Cartina fisica dell'America del nord

La violazione dei diritti umani e la loro evoluzione negli Stati Uniti d'America è complessa e legata in primo luogo al rapporto fra la maggioranza bianca di origine europee (in particolare anglosassoni) e le minoranze etniche presenti nel paese. E' significativa, inoltre, l'importanza che ha assunto il ruolo degli Stati Uniti nello scenario internazionale, in particolare dopo gli attentati terroristici dell'11 settembre e l'inizio della cosiddetta "guerra al terrore". E' opportuno tracciare l'evoluzione dei diritti umani nell'America del nord ripercorrendo il tema della discriminazione razziale, in particolare contro gli indiani d'America e gli afroamericani, l'evoluzione dei diritti delle donne e le limitazioni dei diritti civili.

Evoluzione dei diritti umani nella storia americana

I primi emendamenti della Costituzione del 1787, il cosiddetto Bill of Rights, garantiscono specificamente i diritti di ciascuna persona, sia per quanto riguarda la libertà di espressione, associazione, stampa, religione, sia relativi al diritto di avere un giusto processo e di risultare "pari" di fronte alla legge. A fronte di questa tensione ideale verso la realizzazione di una comunità politica basata sul rispetto dei diritti inalienabili dell'uomo, la discriminazione di tali diritti, soprattutto per quanto riguarda l'appartenenza razziale, ha caratterizzato sin dall'inizio l'esperienza americana. In vero, la stessa Costituzione riconosceva la distinzione tra "persone libere" e "gli indiani e tutte le altre persone". Egualmente, fino al 1808, si riconosceva la possibilità di importare persone, un riferimento esplicito alla pratica dell'importazione di schiavi. La schiavitù era pertanto sancita dalla Costituzione, anche se il termine non veniva propriamente utilizzato. La discriminazione non si limita esclusivamente alla pratica della schiavitù. E' indubbiamente opportuno ricordare il rapporto tra i coloni europei e la popolazione aborigena degli indiani d'America, che costituisce l'altro nodo fondamentale che accompagna lo sviluppo dello Stato americano. A partire  dall'indipendenza americana, il trattamento degli amerindi è caratterizzato dal riconoscimento di diritti diversi (se non dall'assenza di diritti) rispetto a quelli che spettano agli uomini liberi. Per esempio gli indiani non avevano titolo assoluto sulla terra (non potevano quindi disporne pienamente) . Tale diritto di proprietà, infatti, non veniva riconosciuto che agli "abitanti civilizzati", cioè i coloni di origine europea. La logica di tale negazione di diritti sta proprio nella non applicabilità agli aborigeni delle stesse norme applicate, invece, ad individui che risiedono nel suddetto territorio e che appartengono di conseguenza alla "civiltà". Nel corso della storia si assiste anche a una "pulizia etnica", causata in primo luogo dall'espansione degli Stati Uniti, che ha fatto venir meno per le tribù la possibilità di una pur minima forma di autogoverno. La scelta di "segregazione" lasciò però la maggior parte della popolazione indiana in condizioni di estrema miseria; questa fu una delle ragioni dei numerosi scontri tra tribù e l'esercito degli Stati Uniti. Tra la fine dell' Ottocento e l'inizio del Novecento, se da un lato venivano riconosciuti alcuni diritti di autonomia alle tribù, dall'altro continuava il processo di assimilazione attraverso l'unificazione delle pratiche amministrative. Nell'1934 l'Indian Reorganization Act aveva garantito ad alcune tribù (le cosiddette "tribù riconosciute") un certo grado di autonomia che comprendeva la possibilità di formare un ordinamento istituzionale e giudiziario autonomo al proprio interno. Tuttavia, soltanto a partire dagli anni Settanta il cambiamento nei rapporti tra stato e amerindi è tale da poter considerare aperto un nuovo periodo caratterizzato dal riconoscimento del diritto di autodeterminazione per le popolazioni aborigene. In particolare con l'amministrazione di William J. Clinton negli anni Novanta è stato riconosciuto il diritto delle tribù a trattare col governo degli Stati Uniti in posizione almeno formalmente paritaria.


Immagine di un Amerindo

Un altro elemento caratterizzante della protezione dei diritti umani negli Stati Uniti è legato alla schiavitù e alla segregazione razziale a cui è soggetta la popolazione afroamericana. Al momento dell'Indipendenza, negli stati del Nord la pratica della schiavitù era sostanzialmente assente, mentre costituiva la base del sistema economico del Sud, dominato dalla coltivazione del cotone alla quale si dedicava la maggior parte della popolazione nera. Ma la vittoria del Nord in questa guerra civile segna l'inizio di una "nuova era", grazie anche al presidente Abraham Lincoln, che nel 1862 proclamò la libertà degli schiavi in tutto il territorio americano. Fra il 1868 e il 1870 vengono approvati altri due emendamenti della costituzione, che riconoscono rispettivamente la piena cittadinanza e il diritto di voto ai cittadini neri, che, solo nel Nord, cominciano a partecipare effettivamente alla vita politica e sociale della nazione. Ci si presenta in maniera diversa la realtà del Sud, dove, dal 1876, con l'istituzione delle leggi Jim Crow, si verificò la sottomissione della popolazione nera, in modo da mantenerla in uno status simile a quello in cui viveva durante la schiavitù. In sostanza queste leggi erano un sistema di completa separazione fra la popolazione  bianca e quella afroamericana, situazione che coinvolge il sistema scolastico e quello sanitario, così come l'uso di servizi di trasporto pubblici e la vita in luoghi come biblioteche, teatri e ristoranti. Tale situazione dura quasi un secolo, fino al 1964.

Percentuali di atti violenti contro la persona subiti dagli indiani americani, 1992 - 2001
Razza dei responsabili di atti violenti Atti violenti Aggressioni sessuali Rapine Aggressioni gravi
Bianco 57 78 57 58
Neri 9 8 17 10
Altri 34 14 27 32
Media annuale del numero di crimini 116.050 5.919 9.090 28.104

Nei primi decenni del Novecento, per far fronte a questi problemi, si sviluppano i primi movimenti dei diritti civili. E dagli anni Trenta, il New Deal di Franklin D. Roosevelt segna una svolta nella storia dello Stato americano, che inizia a promuovere la condizione sociale delle fasce più deboli della popolazione. Lo sfondo storico è caratterizzato anche dalle due guerre mondiali, alle quali gli Stati Uniti partecipano e nelle quali molti soldati afro-americani combattono e muoiono per difendere gli interessi della nazione. La fine ufficiale della segregazione razziale avviene comunque prima per le forze armate che per la popolazione civile, solo nel 1948. Ed è tra il 1954 e il 1964 (anno in cui il Congresso approva il Civil Rights Act) che il movimento per i diritti civili (ricordiamo la politica non violenta attuata da Martin Luter King, 1929-1968) è più attivo. Con il Civil Rights Act vengono eliminati i fondamentali giuridici di tale fenomeno, e le leggi Jim Crow sono definitivamente abolite. Inoltre, la nuova legge prevedeva che il ministro della Giustizia potesse rappresentare lo stato in processi al fine di promuovere le misure antidiscriminatorie e azioni per rendere efficaci tali misure. Più complessa è la questione di come questo processo abbia contribuito a portare l'America verso un'effettiva eguaglianza dei diritti  per la popolazione afro-americana. Infatti, ai giorni nostri, un terzo degli afro-americani sono considerati "classe media": sindaci, liberi professionisti, magistrati. Tra questi almeno tre figure sono di importanza nazionale: il generale Colin Powell, che è stato capo di Stato Maggiore delle forze armate e segretario di Stato; Condoleeza Rice, ex consigliere alla Casa Bianca e ora segretario di Stato, e il giudice Thomas, membro della Corte Suprema. In primo luogo si potrebbe considerare la difesa del sistema economico, e in particolare i diritti dei lavoratori. Per quanto la libertà d'associazione sia stata per tradizione tutelata dalla Corte Suprema, le associazioni e i movimenti dei lavoratori, fra la fine dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento sono stati spesso oggetto di discriminazioni da parte dei poteri pubblici. Si assiste, infatti, sul finire del XIX secolo a scontri tra operai e forze di polizia. La vicenda celebre di Nicola Sacco  e Bartolomeo Vanzetti, giustiziati negli anni venti dopo un processo molto discusso, testimonia come tanto più la discriminazione colpiva esponenti radicali quando questi non erano cittadini americani ma immigrati appartenenti a minoranze etniche.


Nicola Sacco & Bartolomeo Vanzetti

Dal primo Novecento e poi anche con l'avvento della guerra fredda la paura del socialismo si lega ad un sentimento xenofobo , alla cui base sta il timore per le masse di immigrati. Nella seconda guerra mondiale, a cui gli Stati Uniti parteciparono, ricordiamo particolarmente la vicenda del cosiddetto internamento dei cittadini giapponesi-americani. Circa 120.000 persone di origine giapponese (fra cui 90.000 aventi la cittadinanza americana) furono deportate in strutture detentive all'interno del paese. Tale trasferimento avvenne nel 1942 con la costituzione di apposite strutture sotto controllo militare, dalle quali era vietata l'uscita. In alcuni campi erano anche detenuti cittadini di altri paesi in guerra negli Stati Uniti: alcune migliaia di cittadini italiani e tedeschi che risiedevano nell'America del nord vennero internati perchè ritenuti sovversivi, a causa della loro appartenenza etnica.

La condizione della donna in America

Come anche in altri contesti mondiali, per quanto riguarda la condizione della donna,  l'estensione dei suoi diritti è il frutto di un lungo processo storico ed è legato allo sviluppo di un attivo movimento per l'avanzamento dei diritti. Dalla metà dell'Ottocento una legge federale riconosce alle donne sposate il diritto di mantenere la proprietà a proprio nome. Si posero così anche le basi per un'effettiva parità della donna nel rapporto matrimoniale. Nacquero gruppi per la salvaguardia dei diritti delle donne; ricordiamo in particolare il National Women Suffrage Association, che mirava al riconoscimento del diritto di voto. L'avanzamento dei diritti delle donne avviene lentamente ma, nel 1963 l'Equal Pay Act riconosce il diritto delle donne all'uguaglianza del trattamento economico rispetto all'uomo per uguali prestazioni economiche e il Civil Right Act del 1964 contiene specifiche norme antidiscriminatorie delle donne sul luogo di lavoro. Per quanto riguarda il più specifico problema della partecipazione alla vita politica, le donne hanno cominciato solo nel recente passato ad occupare cariche importanti (Condoleeza Rice è la prima donna divenuta segretario di stato, nel 2005), anche se rimangono sottorappresentate nella gran parte delle posizioni elettive rispetto al loro peso demografico.


Condoleeza Rice

Nel complesso il livello di rispetto dei diritti umani delle donne e la loro possibilità di partecipare attivamente alla vita sociale, economica e politica del paese sono fra i più avanzati del mondo. La principale nota negativa, ad oggi, riguarda non tanto la situazione delle donne in generale, quanto quella delle donne che appartengono ai gruppi sociali più svantaggiati: poveri, minoranze etniche e razziali, immigrati.

Sostanzialmente "la libertà" è il fulcro attorno al quale ruotano i diritti degli Stati Uniti. La costruzione di uno stato sociale più attento  alla dimensione dell'equità o della "libertà dei bisogni". In questo senso un'analisi dello sviluppo dei diritti umani negli Stati Uniti non può prescindere dalla constatazione che tale evoluzione abbraccia una serie di diritti dell'individuo in senso stretto, molti legati all'idea di libertà personale e in primis ai bisogni delle classi più povere. Il welfare state americano è proprio lo specchio di questa tendenza.

La pena di morte in America del Nord

Un altro grande problema nella protezione dei diritti umani negli Stati Uniti è legato indubbiamente alla pena di morte. Pur essendo il paese più sviluppato del mondo, gli Stati Uniti non sono riusciti finora ad eliminare dal proprio ordinamento giuridico la pratica della pena di morte, che, invece, è stata abolita in quasi tutta l'Europa. L'ottavo emendamento della costituzione americana prevede che non possano essere eseguite punizioni "crudeli e inusuali". Per quanto questo emendamento sia stato spesso criticato per la sua vaghezza, è sull'interpretazione di tale norma che verte il dibattito sulla pena di morte negli Stati Uniti. Dal punto di vista della legittimità della pena di morte, per quanto ci sia un crescente accordo anche a livello internazionale sulla sua natura di trattamento "crudele, inumano e degradante" (tratto da una definizione di Amnesty International) tale visione non è attualmente condivisa nella giurisprudenza americana. Secondo la Corte Suprema, il problema centrale non era tanto stabilire se la pena di morte fosse costituzionale di per sé, quanto avere la certezza che tale pena fosse inflitta solo in circostanze esclusive. La decisione della pena capitale sarebbe stata comminata solo dopo un'attenta riflessione della giuria sulla natura del crimine vista dalla parte del condannato , che deve aver commesso un crimine particolarmente grave ed essere privo di qualsiasi attenuante. La Corte ha, inoltre, recentemente stabilito che la pena di morte non può essere comminata a persone mentalmente ritardate (nel 2002) e a minori di 18 anni (nel 2005), per quanto gravi possano essere i reati da essi commessi. Nella pratica, dopo un breve periodo fra il 1973 e il 1976 durante il quale l'applicazione della pena fu sospesa in virtù della sentenze della Corte, le esecuzioni sono ricominciate nel 1977. Da allora oltre mille persone sono state giustiziate negli Stati Uniti e oggi negli States la legislazione prevede la pena di morte in 38 stati. Esistono, fortunatamente, anche i victims' rights, i "diritti delle vittime" che consisterebbero nel fatto che gli autori di crimini gravi paghino con la loro vita tali azioni. Di fronte a molte difficoltà incontrate, alcuni gruppi attivisti sono riusciti ad ottenere almeno l'abolizione dei metodi più brutali con i quali la punizione viene eseguita, come per esempio l'impiccagione e la sedia elettrica.


Immagine di un'antica sedia elettrica

Inevitabilmente, anche nel dibattito sulla pena di morte si innesta il tema della discriminazione razziale. Molte ricerche hanno infatti sottolineato che, a parità di condizioni, un condannato afroamericano (e, più recentemente, ispanico) ha più probabilità di essere mandato a morte di un bianco. Anche il General Accounting Office (GAO) ha notato come esista un'evidente tendenza alla disparità di trattamento per quanto riguarda la condanna a morte su base razziale. E' importante ricordare, comunque, che per quanto riguarda l'andamento delle condanne a morte, si è registrata una drastica riduzione negli ultimi anni, soprattutto a partire dal 1998, quando le condanne a morte sono progressivamente passate da oltre 250 all'anno fino alle 125 attuali. A fronte di questi miglioramenti generali, si registrano tuttavia immutate le tendenze relative alle disparità razziali: il 73% delle esecuzioni era per l'omicidio di un bianco e nessun bianco è stato condannato a morte per l'omicidio di un nero. Per quanto riguarda la diminuzione complessiva delle condanne e delle esecuzioni, un'analisi del Death Penalty Information Center rileva cinque fondamentali ragioni che contribuirebbero a spiegarla.

-In primo luogo è aumentata la consapevolezza delle possibilità che errori giudiziari condannino innocenti.

-In secondo luogo all'interno dell'opinione pubblica americana si è sviluppata l'idea che una sentenza all'ergastolo senza possibilità di uscita per buona condotta è un'alternativa ragionevole alla pena di morte.

-In terzo luogo, negli ultimi anni le istituzioni religiose, e soprattutto la chiesa cattolica, hanno attivamente denunciato la natura inumana della pena di morte.

-In quarto luogo, il mantenimento delle strutture necessarie per l'esecuzione dei condannati a morte costerebbe notevolmente di più, in confronto ai costi della loro detenzione, anche a vita.

-In ultimo e quinto luogo, alcune voci dell'establishment americano si sono di recente schierate apertamente per la sua abolizione.

La situazione è comunque differente tra stato e stato. Oggi sono 38 su 50 gli stati che prevedono la pena di morte (mediante gas, scarica elettrica o somministrazione endovena di veleni).


Immagine tratta da un articolo pubblicato il 22 aprile sul Corriere della Sera, illustrante uno schema relativo alle modalità con cui ogni stato americano ha
eseguito le condanne a morte dal 1976 a oggi.