Dopo l’attentato dell’11
settembre 2001 la "lotta al terrorismo" diventò la preoccupazione principale
dell’amministrazione statunitense. Il presidente
Bush lanciò una campagna diplomatica volta a ottenere il più ampio sostegno
internazionale per un’energica offensiva contro l’organizzazione Al Qaeda di
Osama Bin Laden, ritenuto il mandante dell’attacco terroristico, e l’Afghanistan
che ne ospitava le basi. Bush ottenne il sostegno, oltre che degli alleati della
NATO, di moltissimi altri paesi. Alla coalizione capeggiata da Washington si
aggiunse anche il Pakistan, sino ad allora il maggior alleato del regime afghano
dei taliban. Fallito l’ultimo tentativo diplomatico con il rifiuto di Kabul di
consegnare Bin Laden, il 7 ottobre la coalizione capeggiata dagli Stati Uniti
(11.000 soldati, meno della polizia presente a Manhattan) lanciò contro
l’Afghanistan l’operazione “Enduring Freedom” (“Libertà duratura”), rivolta ad
annientare la macchina bellica dei taliban e a favorire l’instaurazione di un
regime moderato nel paese. Va però ricordato, che le truppe della coalizione
entrarono nell'area dove si sospettava si nascondesse Bin Laden solo due mesi,
due mesi, dopo l'attentato; e quando la stampa americana cominciò a chidersi
dove fosse finito Bin Laden il presidente Bush ripose con sufficienza: "Non
sappiamo dove sia, non è che gli dedichi molto tempo".
Il 12 ottobre si diffuse negli Stati Uniti l’allarme
batteriologico; nelle redazioni di diversi giornali e reti televisive vennero
infatti recapitate lettere contenenti spore di Bacillus antrax, agente
responsabile del carbonchio. Diverse furono le persone contagiate e cinque le
vittime. Tracce del bacillo
vennero
rinvenute nell’edificio del Senato e anche la Camera dei rappresentanti fu
evacuata e chiusa per una settimana. Dalle indagini non emersero collegamenti
con il terrorismo fondamentalista islamico, come invece sosteneva pubblicamente
lo stesso Bush, ma con organizzazioni estremiste
di destra statunitensi. Il governo di
Washington rafforzò le misure di sicurezza; dopo centinaia di arresti sui quali
venne mantenuta un’assoluta segretezza, il presidente Bush firmò un decreto che
istituiva tribunali militari speciali per i cittadini stranieri sospettati di
terrorismo.
Nell’arco di pochi mesi la nuova amministrazione statunitense
ridisegnò completamente il quadro strategico e quello dei rapporti diplomatici
con i suoi alleati e con il resto del pianeta. Nel discorso sullo stato
dell’Unione, pronunciato il 29 gennaio 2002, il presidente Bush pose la lotta al
terrorismo al centro dell’attività del suo governo; secondo la nuova strategia,
gli Stati Uniti avrebbero dovuto promuovere e guidare una lotta senza quartiere
sia contro le organizzazioni terroriste, sia contro gli stati sospettati di
favorirne l’azione. Dei i cosiddetti “stati canaglia”, Bush menzionò
esplicitamente Iraq, Iran e Corea del Nord, accomunandoli sotto l’etichetta di
“asse del male” e accusandoli di perseguire lo sviluppo di armi di distruzione
di massa. Nello stesso tempo, sin da poco dopo l'11
settembre le reti televisive americane bombardarono l'opinione pubblica
senza sosta con messaggi volti a seminare il terrore tra la gente: minacce di
ogni genere (giocattoli imbottiti di esplosivo ad esempio) si alternavano a
messaggi accorati di Bush e Powell. E' dunque facile capire come l'opinione
pubblica possa aver appoggiato, dominata dalla paura, l'intervento militare in
Iraq, considerato da molti semplicemente assurdo.
La crisi internazionale determinata dagli effetti degli
attentati dell’11 settembre ebbe l’effetto di far
passare in secondo piano la situazione economica del paese, che nonostante una
serie di interventi della Federal Reserve registrava un forte rallentamento. A
ostacolare la ripresa economica intervennero anche una serie di gravi scandali
finanziari (e in particolare, nel dicembre 2001, quello della Enron, gigante
texano del settore energetico), che assestarono un duro colpo alla credibilità
del mercato borsistico statunitense e internazionale. Il fallimento della Enron,
il più grave della storia statunitense, coinvolse non solo un’importante società
di revisione, la Arthur Andersen, ma lo stesso governo di Washington, di cui il
presidente della società texana, Kenneth Lay, era stato un importante
sostenitore. Il caso Enron, diventato in poche settimane uno scandalo di enorme
portata, provocò un grave scontro tra le due principali istituzioni
statunitensi, il Congresso e la Casa Bianca; in seguito al rifiuto di consegnare
alle commissioni parlamentari gli atti relativi al rapporto intercorso tra la
presidenza e la Enron, il General Accounting Office (una sorta di “corte dei
conti”, formata però da parlamentari) avviò infatti, per la prima volta nella
storia del paese, una formale causa contro il governo davanti al Tribunale di
Washington.
Agli inizi del 2002 la pubblicazione di alcune foto dei prigionieri catturati in
Afghanistan e rinchiusi nella base militare di Guantánamo, a Cuba, sollevò le
proteste delle organizzazioni per i diritti umani, che invocarono il rispetto
della convenzione di Ginevra. L’amministrazione
statunitense accolse solo in parte gli appelli, riconoscendo lo status di
prigionieri di guerra ai taliban ma non ai membri di Al Qaeda, l’organizzazione
di Osama Bin Laden.
Un nuovo motivo di dissidio con i paesi europei arrivò in
marzo, con l’annuncio dell’imposizione di tariffe doganali del 30%
sull’importazione di prodotti siderurgici che provocò le proteste dell’Unione
Europea. L’amministrazione statunitense proseguì tuttavia sul cammino
intrapreso, volto alla difesa politico-economica e militare degli Stati Uniti,
e, dopo la denuncia del trattato ABM (Anti-Ballistic Missile) firmato con
l’Unione Sovietica nel 1972, riprese i test missilistici rivolti alla
costruzione dello “scudo spaziale”. In maggio, alla firma di un accordo tra Bush
e Putin per una drastica riduzione degli arsenali atomici statunitense e russo,
seguì lo storico accordo, siglato da Putin e dai capi di governo dei paesi
membri della NATO, che diede vita al Consiglio NATO-Russia, diretto ad
approfondire la collaborazione tra Mosca e i paesi membri dell’Alleanza
atlantica.
Sul fronte interno, una nuova crisi si abbatté nel giugno
2002 sul mercato finanziario statunitense, già duramente provato dal caso Enron.
Accusata di frode, la compagnia di telecomunicazioni WorldCom, la seconda del
paese, perse in borsa il 90% del suo valore. Il crollo di WorldCom trascinò al
ribasso i listini di tutte le principali piazze finanziarie del mondo. In
occasione del vertice delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile di
Johannesburg, il segretario di stato Colin Powell confermò la posizione degli
Stati Uniti, intenzionati a non assumere alcun impegno in tema di protezione
dell’ambiente.
Le elezioni di medio termine del 5 novembre 2002 registrarono
una forte avanzata dei repubblicani, che confermarono la maggioranza già
posseduta alla Camera e ottennero la maggioranza del Senato. Nelle contestuali
elezioni per il rinnovo dei governatori, i democratici si aggiudicarono 23 stati
su 36. Alla fine di novembre il Senato approvò definitivamente
l’istituzione di un nuovo ministero incaricato della sicurezza interna e della
lotta al terrorismo. Contro il provvedimento, già passato al vaglio della
Camera, si espressero solo sette senatori democratici.
In occasione del primo anniversario
dell’attacco terroristico dell’11 settembre 2001,
Bush ribadì l’impegno degli Stati Uniti contro il terrorismo, indicando
nell’Iraq di Saddam Hussein, accusato di possedere armi di distruzione di massa,
il principale obiettivo della strategia militare statunitense. Pochi giorni dopo
il governo di Washington diede avvio a una battaglia diplomatica in seno alle
Nazioni Unite, rivolta all’adozione di una dura risoluzione contro l’Iraq; dopo
forti proteste, il presidente Bush si dichiarò pronto ad attaccare il paese
mediorientale anche senza l’avallo dell’ONU. Agli inizi di ottobre Bush ottenne
il sostegno del Congresso, che lo autorizzò a utilizzare la forza contro l’Iraq.
Il mese seguente il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite decise l’invio di
ispettori internazionali in Iraq e minacciò serie conseguenze in caso di mancato
disarmo. Risoluto ad abbattere il regime di Saddam Hussein, Bush richiese alle
Nazioni Unite l’autorizzazione all’uso della forza, che però gli venne negata in
seno al Consiglio di Sicurezza dal veto di Germania, Francia, Russia e Cina,
persuase della necessità di attendere il risultato dei controlli degli ispettori
internazionali. Nonostante l’assenza di prove sull’esistenza di armi di
distruzioni di massa e quindi senza alcun valido motivo, il 20 marzo 2003, con
l’appoggio militare di Regno Unito, Australia e Polonia e quello politico e
logistico di altri paesi, Bush decise di agire anche senza l’avallo dell’ONU:
era l'inizio di una nuova guerra all'Iraq.
Grazie alla netta superiorità militare e tecnologica e
all’impiego massiccio dell’aviazione, le forze della coalizione avanzarono da
sud con incredibile rapidità ed entrarono a Baghdad il 6 aprile. La caduta della
capitale facilitò poi l’avanzata da nord, sostenuta dalle forze curde appoggiate
da corpi speciali statunitensi, e portò alla caduta di Kirkuk e Mosul pochi
giorni dopo. La campagna militare si concluse il 14 aprile con la presa di
Tikrit. Il 1°
maggio, Bush dichiarò ufficialmente la fine della guerra.
Tuttavia, il dopoguerra si rivelò più difficile di quanto
previsto dall’amministrazione statunitense e le truppe della coalizione
incontrarono un’aspra resistenza. Le esigenze di stabilizzare in breve tempo il
paese e di trovare risorse per la sua ricostruzione indussero Bush a
riavvicinarsi all’ONU, il cui Consiglio di sicurezza nell’ottobre 2003 legittimò
la presenza statunitense in Iraq. Nonostante l’arresto di alcuni dei più
importanti rappresentanti del regime baathista e dello stesso Saddam Hussein
(dicembre 2003), l’opposizione alle truppe della coalizione andò via via
intensificandosi. Gli Stati Uniti crearono prima un’autorità provvisoria di
governo, poi, nel giugno 2004, un consiglio di governo provvisorio (dotato
tuttavia di poteri limitati e inadeguati per affrontare la grave situazione),
costituito dai rappresentanti delle tre principali comunità irachene (sciiti,
sunniti e curdi).
La multiforme resistenza, animata soprattutto da forze del
passato regime e da milizie islamiche internazionali, si fece protagonista di
un’incessante offensiva contro le truppe della coalizione e del costituendo
esercito iracheno, affiancandola a una sistematica azione di boicottaggio
dell’industria petrolifera. La rivelazione, nel marzo 2004, delle torture
inflitte ai detenuti iracheni nelle carceri di Abu Ghraib controllate dagli
Stati Uniti, contribuì ad alimentare le violenze e provocò nel contempo
un’ondata di sdegno contro l’amministrazione statunitense.
Nello stesso mese di marzo, il senatore John Forbes Kerry si
aggiudicò la nomination del Partito democratico per la corsa alla Casa Bianca.
In maggio, negli Stati Uniti prevalse per la prima volta nei sondaggi una
posizione contraria alla politica irachena di Bush.
Nel novembre 2004, al termine di un’aspra campagna elettorale
condotta soprattutto sui temi della lotta al terrorismo, della sicurezza e dei
valori morali, Bush riuscì a aumentare il suo consenso mobilitando
massicciamente la destra religiosa e a imporsi sul candidato democratico. Nelle
contestuali elezioni legislative, il Partito repubblicano conquistò una solida
maggioranza in entrambe le camere del Congresso.
Recentemente Bush opera un ampio rimpasto nella sua
amministrazione. Il posto di segretario di Stato, lasciato libero da Colin
Powell subito dopo la conferma di Bush alla presidenza, viene occupato da
Condoleezza Rice, già consigliera per la Sicurezza nazionale. Nel “Discorso
sullo stato dell’Unione” pronunciato ai primi di febbraio 2005, Bush ribadisce
il suo impegno nella lotta al terrorismo e per la diffusione della democrazia
nel mondo, parlando come se una reale demo-crazia possa essere imposta da un
invasore.