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1848: quale popolo?

In questa sezione ci proponiamo di indagare su chi partecipò direttamente ai moti costruendo di fatto le barricate, da cosa furono spinti gli insorti e come e quanto si diffuse tra la gente l’ideale d’indipendenza.
Cerchiamo di scoprire attraverso i documenti storici dell’epoca (avvisi, sentenze, proclami e registro mortuario), come vennero vissuti quei giorni così intensi e come si mosse il popolo. Uno degli aspetti più interessanti, e forse stimolanti, del '48 milanese fu proprio che lotta di popolo e iniziativa dall'alto convissero nello scenario politico del biennio rivoluzionario, fino a quando eventi di portata più ampia, e le guerre europee del '59 lo ampliarono e lo subordinarono alla nascente storia nazionale italiana.

I caratteri dell’economia lombarda
I caratteri della popolazione insorta
Il ruolo dei contadini lombardi
L’eventuale funzione sociale e politica della musica e del melodramma

I caratteri dell'economia lombarda
Per capire meglio la situazione economica della Lombardia negli anni del ‘48 è utile riprendere alcuni passaggi di un importante saggio scritto dallo studioso americano K. R. Greenfield nel 1934 dal titolo Economia e Liberalismo nel Risorgimento. Il movimento nazionale in Lombardia dal 1814 al 1848. In esso l'autore ritiene molto importante la conoscenza della storia economica e sociale della nostra regione, e non nasconde la sua sorpresa per il fatto che di episodi apparentemente improvvisi come le Cinque Giornate di Milano "le storie del Risorgimento non offrono alcuna spiegazione che non sia nei termini di un idealismo esagerato, e alcun fondamento se non che in una serie di episodi insurrezionali." Invece, a suo avviso, è impossibile cogliere le autentiche premesse dei moti lombardi del '48 senza analizzare quel processo fondamentalmente legato allo sviluppo di una embrionale borghesia capitalistica in Lombardia nel periodo che costituisce la premessa storica del '48 milanese. Contemporaneamente, però, il Greenfield riconosce che senza l'analisi del processo che vide il diffondersi delle nuove idee nazionali ed unitarie all'interno del ceto intellettuale cittadino, idee atte, fra l'altro, a suscitare negli elementi più pensosi e più arditi l’immagine di una nuova e più moderna Italia, capace di mettersi al passo col più progredito occidente europeo, non si potrebbe arrivare a spiegare il fermento sfociato nelle cinque giornate. L’embrione di borghesia capitalistica che si forma nelle regioni economicamente più avanzate dell’Italia, e in Lombardia in primo luogo, prima dell’unità, è il nucleo generatore di una società di tipo moderno, ma senza i fermenti causati dalle grandi correnti di pensiero politico e civile, come l'idea neo-guelfa e il credo unitario nazionale mazziniano, probabilmente la miccia della protesta milanese non si sarebbe accesa.


"Fuori lo straniero!" Allegoria della
prima guerra d'Indipendenza,
Museo del Risorgimento, Roma.

Si può comunque dire che il complesso della vita agricola in Lombardia subì tra il 1814 e la metà del secolo una vera rivoluzione; gli industriali lombardi vivevano in una Europa suddivisa dalle alte tariffe della Restaurazione ed erano accerchiati dal sistema proibitivo dell’Austria. Nel 1848 si era già formata un’opinione pubblica italiana che non avrebbe più potuto essere governata utilmente coi principi e coi metodi dell'ancien régime, non tanto perché gli interessi materiali della società italiana erano stati rivoluzionati, quanto perché al pubblico era stata insegnata una nuova concezione di quegli interessi.

La Lombardia alla vigilia del 1848 appare infatti già caratterizzata da un grado piuttosto elevato di commercializzazione delle attività agrarie, anche se largo rimane il settore dell’autoconsumo contadino. Un commercio estero di prodotti agrari e materie prime piuttosto esteso, insieme ad una domanda interna che rimane quella di dimensioni maggiori, anche se non ha avuto la medesima funzione strategica della domanda estera nel determinare la ripresa economica della regione, consente all’agricoltura lombarda di realizzare redditi monetari che, accanto ad estesi reinvestimenti nella produzione agricola, danno l’avvio alla formazione di "riserve di capitale", cioè di risparmio, che appaiono considerevoli. Le prospere attività agricole e le connesse attività commerciali consentivano a larghi settori dell’economia regionale un ritmo di accumulazione discretamente sostenuto: ma la ristrettezza delle occasioni di investimento determinava una vera e propria "strozzatura" che provocava a sua volta un generale rallentamento del ritmo di accumulazione. Dovremo attendere l’unità d’Italia per trovare favorevoli soluzioni sui mercati; un esempio lo troviamo nello sviluppo della rete ferroviaria che permise al commercio dei latticini della bassa di estendersi verso le regioni del centro Italia. A loro volta i profitti derivanti dall’allargamento, si tradussero nella formazione dei risparmi, che incoraggiarono la creazione di banche di deposito e sconto.

I caratteri della popolazione insorta


Il dettaglio del registro mortuario
con i nomi, il mestiere e l'età
di alcuni caduti nel giorno 21 marzo.

Interessiamoci ora più nel dettaglio delle cinque giornate milanesi e della gente che in prima persona andò a combattere sulle barricate. Rifacendoci al registro mortuario delle barricate ci pare opportuno evidenziare che su un totale di duecentosessantuno persone registrate tra il 18 e il 23 marzo 1848, vi furono duecentoventisei artigiani, tre contadini, otto commercianti, due professionisti, due studenti, e  ventotto donne. I ragazzi sotto i vent’anni furono ventotto e gli uomini oltre i sessant’anni furono diciotto.

Per esempio, nella foto qui di fianco, che, per motivi di spazio, abbiamo dovuto mantenere molto piccola, vediamo un elenco di professioni, che ci ha fatto riflettere. Come si vede abbiamo: un legatore, un domestico, una lavandaia, un tessitore, un fruttivendolo, un mendicante, un tintore, un macellaio, ecc. Sorge spontanea l'osservazione che tutti questi cittadini che sacrificarono la loro vita per un ideale di libertà, erano proprio quello che comunemente  si chiama popolo.

Si può segnalare il fatto che nel documento "recenti notizie pervenute col mezzo del pallone aerostatico del 22 marzo ore 10 antimeridiane" si fa un generico riferimento ai cittadini quali individui che "hanno occupato l'interno della città sino al Castello" e che quindi tutti i rappresentanti delle diverse classi sociali fossero considerati come un unico corpo compatto. Analizzando bene, però, i dati sopra riportati, pur ribadendo che borghesi e popolani combatterono fianco a fianco sulle barricate contro il contingente austriaco, forte di quindicimila uomini comandati dal maresciallo Radetzky, furono soprattutto gli operai e gli artigiani a sostenere il peso fisico degli scontri. Conferma una sostanziale unità di azione fra i diversi ceti anche la lettura di un estratto di un documento letterario di Paolo Ranci Ortigosa de Corte:

"il ponte sul Naviglio fu sbarrato con un'alta e larga barricata in pietra formata con lunghe e pesantissime lastre granitiche dei marciapiedi, che uomini e donne di tutti i ceti maneggiavano in modo veramente fenomenale"

La direzione delle operazioni fu assunta invece da un Consiglio di Guerra composto prevalentemente da democratici e guidato da Carlo Cattaneo. Anche gli esponenti dell'aristocrazia liberale finirono, dopo molte esitazioni, per appoggiare la causa degli insorti e diedero vita il 22 marzo a un Governo provvisorio. A questo proposito segnalerei che i componenti di questo governo erano per lo più conti o rappresentanti dei comuni lombardi, cioè aristocratici o borghesi. E ancora: da chi costoro trassero la forza, ma anche lo "indottrinamento" per salire sulle barricate?  Forse una parziale risposta a questa domanda viene anche dalla sezione sulla musica che segue.

  

Il ruolo dei contadini lombardi
Nonostante che i contadini svilupparono un moto di protesta soprattutto nei mesi seguenti alle cinque giornate, ci pare opportuno segnalare anche il loro ruolo in quei momenti di grande fermento della società lombarda. In particolare può essere interessante notare la diversità di toni che si può rilevare in due diversi documenti. Nel manifesto politico del governo provvisorio, di cui Gabrio Casati era presidente, pubblicato il 12 aprile 1848, si legge fra l'altro:

"[...] Un popolo rigenerato nel sangue suo, sparso in un’eroica battaglia di cinque giorni, da lui combattuta con armi disegualissime contro un esercito numeroso e preparato di lunga mano, può fidamente presentarsi all’Europa senza superbia e senza viltà [...] noi abbiamo il diritto inalienabile che tutti i popoli hanno d’esistere da sé e d’essere padroni del suolo della patria: abbiamo il diritto d’essere Lombardi, non solo, ma Italiani."

Abbiamo colto in queste parole il linguaggio piuttosto carico di intensità retorica, che bene si inquadra col ruolo che il patriziato milanese ebbe nel sostenere la causa patriottica e liberale.

Che, d'altronde, fosse fatta propaganda da parte dei rivoluzionari insorti verso le campagne, risulta ben chiaro da questo interessante volantino. La nota manoscritta in calce al medesimo, recita: "Veniva messo sugli aerostati lanciati da Milano durante le cinque giornate". Ci pare un eloquente esempio di quella momentanea unità d'intenti fra la popolazione cittadina e la campagna contadina.

Alquanto diverso suona invece il punto di vista di un contadino, che medita sulla annessione della Lombardia al Piemonte, e che appare caratterizzato fortemente da una viva ostilità alla generica categoria dei "ricchi":

"Se i ricchi, che già ci stringono i panni addosso negli affitti, avranno altresì il diritto di far leggi, potranno stringerceli addosso ancora più arbitrariamente ed impunemente: ci convien nominare un re, il quale, dettando le leggi e facendole rispettare protegga un pochino i nostri interessi e metta argine alla cupidigia dei ricchi."

Le masse dei contadini si muovevano più per necessità contingenti che in virtù di ideali, e le loro richieste erano generalmente di carattere pratico; per esempio in Valtellina cercavano di riprendere i beni comunali fondiari, che erano stati loro tolti e messi in vendita. E si potrebbe affermare che non avessero alcuna coscienza di classe e che il loro unico credo comune fosse l’odio contro i signori. All'indomani dell'espulsione austriaca, dopo le cinque giornate, i governi provvisori di Milano e delle province avevano adottato qualche provvedimento per alleggerire le loro condizioni, quali il ribasso del prezzo del sale, l’annullamento dei processi pendenti per motivi politici, l’abolizione del bollo. Ma queste misure non erano tanto il frutto di una politica seria improntata a rendere più umana la condizione di vita delle campagne, quanto misure demagogiche per assicurarsene l’appoggio. Ma anche in quel frangente non fu data loro piena soddisfazione: non furono abolite due fra le tasse più odiate: il testatico (la tassa sulla persona) e le decime da pagare ai parroci. Ed in seguito il disagio economico aumentò, per la crisi dell’industria serica, la diminuzione dei prezzi dei prodotti agricoli e le requisizioni di derrate fatti dagli eserciti. Questa linea di condotta del Governo Provvisorio accresceva il disagio economico e esasperava il fermento dei contadini.

Nonostante questo avverso trattamento loro riservato dai moderati, i contadini hanno reazioni varie ed anche opposte verso i moti rivoluzionari: da una parte caldeggiano la lotta antiaustriaca, dall'altra si rivelano ostili alla leva e alla guerra. Questa contraddizione è dovuta anche alla loro dispersione e alla mancanza di una direzione, ma soprattutto al fatto che il loro odio era contro i signori qualunque fossero, austriaci o lombardi. I contadini dimostrarono con più segni di aver cominciato a comprendere che le loro sorti non si identificavano con quelle della monarchia asburgica, che la loro causa era ben distinta da quella austriaca e che, se i nobili e i signori erano loro nemici, non per questo necessariamente i "tedeschi" erano loro amici. Ricordiamo inoltre che la partecipazione contadina alla lotta contro l’Austria fu volutamente impedita o limitata dai grandi proprietari terrieri; i moderati esercitavano una cosciente funzione di freno alla lotta e alla partecipazione delle campagne perché temevano che questo intervento delle masse popolari potesse condurre a forme di anarchia.


La musica nel ’48 milanese
In questa sottosezione ci occupiamo di quello che fu sicuramente un importante mezzo di diffusione degl'ideali risorgimentali e rivoluzionari durante la prima metà dell'800: la musica. La storia politica vera e propria, quella della lotta contro lo straniero sul terreno e dell’azione pratica, è ben nota; ma, oltre quest’arma, adoperata in gran segreto e con grave rischio, i patrioti italiani si servirono di altri mezzi per diffondere nel popolo le loro idee e per mantenere ben desti i sentimenti della patria. Primo tra questi mezzi "leciti" è appunto l’Arte. Le manifestazioni artistiche furono una specie di arma a doppio taglio. Tutti gli spettacoli, e particolarmente quelli musicali erano incoraggiati e promossi dal governo austriaco, che pensava così di addormentare i cittadini ("finché i sudditi si divertono, non pensano alle rivoluzioni"); ma d’altro canto gli artisti patrioti seppero servirsene per esprimere i loro veri sentimenti nei riguardi della patria e dell’oppressore. Il teatro lirico ebbe a sostenere una parte molto importante, poiché molto diffusa era la popolarità degli spettacoli d’opera.

Innanzitutto, spesso gli spettacoli d’opera erano solo un pretesto: nei palchetti del teatro venivano scambiati propositi e speranze di liberazione; si giocava a carte e a domino, ma si concludevano anche, rapidamente, intese per l’azione di domani, si cospirava tra applausi e risate. In tal modo il teatro favoriva i segreti convegni proprio sotto gli occhi della polizia, che difficilmente poteva sospettare qualcosa. Non va però dimenticata la forza che avevano le opere rappresentate sul palco: abbiamo numerose testimonianze di sommosse che presero spunto dai versi cantati in un teatro. Non era per nulla insolito che il pubblico partecipasse attivamente agli spettacoli: per esempio, durante una rappresentazione della Norma alla Scala, quando il celebre coro intonava "Guerra, guerra, guerra", il pubblico si alzò in piedi ed incominciò anch’esso a gridare "Guerra! Guerra! Guerra!" con tale veemenza che fu calato il sipario e la folla dispersa con la forza. In seguito ad una rappresentazione di Lucrezia Borgia di Donizetti, che spesso, con le sue opere, fu causa di simili manifestazioni, vi furono così clamorose dimostrazioni, che la polizia ravvisando in essa un carattere politico, pubblicò il seguente avviso: "Si avverte che è interdetto agli artisti di sortire durante l’atto più di tre volte per ricevere gli applausi del pubblico e che qualora s’insistesse, a fronte di questa tolleranza, a chiamarli ulteriormente sulla scena, verrebbe calato il sipario e non sarebbe loro più permesso di presentarsi sul palcoscenico". Questo episodio basta a dimostrare fino a che punto la censura imperiale austriaca spingesse il suo arbitrio e la sua violenza.

 


I canti popolari
A Milano, il 18 marzo 1848, scoppiava la grande insurrezione popolare che in cinque giorni avrebbe scacciato dalla città la guarnigione austriaca. In quei giorni di intensa lotta, i sentimenti di patriottismo e di italianità dei milanesi, che erano stati a lungo repressi, esplosero in tutta la loro potenza e in tutta la loro esuberanza: se ne ha prova dal numero, semplicemente sbalorditivo, di inni patriottici che sorsero come per incanto. Molti forse erano stati approntati nei mesi della cospirazione segreta; ma la maggior parte fu composta lì per lì, traendo occasione e spunti da fatti di cronaca quotidiana. Era nota l’importanza di un inno o di un canto che unisse tanti corpi in una sola anima, e che spingesse tutti alla lotta ed al coraggio. Di questi inni è però rimasto poco: essi, infatti, non erano per lo più apprezzati per il loro valore artistico (di solito inesistente), ma per il loro contenuto patriottico; di qui la facilità con cui caddero nell’oblio. D’altronde era d’obbligo che, affinché potesse essere intonato da grandi folle, un canto fosse molto orecchiabile, cosa che spesso sfociava nella banalità. Su un giornale, la Gazzetta musicale di Milano, si trova una dichiarazione di un certo Giuseppe Novella, che aveva scritto un considerevole numero di inni per aiutare i suoi compatrioti:

Italiani, poco o nulla al certo troverete di artistico in queste mie nazionali melodie; né si hanno perciò altro merito se non quello dello spirito patrio che le ispirava! Del resto crederei di disconoscervi se aggiungessi parola per eccitarvi a concorrere all’opera che sarà senz’altro da tutti benedetta".

Questi canti, infatti, erano considerati dagli stessi contemporanei nient’altro che un mezzo atto ad eccitare i sentimenti degli improvvisati combattenti. Quando veniva rappresentato un nuovo melodramma, sia il libretto, sia la musica venivano sottoposti ad attenta critica; ma gl'inni patriottici godevano di un trattamento di favore poiché il loro lato artistico non era nemmeno preso in considerazione. Naturalmente però, questo trattamento di favore se da un lato permetteva agli inni stessi di divenir popolari assai rapidamente, non impediva che questa popolarità si dileguasse altrettanto rapidamente.

Infine, uno dei pochi inni che sia degno di essere considerato sotto ogni aspetto, è intitolato Suona la tromba, scritto da Goffredo Mameli e musicato da Giuseppe Verdi. Ecco, solo a titolo d’esempio, la prima strofa:

Suona la tromba, ondeggiano
Le insegne gialle e nere:
Fuoco, per Dio sui barbari,
Sulle vendute schiere…
Già ferve la battaglia,
Al Dio dei forti osanna;
Le baionette in canna,
E’ l’ora del pugnar.


Elementi patriottici nel melodramma


Giuseppe Verdi

Gioacchino Rossini
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Vincenzo Bellini

La tradizione ama far credere che anche per i melodrammi si verificasse ciò che invece accadeva per i canti nazionali: cioè, che i compositori pensassero, più o meno segretamente, agli effetti che l’intreccio del dramma o le singole battute dei personaggi potevano avere su un pubblico sempre in cerca di occasione per dar sfogo ai propri sentimenti patriottici. E che , una volta trovate queste occasioni, gli spettatori si dessero ad applaudire freneticamente, senza curarsi molto della musica o degli esecutori. Ora, qualcosa di simile, dovette verificarsi assai tardi, rispetto alla nascita del melodramma, intorno al ’48, quando già brillava l’astro nascente di Verdi, ma il caso "Verdi" fu del tutto particolare. Per quanto riguarda i moltissimi melodrammi, spesso di gran valore, composti prima del 1840, quando cioè le passioni patriottiche non erano ancora radicate al punto da aver conquistato intere masse di popolo, le allusioni politiche più o meno esplicite erano di solito dovute a coincidenze spesso fortuite. In tutte queste opere bisogna saper distinguere tra il significato musicale di una pagina ed il significato patriottico che i contemporanei le attribuirono. Quasi mai il primo era concepito dal compositore in dipendenza del secondo. Quando ciò avvenne allora la musica perse il suo valore di musica-musica e prese quello di musica-oratoria e subì così un destino simile a quello di quasi tutti i canti nazionali, cadde cioè nella dimenticanza col mutare delle situazioni e del gusto popolare, a cui si era adattata.
E’ vero che in alcune opere di Spontini, di Rossini e di Bellini ci sono passi che non lasciano dubbi sul loro significato patriottico, ma sia il poeta sia il musicista, componendoli, pensarono prima di tutto a seguire l’impeto e la voce della loro ispirazione. In tal caso la passione che muoveva gli animi patrioti dei concittadini era vera passione. Un esempio per tutti è il Nabucco di Verdi: il pubblico rimase vinto innanzi tutto dalla sovrana bellezza della melodia. Per istinto Verdi attuò nel modo più "popolare" quei sentimenti di patriottismo che ormai venivano diffondendosi nel cuore di tutti. E le famosissime note del coro "Va pensiero, sull’ali dorate" furono cantate dal popolo, giungendo poi fino a noi. Questi sono, però, casi isolati; non va dimenticato che nei tempi eroici della rivoluzione, gli entusiasti patrioti videro spesso nei melodrammi quello che non c’era.