Torna a Edipo nella letteraturaL'EDIPO RE DI SENECA





Per comprendere a fondo il significato della tragedia senecana è necessario confrontarla con l'Edipo re di Sofocle.
Il confronto tra l'Edipo Re di Sofocle (opera che va situata tra il 430 e il 425 a.C.) e l'Edipo Re di Seneca, vissuto ai tempi dell'imperatore Nerone (I sec. d.C.), potrebbe sembrare improponibile stante la grandezza smisurata del primo. Certo Sofocle è il modello di Seneca.
Ma anche l'Edipo di Seneca ha nel riflesso una sua autonomia, una validità poetica e una teatralità.
Il confronto tra le due tragedie è incentrato sulla critica del filologo Paduano (Lunga storia dell'Edipo Re). Per semplificare l'esposizione di questo tema, lo abbiamo diviso in sei punti:

  1. Il tema della regalità
  2. Il quesito della sfinge
  3. L'ironia tragica
  4. Il tema della paura
  5. Lo spettro di Laio
  6. L'accecamento

 


Il tema della regalità
Innanzitutto bisogna dire che l'indole e le funzioni del monarca  non sono più come in Sofocle  istintive ed essenziali ad Edipo, cui vengono addirittura imposte.

Questa prospettiva, però, ha senso solo in relazione all'intero pensiero senecano: per questo monarca lo stesso potere è un nucleo irriducibile del male, sia fatto che subito,  incatenato al rapporto tra violenza oggettiva e angoscia soggettiva. Ma ad Edipo il potere giunge  non per il paradosso di una punizione  che si identifica con la soddisfazione dei desideri, ma per quello di una maledizione che frustra il suo rifiuto razionale.


Cratere di età classica con
figure di attori del dramma
satiresco.

La fuga da Corinto apre solo un breve intervallo di libertà che ricade in una seconda responsabilità: infatti questo è l'aspetto più greve che assume il suo essere sovrano di Tebe, spogliato dalle qualità attive e benefiche che rivestiva i Sofocle, inteso non più nel quadro di una opposizione contro la peste, il solo mezzo e l'unica speranza di annientarla, ma nel quadro di un'assimilazione o un'equivalenza con essa. Questa equivalenza è l'insieme di due antonomasie: quella che vede nel re l'obiettivo privilegiato del malessere generale, e quella che vede nella peste l'esempio di instabilità che costituisce la base naturale del potere. Fondamentale è la prima, che viene però rideterminata dalla figura simbolica del sovrano, che si espone nella sua peculiare incolumità fisica. Questo Edipo promette l'aiuto che nessuno gli richiede; non palesa la sua volontà di aver ordinato la consultazione dell'oracolo, e non è lui a chiamare Tiresia, e di fronte a lui non reclama, come secondo la morale di Sofocle, le prerogative del suo ruolo all'interno della società.  Quella dimensione tirannica che in Sofocle era esclusa per il prevalere della fiducia nella giustizia, qui resta esclusa per la totale sfiducia in qualunque forma di potere: qui è affidato all'unione tra diversi momenti del testo quello stesso compito di demistificazione che nel film di Pasolini è affidato alla gestualità e alla utilizzazione degli strumenti di espressione visiva. 


Il quesito della sfinge
La vittoria sul quesito della Sfinge che porta automaticamente alla distruzione di essa é il fondamento del regno di Edipo e della capacità intellettuale che delinea la sua indole: il collegamento tra la vittoria passata e la speranza futura, che nel tragico greco animava la necessità di un aiuto rivolta dal sacerdote di Zeus al sovrano in nome dell'intera popolazione tebana, e assicurava un' integrazione  tra Edipo e i suoi "figli", nella tragedia di Seneca ha mantenuto il suo lato soggettivo. Infatti quando Creonte, il cognato di Edipo, ritornato da Delfi dopo aver consultato l'oracolo, espone il carattere misterioso e inquietante della risposta della divinità, Edipo ribatte mostrando un atteggiamento di arroganza che cela un sentimento di angoscia e insicurezza:

                            fare, sit dubium licet:
ambigua soli noscere Oedipodae datur.

"Per quanto dubbio sia il responso, parla:
al solo Edipo è dato di conoscere l'ambiguità".
(vv. 215-216)

Non si può però credergli cioè credere che questa frase non sia una sorta di "esorcizzazione" della paura che la terribile Sfinge non sia stata realmente sconfitta e che al contrario siano i suoi poteri misteriosi ed enigmatici a determinare ora la sofferenza del popolo tebano. Lo stesso percorso lo troviamo sia in Sofocle come un effetto della ironia tragica, sia in Seneca ma come  prodotto della attività interiore. Tale rielaborazione della attività interiore è stata focalizzata da V. Faggi nella introduzione all'opera di Seneca con questa affermazione:  "ricordiamo infatti  che Edipo percorre un viaggio nel buio della coscienza, compiuto sotto la spinta di un senso di colpa latente in tutta la società". Nonostante Edipo abbia agito per smentire l'oracolo, la profezia oracolare rimane sempre per lui un'ossessione non risolta: come voleva Freud è stato assimilato e riconosciuto come parte propria della psiche.


L'ironia tragica


Testa bronzea raffigurante
Seneca.

 
Nella tragedia senecana l'ironia tragica unisce due mondi non lontani e incomunicabili ma che interferiscono tra loro. In Seneca l'identità segreta tra giudice e colpevole viene enfatizzata fino ad invocare sul capo di Edipo il parricidio e l'incesto. Tutto ciò non può essere ascritto all'azione silenziosa del dio, ma si avvale della complicità dell'uomo. Paduano condivide la lettura di Gerhard Müller, secondo il quale l'azione della tragedia è il tentativo realizzato della coscienza di distruggere l'inconscio. Il nodo tragico non è più costituito dall'urto tra persona umana e legge divina, uno stimolo a reintegrare un armonico equilibrio tra cielo e terra.



Il tema della paura
All'interno della tragedia senecana la paura svolge un ruolo fondamentale: è una sorta di attesa e proiezione della catastrofe della pestilenza ed è, inoltre, il principio responsabile   del diverso percorso che rispetto al  tragico greco induce alla stessa appropriazione dei fatti passati. In Seneca la distanza che divide Edipo dalla conoscenza della verità è diminuita  dalla paura di scoprire una verità, che si dimostrerà sconvolgente e devastante per la sua psiche. La paura perde, così, la peculiarità, che deteneva in Sofocle, di cesura assoluta  e l'intero svolgimento della tragedia ne risulta oppresso e costretto ad una implicitezza costante. La paura espressa da Edipo nel prologo  viene decisamente aumentata quando il sovrano scorge da lontano Creonte che si sta avvicinando e ogni suo passo rappresenta per Edipo una maggiore sofferenza. Al contrario l'Edipo di Sofocle nonostante celi nel suo atteggiamento una sorta di angoscia mostra ottimismo, interpretando favorevolmente l'aspetto del cognato. Qua è forte il contrasto con il modello sofocleo poiché anche l'Edipo di Sofocle è costretto ad affrontare la medesima ambivalenza cioè il voler conoscere e la paura di conoscere la verità, ma essa rimane esterna rispetto a una chiarezza interiore.Infine se in Sofocle è esagerato dire che l'episodio della morte del padre è stato dimenticato da Edipo, in Seneca è tropo poco perché quello che viene rimosso è indicato dalla angoscia e dalla fatica che rappresentano il riappropriarsi del passato. Qui la paura si trova davanti la rassicurazione dettata dalla volontà innocente. Il sentimento della paura raggiungerà, però il culmine con l'arrivo del messo di Corinto e la successiva apparizione di Forbante.


Lo spettro di Laio
La peculiarità più evidente del dramma senecano è l'evocazione e l'apparizione dello spettro di Laio. Nonostante sia presente solo nel racconto di Creonte, riceve da questo la delega a parlare e diviene un potente personaggio virtuale. Di fronte al suono delle parole di Laio si qualifica da parte di Edipo la perdita delle peculiarità simboliche proprie della paternità: il fattore che lo rende non più soggetto ma oggetto di un potere che raccoglie le più alte facoltà di giudizio e di condanna è rappresentato proprio da codesta filialità che non è, però, ribelle ma maledetta e reietta. L'efficacia dell'autorità paterna non ha luogo solo nella sottomissione filiale, ma anche nella complicità che da parte del condannato individua la massima evoluzione del senso di colpa. L'explicit della tragedia pronunciato da Edipo riprende le parole di Laio nel definire la dolcezza, da un lato innocente e dall'altro crudele del mondo liberato dal colpevole.


L'accecamento


Edipo e Giocasta: miniatura
da un codice medioevale
contenente le tragedie di
Seneca.

Edipo arriva alla decisione di accecarsi con un enorme sforzo ed una grande tensione mentale (utere ingenio v. 947). Nel momento dell'estrema scelta Edipo si presenta come vincitore e l'immagine del capro espiatorio diventa attiva, fino ad osare, dopo aver quindi pagato il fio in prima persona, di chiedere agli dei di risparmiare la sua terra. Lo stesso accecamento era stato, sia pure enigmaticamente, previsto dal padre, in una terza possibilità di via che esclude sia il cielo sia la terra: "striscerà incerto della strada, tastando il suo triste cammino con un bastone da vecchio". Questa terza via ci indica come non esista una reale distinzione tra l'azione  e la sofferenza come asserisce il coro:

Fatis agimur: cedite fatis:
non sollicitae possunt curae
mutare rati stamina fusi.
Quidquid patimur mortale genus,
quidquid facimus venit ex alto.
E' il fato che ci trascina, cedete al fato:
la nostra in inquietudine non può
cambiare la fama del fuso destinato.
Tutto ciò che noi mortali soffriamo,
tutto ciò che compiamo viene dall'alto.
(vv. 980-84)