che egli li considera, in fondo, una sorta di oggetti viventi: nella sua passione naturalistica, Colombo, vuole riportare in Spagna esemplari di ogni genere, alberi, uccelli, animali e indiani, ma anche nel caso di questi ultimi non si pone neanche il dubbio di chiedere il loro parere: "Dice che avrebbe voluto far prigionieri una mezza dozzina di indiani per portarli con sé; […] il giorno dopo dodici uomini si avvicinarono alla caravella su una barca, e furono tutti catturati e trasferiti sulla nave dell’Ammiraglio, che ne scelse sei e rispedì a terra gli altri sei" (Las Casas, Historia, I, 134).
La cifra è già stata decisa in anticipo, una mezza dozzina, e gli individui, se ci è permesso il gioco di parole, non contano, ma vengono contati.

Come può dunque Colombo essere associato alla nascita di due miti apparentemente così contraddittori, come quello in cui l’altro è il "buon selvaggio" e quello in cui, invece, l’altro è uno "sporco cane", cioè uno schiavo potenziale? Il legame tra posizioni così diverse è dato dal fatto che, in realtà, entrambe si fondano sul disconoscimento degli indiani e sul rifiuto di considerarli un soggetto con i nostri stessi diritti, ma diverso da noi.
Bene ha osservato chi ha detto che Colombo, in fondo, ha scoperto l’America, ma non gli Americani.

Torna all'inizio

Vai alla sezione Conquistare