La povertà è causata da un insieme di fattori che riducono la speranza di vita e la felicità della popolazione nei paesi del Terzo mondo. Le cause principale di cui vorremmo parlarvi sono la fame, la guerra e la conseguenza più ovvia,ovvero l'emigrazione nei paesi ricchi.

 

 

La Fame Nel Mondo

Contrariamente alle numerosi affermazioni di principio e dalle altrettanto molteplici dichiarazioni di intenti da parte dei Paesi ricchi del pianeta, la fame continua a rappresentare una quotidiana emergenza mondiale. Ogni anno si valuta che circa 9 milioni di persone (in buona parte bambini) muoiano appunto di fame e di malattie di denutrizione. Circa 500 milioni di persone (pari a un decimo dell'umanità) sopravvivono dunque in condizione di fame cronica. Alcune conseguenze di questo fatto sono appunto le malattie e la malnutrizione che ostacola la crescita normale dei bambini, lo sviluppo fisico-mentale e le capacità lavorative. Inoltre le siccità molto frequenti e le inondazioni dei grandi fiumi asiatici si trasformano spesso in drammatiche carestie. La malnutrizione,come già detto prima, è una delle principali cause della nascita di bambini con insufficienza di peso e con crescita ritardata. I bambini con insufficienza di peso alla nascita che sopravvivono, tendono a soffrire di ritardi nella crescita e di malattie durante l'infanzia, l'adolescenza e fino alla maggiore età. Le donne adulte che soffrono di crescita ritardata tendono verosimilmente ad incrementare il cerchio vizioso della malnutrizione partorendo bambini con peso insufficiente già alla nascita. 


Bambino che cerca l'acqua nel deserto,Kenia

Stanno anche emergendo dei legami tra malnutrizione nella prima età, compreso lo stato fetale, e lo sviluppo di successive malattie croniche come la cardiopatia, il diabete e l'ipertensione. Ogni anno, nei Paesi in via di sviluppo, circa 30 milioni di bambini nascono con crescita menomata a causa della malnutrizione durante la gravidanza. I paesi ricchi hanno contribuito a rendere questo grave problema meno drastico, fornendo aiuti alimentari in caso di carestia o altre situazioni di emergenza; assistenza sanitaria; finanziamento di progetti di sviluppo e l'assistenza tecnica. Per questo motivo si può affermare che nel mondo ricco vi sia un'inevitabile interdipendenza, e che il benessere in questi paesi non possa a lungo coesistere con la povertà di una parte cospicua del Terzo mondo. Un altro problema che contribuisce alla malnutrizione è la mancanza di una risorsa fondamentale per la sopravvivenza: l'acqua. Quest'ultima risorsa, essendo in quantità minima, non permette la sopravvivenza di animale e vegetali ma soprattutto dell'uomo. Queste brevi considerazione possono affermare che questo problema è da attribuire principalmente al comportamento dell'uomo e non all'ambiente naturale. Infatti oggi i popoli ricchi, specie in Europa, Nord America e Giappone, se ne stanno "appollaiati" in cima a questa catena alimentare divorando il patrimonio dell'intero pianeta. Alcune cause per le quali si determinano e si aggravano le disuguaglianze tra paesi ricchi e paesi poveri, sono due. In primo luogo sulla speculazione sui prezzi degli alimenti di prima necessità condotta da un "manipolo di banchieri" che controllano il mercato mondiale dei prodotti alimentari per mezzo della Borsa di Chicago. Conseguenza di tale speculazione sono:

Viene da chiedersi perché succede tutto questo in un mondo in cui essendo la torta più grande rispetto al passato le sue porzioni non sono tali da garantire che chi ha più bisogno di cibo lo ottenga. La fame purtroppo continua ad essere la condizione quotidiana in cui versano centinaia di milioni di persone nel nostro pianeta. Oggi si calcola che muoiano nel mondo circa 40 milioni di persone per cause legate alla fame o alla sottoalimentazione e malnutrizione. Concludendo vorremmo mostrarvi la mappa della fame che persiste nel mondo:

 

 

La mappa della fame nel mondo
Le proporzioni delle persone sottonutrite



La mappa della fame nel mondo-Le proporzioni delle persone sottonutrite (1998-2000)
 

  •  Africa

  • Asia

  • Europa

  • Nord-centro America

  • Oceania

  • Sud America

  • Da questa mappa possiamo vedere come l'Africa sia il continente con il livello di popolazione denutrita maggiore.
    La zona in cui si condensa il problema è l'area centro-meridionale africana, seguita dal Madagascar e dal cuore dell' Asia, dove più del 35% delle persone è malnutrito o con problemi alimentari. Nell' America settentrionale, Europa e Oceania invece il problema è quasi assente, poiché la proporzione di popolazione denutrita è inferiore al 5%.

     

     

    Guerra

     

    Non so con quali armi si combatterà la terza guerra mondiale, ma la quarta sicuramente con le pietre.

    Albert Einstein (Fisico e Filosofo)

    Quando si dichiara una guerra la prima vittima è la verità.

    Arthur Ponsonby (Politico inglese,Scrittore e Segretario Privato della Regina Victoria)

    La guerra è un evento sociopolitico che consiste nel confronto tra due o più soggetti. Il termine "guerra" deriva dalla parola "gwarra" dell'antico alto tedesco, che significa mischia. Nonostante la storia dell'uomo sia millenaria, l'umanità non sembra aver attraversato nessun periodo prolungato senza guerre. Questo ci dovrebbe fare riflettere... Infatti la guerra, con i suoi orrori e le sue crudeltà, sembra appartenere al patrimonio genetico della specie umana. È un poema sulla guerra, quella fra Greci e Troiani, il primo grande libro della civiltà occidentale, l'Iliade e anche oggi, che abbiamo ormai superato il terzo millennio, la guerra divampa in varie parti del globo, guerre fra nazioni, ma anche guerre civili, interne ai singoli stati. Infatti oggi ci sono sette stati che hanno, dichiaratamente, armi nucleari (USA, Russia, Cina, Regno Unito, Francia) che sono i cinque stati che occupano i seggi permanenti del consiglio di sicurezza ONU , più India e Pakistan. Alcuni paesi vengono ufficialmente definiti "in disarmo nucleare", perchè affermano di aver rinunciato volontariamente a portare avanti un programma per la realizzazione dell'atomica. Sono: Brasile, Argentina, Sudafrica, Algeria, Taiwan, Corea del Sud, Ucraina, Bielorussia, Kazakistan (questi ultimi tre paesi sono divenuti indipendenti dopo la dissoluzione dell'Unione Sovietica, e ne avevano in parte ereditato l'armamento). Ci sono infine paesi fortemente sospettati di possedere l'atomica (Isrlaele) o di aver in atto dei progetti, più o meno avanzati per realizzarla. L' Iraq era stato a lungo sospettato di aver accumulato armi di distruzione di massa (Atomiche,chimiche e battereologiche), e questa è stata una delle ragioni invocate dagli Stati Uniti e dalla coalizione da essi formata per la guerra della primavera 2003. Dopo la fine della guerra, si sono trovate solo poche tracce di questi tipi di armi (e nessuna di armi atomiche), anche se è innegabile che il dittatore Saddam Hussein ne avesse progettato (e in parte avviato) lo sviluppo in anni precedenti (certamente dopo aver usato i gas contro gli iraniani nella guerra del 1980-'89 e contro i villaggi curdi in più occasioni tra il 1988 e il 1991)


    Soldato americano con bambini che giocano



    Eppure l'aspirazione alla pace fa ugualmente parte dei sogni dell'uomo, tanto che il massimo filosofo della modernità, Immanuel Kant, dedicò un volumetto importante allo studio delle condizioni che avrebbero condotto alla pace perpetua. Perché allora l'uomo vuole il bene e fa il male? Perché la storia umana è un succedersi ininterrotto di atrocità, un "immenso mattatoio", secondo la definizione datane da Hegel nella sua Filosofia della storia? Perché la guerra? Freud rispose a quest'ultima domanda affermando che nell'uomo c'è un'ineliminabile spinta aggressiva e distruttiva, che solo l'incessante processo di civilizzazione può tentare di tenere a bada. Ma la guerra, questo "duello su vasta scala per costringere l'avversario a piegarsi alla propria volontà", come la definì Von Clausewitz, riconosce a mio avviso, ragioni supplementari; di carattere economico e ideologico. Gli uomini entrano costantemente in conflitto, a causa di interessi e di visioni del mondo contrapposte e, almeno in apparenza, inconciliabili.

    E, ritornando nell'ambito della psicologia, possono affacciarsi alla ribalta della Storia, favoriti da un preciso contesto economico e culturale, leader animati da una volontà di potenza distruttiva, dalla personalità gravemente disturbata, capaci di convincere le masse della giustezza dei loro propositi.
    Di personaggi sanguinari e affascinanti allo stesso tempo, ne incrociamo di continuo, sfogliando qualsiasi manuale di Storia. Hitler, Stalin, Gengis Kahn, Caligola, Nerone, Tamerlano... E, spiace ammetterlo, per un imperscrutabile mistero della natura umana persino persone colte e capaci di affetto autentico nei confronti dei propri familiari e della cerchia degli amici, riescono a macchiarsi di crimini infami nei confronti dell'umanità. È il caso, per esempio, di molti gerarchi nazisti, affabili nella quotidianità, che leggevano buoni libri e ascoltavano buona musica, capaci poi di pianificare freddamente lo sterminio di esseri umani innocenti.
    I pacifisti sostengono che la guerra è diventata ormai nella coscienza evoluta, uno strumento obsoleto nella risoluzione dei conflitti. E hanno sostanzialmente ragione. Purtroppo non riescono a dirci cosa dobbiamo fare, in concreto, se imperi o nazioni sono pronti ad annientarci senza pietà.
    La speranza di tutti va riposta nella costruzione di una Società delle Nazioni, giudice super partes, che abbia l'autorevolezza e la forza di dirimere le contese in nome di leggi e di regole chiare, stipulate in precedenza. Qualcosa che assomigli all' Onu di oggi, ma riveduta e corretta, più giusta ed efficiente.
    La pace e non la guerra è ciò di cui noi e le generazioni future abbiamo bisogno. Ma sembra che i conflitti nel mondo stiano cessando infatti
    Uno studio spiega come il mondo stia diventando sempre più pacifico grazie a tre motivi: la fine della guerra fredda, le missioni di peacekeeping, la diffusione della democrazia. In questo scenario anche sviluppo economico e culturale giocano un ruolo importante

    In quindici anni il numero dei conflitti si è più che dimezzato: dai 51 del 1991 fino ai 20 dell’anno scorso.
    Esplosioni quotidiane in Iraq, massacri in Sudan, le due Coree che si scrutano attraverso le rispettive artiglierie, una guerra hobbesiana di tutti contro tutti nel Congo orientale—i conflitti tormentano la società umana da tempo immemorabile, forse da quando i nostri antenati scoprirono che un ramo d’albero può essere usato anche per percuotere. Eppure, anche se sembra impossibile immaginarlo guardando i notiziari, la guerra è entrata in una fase di declino.

    Marines in in Iraq

     I combattimenti in Iraq e in alcuni altri paesi rappresentano un’eccezione a una tendenza globale che viene ampiamente ignorata: da circa 15 anni è in atto nel mondo una costante diminuzione dei conflitti armati. Negli ultimi decenni, le probabilità che una persona muoia a causa di una guerra sono scese probabilmente ai valori più bassi dell’intera storia dell’umanità.

    Cinque anni fa due studiosi — Monty Marshall, direttore delle ricerche presso il Center for Global Policy della George Mason University e Ted Robert Gurr, docente presso l’Università del Maryland— hanno raccolto per alcuni mesi tutti i dati disponibili sulla frequenza e sulla mortalità dei conflitti del XX secolo, aspettandosi di dover compilare un registro di orrori e distruzione in continuo peggioramento. Hanno invece riscontrato, dopo i terribili anni delle due Guerre Mondiali, un incremento globale dei conflitti armati dagli anni ’60 fino a metà degli anni ’80, a cui è seguita una diminuzione costante e pressoché ininterrotta a partire dal 1991. Hanno inoltre osservato, a partire da metà degli anni ’80, un aumento costante nel mondo di diversi fattori in grado di ridurre le probabilità di un conflitto: prosperità economica, libere elezioni, governi centrali stabili, comunicazioni migliori, un maggior numero di «istituzioni di pace» e un maggior impegno internazionale. Nel 2001 Marshall e Gurr, insieme a Deepa Khosla, hanno pubblicato i risultati del loro studio nel rapporto «Peace and Conflict», redatto per il Centro per lo sviluppo internazionale e la gestione dei conflitti (Center for International Development and Conflict Management) dell’Università del Maryland.

    Esaminiamo in primo luogo le cifre. Secondo il rapporto il numero delle guerre e dei conflitti armati a livello mondiale ha toccato il suo picco nel 1991 (51 conflitti), anno che può essere considerato il più denso di guerre dell’intera storia. Dal 1991 in poi, questo valore è sceso in modo costante. I conflitti armati sono stati 26 nel 2000 e 25 nel 2002, anche considerando l’attacco di Al Qaeda agli Stati Uniti e il contrattacco americano contro l’Afghanistan. Nel 2004, secondo l’ultimo studio di Marshall e Gurr, il numero dei conflitti armati nel mondo era sceso a 20, anche includendo l’invasione dell’Iraq. Sulla base di questi dati, i conflitti in atto nel 2004 sono diminuiti di oltre la metà rispetto al 1991.

    Come si spiega questa diminuzione delle guerre di fronte alle immagini di massacri che ci vengono proposte quotidianamente dai notiziari? Una delle ragioni per cui la guerra sembra imperversare ovunque è che, grazie all’aggiornamento costante delle notizie sui canali satellitari e via Internet, si trasmettono molte più immagini di combattimenti rispetto al passato. Appena vent’anni fa, la rivolta in Eritrea è passata quasi inosservata agli occhi del mondo; l’instancabile Robert Kaplan ha descritto la speranza di un gruppo di ribelli eritrei di essere inquadrati almeno dai satelliti spia, in modo che si venisse a sapere della loro lotta. Oggi, i combattimenti che si consumano in Iraq, in Sudan e in altri paesi vengono descritti in modo sofisticato, con una grande ricchezza di filmati ripresi con minicamere o addirittura con videotelefoni. Per le agenzie di stampa è naturalmente un dovere dare ampio spazio ai conflitti. Ma la visibilità di un così grande numero di combattimenti crea l’impressione che il problema sia in aumento: in realtà, ad aumentare sono le notizie, non i problemi in sé.

    Mueller calcola che nel XX secolo circa 200 milioni di persone siano state uccise in eventi bellici o in altri conflitti violenti, oppure a causa di decisioni politiche legate alla guerra, come nel caso dell’Olocausto. In quel secolo hanno vissuto circa dodici miliardi di persone; ciò significa che ognuna di queste aveva una probabilità dell’1%-2% di morire a causa di una guerra internazionale, di un conflitto etnico o di un genocidio. È la stessa probabilità, osserva Mueller, che ha oggi un cittadino americano di morire in un incidente automobilistico. Vista l’attuale diminuzione delle guerre, per il momento uomini e donne di tutto il mondo rischiano molto di più per il traffico che per la guerra. Questo dato è suffragato dalle statistiche dell’Organizzazione mondiale della sanità: nel 2000, ad esempio, 300.000 persone sono decedute in combattimento o per ragioni connesse alla guerra (ad esempio per malattie o condizioni di malnutrizione), mentre 1,2 milioni di persone hanno perso la vita in incidenti stradali. Trecentomila decessi causati dalla guerra nel 2000 sono un costo terribile, ma in termini quantitativi rappresentano appena lo 0,005% sul totale della popolazione vissuta in quell’ anno.

    Un altro dato straordinario è quello che indica come anche la spesa militare mondiale sia in declino. Secondo i dati del Center for Defense Information, un istituto di ricerca indipendente di Washington, la spesa militare annua globale ha raggiunto il suo massimo nel 1985, con 13.000 miliardi di dollari, e da allora è stata in continua discesa arrivando a poco più di 1.000 miliardi di dollari nel 2004. Poiché nello stesso periodo la popolazione mondiale è aumentata del 20%, sarebbe stato lecito aspettarsi un incremento della spesa militare. Viceversa, in rapporto alla crescita della popolazione, la spesa militare è diminuita di oltre il 30%: da 260 dollari pro capite nel 1985 a 167 dollari nel 2004.

    A che cosa è dovuta la diminuzione delle guerre? Il fattore più rilevante sembra essere la fine della guerra fredda, che ha allentato le tensioni internazionali e ha ridotto il sostegno fornito da americani e sovietici agli eserciti amici nei Paesi in via di sviluppo. I combattimenti nelle nazioni più povere si nutrono degli approvvigionamenti di armi dall’estero. Con la riduzione del mercato internazionale di armi e la maggiore difficoltà che incontrano molti paesi in via di sviluppo nel procurarsi armamenti pesanti, le fazioni in lotta nelle nazioni più povere sono più motivate a cercare una soluzione pacifica ai conflitti. Ad esempio, il lungo e violento conflitto in Angola è stato sostenuto da uno strano mix di armi sovietiche, americane, cubane e sudafricane fornite a molteplici fazioni. Quando queste nazioni hanno interrotto gli approvvigionamenti di armi, i leader delle fazioni si sono seduti loro malgrado al tavolo delle trattative.

    Un’altra ragione della diminuzione delle guerre è stato l’aumento delle operazioni di peacekeeping. Il mondo spende ogni anno di più in questo tipo di azioni, che si stanno dimostrando un eccellente investimento. Migliaia di soldati e unità di peacekeeping dell’Onu, della Nato, americani e di altre organizzazioni pattugliano le aree più turbolente del pianeta, con un costo di almeno 3 miliardi di dollari l’anno: in termini economici è molto più efficace prevenire i conflitti che dover poi intervenire con la forza.


    La guerra forse potrà finire...

    La diffusione della democrazia ha rappresentato un altro importante contributo alla diminuzione delle guerre. Nel 1975, solo in un terzo delle nazioni del mondo si tenevano vere elezioni con più candidati; oggi la percentuale ha raggiunto i due terzi ed è in continua crescita. Negli ultimi vent’anni, circa 80 paesi hanno adottato una forma di governo democratica, mentre gli spostamenti in senso opposto sono stati minimi. I leader dei paesi in via di sviluppo sono sempre più consapevoli del fatto che le nazioni libere sono anche le più forti e le più ricche, e questa constatazione crea una motivazione molto forte per la diffusione della libertà.

    Per le grandi potenze, il deterrente nucleare ha rappresentato un ovvio fattore di limitazione dei conflitti. La bomba atomica ha fatto la sua comparsa nel 1945 e l’ultimo combattimento tra grandi potenze, quello tra gli Stati Uniti e la Cina, si è concluso poco dopo, nel 1953. Dal 1871 al 1914, l’Europa ha goduto di quasi mezzo secolo di pace; i 52 anni trascorsi dalla fine dell’ultima guerra tra grandi potenze rappresentano il periodo di pace più lungo dalla nascita del moderno sistema di stati.

    È possibile che le guerre diminuiscano a causa del progresso culturale? Questa ipotesi sembra più azzardata. La natura umana ci ha deluso molte volte nella storia. Alcuni hanno sostenuto che la filosofia militarista sia stata distrutta con la Seconda Guerra Mondiale, quando gli stati dediti totalmente allo sforzo bellico e alla conquista violenta sono stati non solo sconfitti, ma anche ridotti in macerie dalle nazioni libere, inizialmente restie a partecipare al conflitto. La Seconda Guerra Mondiale ha rappresentato il trionfo della libertà sul militarismo. 

    Esiste anche la possibilità che l’enorme rilevanza dell’economia nella vita moderna svolga un ruolo importante nella limitazione delle guerre. Gli stati legati da relazioni commerciali sono forse meno inclini a combattersi l’un l’altro: se nascesse un conflitto tra la Cina e gli Stati Uniti, è probabile che entrambe le economie subirebbero un crollo. È vero che, anche nei decenni che hanno preceduto la Prima Guerra Mondiale, si riteneva che l’intensificazione del commercio avrebbe prevenuto lo scoppio di una guerra. Ma è altrettanto vero che le circostanze attuali sono molto diverse da quelle del tardo XX secolo. Prima della Prima Guerra Mondiale, le grandi potenze coltivavano ancora l’illusione che si potesse fare una guerra senza causare una devastazione generale; le due Guerre Mondiali sono state iniziate da governi convinti di poterle sfruttare per acquisire una posizione di vantaggio. Oggi, nessun governo importante sembra credere che la guerra rappresenti la strada migliore per ottenere un vantaggio nazionale o economico; il commercio sembra offrire prospettive molto più promettenti.

    Il compianto economista Julian Simon sosteneva che, in un’economia basata sulla conoscenza, le persone e le loro capacità intellettuali sono più importanti delle risorse fisiche, e che perciò le vite dei cittadini valgono più di qualsiasi oggetto che si possa conquistare con la guerra. Simon aveva una visione fortemente ottimistica — riteneva che i governi fossero fondati sulla ragione — ma esiste comunque la possibilità che questa sua visione si avveri. Già oggi, nella maggior parte delle nazioni occidentali la vita dei cittadini possiede un valore economico superiore a quello dei territori o delle ricchezze che si potrebbero acquisire con un conflitto. La progressiva diffusione dell’economia basata sulla conoscenza potrebbe far diminuire parallelamente l’importanza delle risorse fisiche e, d’altra parte, accrescere il valore della vita. E questo è indubbiamente un progresso culturale.

    Gregg Easterbrook

    Redattore capo di «The New Republic»

     

     

    Certo il numero dei conflitti sta diminuendo ma bisogna dire che è nata una nuova forma di guerriglia: il TERRORISMO.

    Il terrorismo è una forma di lotta politica che consiste in una successione di azioni clamorose, violente e premeditate (attentati, omicidi, stragi, sequestri, sabotaggi, ecc.) ai danni di nazioni, governi, gruppi etnici o fedi religiose. Tutte le azioni terroristiche hanno per scopo principale non la distruzione e la morte generate, anche se grandi, ma la risonanza mediatica che queste azioni hanno: lo scopo del terrorismo è la modifica (o la distruzione) dello status quo sfruttando i mass-media come cassa di risonanza che amplifica le gesta dei gruppi terroristici e ne crea la "leggenda" e un'aura di potenza che richiama nuovi aderenti alla causa e scoraggia la popolazione dall'opporsi.


    L'attentato alle Torri Gemelle l'undici settembre 2001

    Per questo motivo molte azioni terroristiche prendono di mira persone, monumenti, edifici o luoghi con un forte valore simbolico e molto presenti nell'immaginario popolare: ciò che importa nell'attentato terroristico, oltre al danno in sè, è fare in modo che si parli molto del danno provocato. Funzionale a questo effetto di risonanza è anche l'efferatezza, la ferocia e l'enormità dei gesti stessi di distruzione: sequestrare 100 bambini in una scuola è più efficace, ai fini della strategia del terrore, che sterminare 100 adulti in una caserma, perché il risalto mediatico dato all'evento (l'audience, se vogliamo) sarà maggiore. Per questo motivo il terrorismo propriamente detto è un fenomeno caratteristico del XX secolo, il primo periodo storico in cui l'umanità dispone di mass media.

    Generalmente i gruppi terroristici sono organizzazioni segrete costituite da un numero ridotto di individui: a volte i terroristi si considerano l'avanguardia di un costituendo esercito, dei guerriglieri che combattono per i diritti di un gruppo o per una ideologia. Per sua stessa natura (imporre a tanti la volontà di pochi) il terrorismo è antidemocratico e tende all'instaurazione di una dittatura. Un movimento terroristico che ha successo può effettivamente portare a una resistenza armata e/o alla costituzione di un esercito guerrigliero, nel qual caso tattica e strategia cambiano per adattarsi a uno scontro più aperto, e anche la politica del movimento subisce delle modifiche, diventando meno radicale e più concreta.

     

     



     


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