I Promessi Sposi
Capitolo I
Quel ramo del lago di Como , che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte
di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli,
vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un
promontorio a destra, e un'ampia costiera dall'altra parte; e il ponte, che ivi congiunge
le due rive, par che renda ancor più sensibile all'occhio questa trasformazione, e segni
il punto in cui il lago cessa, e l'Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove
le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l'acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi
e in nuovi seni. La costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti, scende
appoggiata a due monti contigui, l'uno detto di san Martino, l'altro, con voce lombarda,
il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo fanno somigliare a
una sega: talché non è chi, al primo vederlo, purché sia di fronte, come per esempio di
su le mura di Milano che guardano a settentrione, non lo discerna tosto, a un tal
contrassegno, in quella lunga e vasta giogaia, dagli altri monti di nome più oscuro e di
forma più comune. Per un buon pezzo, la costa sale con un pendìo lento e continuo; poi
si rompe in poggi e in valloncelli, in erte e in ispianate, secondo l'ossatura de' due
monti, e il lavoro dell'acque. Il lembo estremo, tagliato dalle foci de' torrenti, è
quasi tutto ghiaia e ciottoloni; il resto, campi e vigne, sparse di terre, di ville, di
casali; in qualche parte boschi, che si prolungano su per la montagna. Lecco, la
principale di quelle terre, e che dà nome al territorio, giace poco discosto dal ponte,
alla riva del lago, anzi viene in parte a trovarsi nel lago stesso, quando questo
ingrossa: un gran borgo al giorno d'oggi, e che s'incammina a diventar città . Ai tempi in
cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare, que1 borgo, già considerabile, era
anche un castello, e aveva perciò l'onore d'alloggiare un comandante, e il vantaggio di
possedere una stabile guarnigione di soldati spagnoli, che insegnavan la modestia alle
fanciulle e alle donne del paese, accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche
marito, a qualche padre; e, sul finir dell'estate, non mancavan mai di spandersi nelle
vigne, per diradar l'uve, e alleggerire a' contadini le fatiche della vendemmia. Dall'una
all'altra di quelle terre, dall'alture alla riva, da un poggio all'altro, correvano, e
corrono tuttavia, strade e stradette, più o men ripide, o piane; ogni tanto affondate,
sepolte tra due muri, donde, alzando lo sguardo, non iscoprite che un pezzo di cielo e
qualche vetta di monte; ogni tanto elevate su terrapieni aperti: e da qui la vista spazia
per prospetti più o meno estesi, ma ricchi sempre e sempre qualcosa nuovi, secondo che i
diversi punti piglian più o meno della vasta scena circostante, e secondo che questa o
quella parte campeggia o si scorcia, spunta o sparisce a vicenda. Dove un pezzo, dove un
altro, dove una lunga distesa di que1 vasto e variato specchio dell'acqua; di qua lago,
chiuso all'estremità o piùttosto smarrito in un gruppo, in un andirivieni di montagne, e
di mano in mano più allargato tra altri monti che si spiegano, a uno a uno, allo sguardo,
e che l'acqua riflette capovolti, co' paesetti posti sulle rive; di là braccio di fiume,
poi lago, poi fiume ancora, che va a perdersi in lucido serpeggiamento pur tra' monti che
l'accompagnano, degradando via via, e perdendosi quasi anch'essi nell'orizzonte. Il luogo
stesso da dove contemplate que' vari spettacoli, vi fa spettacolo da ogni parte: il monte
di cui passeggiate le falde, vi svolge, al di sopra, d'intorno, le sue cime e le balze,
distinte, rilevate, mutabili quasi a ogni passo, aprendosi e contornandosi in gioghi ciò
che v'era sembrato prima un sol giogo, e comparendo in vetta ciò che poco innanzi vi si
rappresentava sulla costa: e l'ameno, il domestico di quelle falde tempera gradevolmente
il selvaggio, e orna vie più il magnifico dell'altre vedute.
Per una di queste stradicciole , tornava bel bello dalla
passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell'anno 1628, don Abbondio,
curato d'una delle terre accennate di sopra: il nome di questa, né il casato del
personaggio, non si trovan nel manoscritto, né a questo luogo né altrove. Diceva
tranquillamente il suo ufizio, e talvolta, tra un salmo e l'altro, chiudeva il breviario,
tenendovi dentro, per segno, l'indice della mano destra, e, messa poi questa nell'altra
dietro la schiena, proseguiva il suo cammino, guardando a terra, e buttando con un piede
verso il muro i ciottoli che facevano inciampo nel sentiero: poi alzava il viso, e, girati
oziosamente gli occhi all'intorno, li fissava alla parte d'un monte, dove la luce del sole
già scomparso, scappando per i fessi del monte opposto, si dipingeva qua e là sui massi
sporgenti, come a larghe e inuguali pezze di porpora. Aperto poi di nuovo il breviario, e
recitato un altro squarcio, giunse a una voltata della stradetta, dov'era solito d'alzar
sempre gli occhi dal libro, e di guardarsi dinanzi: e così fece anche quel giorno. Dopo
la voltata, la strada correva diritta, forse un sessanta passi, e poi si divideva in due
viottole, a foggia d'un ipsilon: quella a destra saliva verso il monte, e menava alla
cura: l'altra scendeva nella valle fino a un torrente; e da questa parte il muro non
arrivava che all'anche del passeggiero. I muri interni delle due viottole, in vece di
riunirsi ad angolo, terminavano in un tabernacolo, sul quale eran dipinte certe figure
lunghe, serpeggianti, che finivano in punta, e che, nell'intenzion dell'artista, e agli
occhi degli abitanti del vicinato, volevan dir fiamme; e, alternate con le fiamme,
cert'altre figure da non potersi descrivere, che volevan dire anime del purgatorio: anime
e fiamme a color di mattone, sur un fondo bigiognolo, con qualche scalcinatura qua e là .
Il curato, voltata la stradetta, e dirizzando, com'era solito, lo sguardo al tabernacolo,
vide una cosa che non s'aspettava, e che non avrebbe voluto vedere. Due uomini stavano , l'uno dirimpetto all'altro, al confluente, per dir
così, delle due viottole: un di costoro, a cavalcioni sul muricciolo basso, con una gamba
spenzolata al di fuori, e l'altro piede posato sul terreno della strada; il compagno, in
piedi, appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul petto. L'abito, il portamento, e
quello che, dal luogo ov'era giunto il curato, si poteva distinguer dell'aspetto, non
lasciavan dubbio intorno alla lor condizione. Avevano entrambi intorno al capo una
reticella verde, che cadeva sull'omero sinistro, terminata in una gran nappa, e dalla
quale usciva sulla fronte un enorme ciuffo: due lunghi mustacchi arricciati in punta: una
cintura lucida di cuoio, e a quella attaccate due pistole: un piccol corno ripieno di
polvere, cascante sul petto, come una collana: un manico di coltellaccio che spuntava
fuori d'un taschino degli ampi e gonfi calzoni: uno spadone, con una gran guardia
traforata a lamine d'ottone, congegnate come in cifra, forbite e lucenti: a prima vista si
davano a conoscere per individui della specie de' bravi.
Questa specie, ora del tutto
perduta, era allora floridissima in Lombardia, e già molto antica. Chi non ne avesse
idea, ecco alcuni squarci autentici, che potranno darne una bastante de' suoi caratteri
principali, degli sforzi fatti per ispegnerla, e della sua dura e rigogliosa vitalità .
Fino dall'otto aprile dell'anno
1583, l'Illustrissimo ed Eccellentissimo signor don Carlo d'Aragon, Principe di
Castelvetrano, Duca di Terranuova, Marchese d'Avola, Conte di Burgeto, grande Ammiraglio,
e gran Contestabile di Sicilia, Governatore di Milano e Capitan Generale di Sua Maestà
Cattolica in Italia, pienamente informato della intollerabile miseria in che è vivuta
e vive questa città di Milano, per cagione dei bravi e vagabondi, pubblica un bando
contro di essi. Dichiara e diffinisce tutti coloro essere compresi in questo bando, e
doversi ritenere bravi e vagabondi, i quali, essendo forestieri o del paese, non hanno
esercizio alcuno, od avendolo, non lo fanno... ma, senza salario, o pur con esso,
s'appoggiano a qualche cavaliere o gentiluomo, officiale o mercante... per fargli spalle e
favore, o veramente, come si può presumere, per tendere insidie ad altri... A tutti
costoro ordina che, nel termine di giorni sei, abbiano a sgomberare il paese, intima la
galera a' renitenti, e dà a tutti gli ufiziali della giustizia le più stranamente ampie
e indefinite facoltà , per l'esecuzione dell'ordine. Ma, nell'anno seguente, il 12 aprile,
scorgendo il detto signore, che questa Città è tuttavia piena di detti bravi...
tornati a vivere come prima vivevano, non punto mutato il costume loro, né scemato il
numero, dà fuori un'altra grida, ancor più vigorosa e notabile, nella quale, tra
l'altre ordinazioni, prescrive:
Che qualsivoglia persona, così
di questa Città , come forestiera, che per due testimonj consterà esser tenuto, e
comunemente riputato per bravo, et aver tal nome, ancorché non si verifichi aver fatto
delitto alcuno... per questa sola riputazione di bravo, senza altri indizj, possa dai
detti giudici e da ognuno di loro esser posto alla corda et al tormento, per processo
informativo... et ancorché non confessi delitto alcuno, tuttavia sia mandato alla galea,
per detto triennio, per la sola opinione e nome di bravo, come di sopra. Tutto ciò, e
il di più che si tralascia, perché Sua Eccellenza è risoluta di voler essere
obbedita da ognuno.
All'udir parole d'un tanto signore,
così gagliarde e sicure, e accompagnate da tali ordini, viene una gran voglia di credere
che, al solo rimbombo di esse, tutti i bravi siano scomparsi per sempre. Ma la
testimonianza d'un signore non meno autorevole, né meno dotato di nomi, ci obbliga a
credere tutto il contrario. E' questi l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signor Juan
Fernandez de Velasco, Contestabile di Castiglia, Cameriero maggiore di Sua Maestà , Duca
della Città di Frias, Conte di Haro e Castelnovo, Signore della Casa di Velasco, e di
quella delli sette Infanti di Lara, Governatore dello Stato di Milano, etc. Il 5 giugno
dell'anno 1593, pienamente informato anche lui di quanto danno e rovine sieno... i
bravi e vagabondi, e del pessimo effetto che tal sorta di gente, fa contra il ben
pubblico, et in delusione della giustizia, intima loro di nuovo che, nel termine di
giorni sei, abbiano a sbrattare il paese, ripetendo a un dipresso le prescrizioni e le
minacce medesime del suo predecessore. Il 23 maggio poi dell'anno 1598, informato, con
non poco dispiacere dell'animo suo, che... ogni dì più in questa Città e Stato va
crescendo il numero di questi tali (bravi e vagabondi), né di loro, giorno e
notte, altro si sente che ferite appostatamente date, omicidii e ruberie et ogni altra
qualità di delitti, ai quali si rendono più facili, confidati essi bravi d'essere
aiutati dai capi e fautori loro,... prescrive di nuovo gli stessi rimedi, accrescendo
la dose, come s'usa nelle malattie ostinate. Ognuno dunque, conchiude poi, onninamente
si guardi di contravvenire in parte alcuna alla grida presente, perché, in luogo di
provare la clemenza di Sua Eccellenza, proverà il rigore, e l'ira sua... essendo risoluta
e determinata che questa sia l'ultima e perentoria monizione.
Non fu però di questo parere
l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don Pietro Enriquez de Acevedo,
Conte di Fuentes, Capitano, e Governatore dello Stato di Milano; non fu di questo parere,
e per buone ragioni. Pienamente informato della miseria in che vive questa Città e
Stato per cagione del gran numero di bravi che in esso abbonda... e risoluto di totalmente
estirpare seme tanto pernizioso, dà fuori, il 5 decembre 1600, una nuova grida piena
anch'essa di severissime comminazioni, con fermo proponimento che, con ogni rigore, e
senza speranza di remissione, siano onninamente eseguite.
Convien credere però che non ci si
mettesse con tutta quella buona voglia che sapeva impiegare nell'ordir cabale, e nel
suscitar nemici al suo gran nemico Enrico IV; giacché, per questa parte, la storia
attesta come riuscisse ad armare contro quel re il duca di Savoia, a cui fece perder più
d'una città ; come riuscisse a far congiurare il duca di Biron, a cui fece perder la
testa; ma, per ciò che riguarda quel seme tanto pernizioso de' bravi, certo è che esso
continuava a germogliare, il 22 settembre dell'anno 1612. In quel giorno l'Illustrissimo
ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don Giovanni de Mendozza, Marchese de la Hynojosa,
Gentiluomo etc., Governatore etc., pensò seriamente ad estirparlo. A quest'effetto,
spedì a Pandolfo e Marco Tullio Malatesti, stampatori regii camerali, la solita grida,
corretta ed accresciuta, perché la stampassero ad esterminio de' bravi. Ma questi vissero
ancora per ricevere, il 24 decembre dell'anno 1618, gli stessi e più forti colpi
dall'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don Gomez Suarez de Figueroa,
Duca di Feria, etc., Governatore etc. Però, non essendo essi morti neppur di quelli,
l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Gonzalo Fernandez di Cordova, sotto
il cui governo accadde la passeggiata di don Abbondio, s'era trovato costretto a
ricorreggere e ripubblicare la solita grida contro i bravi, il giorno 5 ottobre del 1627,
cioè un anno, un mese e due giorni prima di quel memorabile avvenimento.
Né fu questa l'ultima
pubblicazione; ma noi delle posteriori non crediamo dover far menzione, come di cosa che
esce dal periodo della nostra storia. Ne accenneremo soltanto una del 13 febbraio
dell'anno 1632, nella quale l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, el Duque de
Feria, per la seconda volta governatore, ci avvisa che le maggiori sceleraggini
procedono da quelli che chiamano bravi. Questo basta ad assicurarci che, nel tempo di
cui noi trattiamo, c'era de' bravi tuttavia.
Che i due descritti di sopra
stessero ivi ad aspettar qualcheduno, era cosa troppo evidente; ma quel che più
dispiacque a don Abbondio fu il dover accorgersi, per certi atti, che l'aspettato era lui.
Perché, al suo apparire, coloro s'eran guardati in viso, alzando la testa, con un
movimento dal quale si scorgeva che tutt'e due a un tratto avevan detto: è lui; quello
che stava a cavalcioni s'era alzato, tirando la sua gamba sulla strada; l'altro s'era
staccato dal muro; e tutt'e due gli s'avviavano incontro. Egli, tenendosi sempre il
breviario aperto dinanzi, come se leggesse, spingeva lo sguardo in su, per ispiar le mosse
di coloro; e, vedendoseli venir proprio incontro, fu assalito a un tratto da mille
pensieri. Domandò subito in fretta a se stesso, se, tra i bravi e lui, ci fosse qualche
uscita di strada, a destra o a sinistra; e gli sovvenne subito di no. Fece un rapido
esame, se avesse peccato contro qualche potente, contro qualche vendicativo; ma, anche in
quel turbamento, il testimonio consolante della coscienza lo rassicurava alquanto: i bravi
però s'avvicinavano, guardandolo fisso. Mise l'indice e il medio della mano sinistra nel
collare, come per raccomodarlo; e, girando le due dita intorno al collo, volgeva intanto
la faccia all'indietro, torcendo insieme la bocca, e guardando con la coda dell'occhio,
fin dove poteva, se qualcheduno arrivasse; ma non vide nessuno. Diede un'occhiata, al di
sopra del muricciolo, ne' campi: nessuno; un'altra più modesta sulla strada dinanzi;
nessuno, fuorché i bravi. Che fare? tornare indietro, non era a tempo: darla a gambe, era
lo stesso che dire, inseguitemi, o peggio. Non potendo schivare il pericolo, vi corse
incontro, perché i momenti di quell'incertezza erano allora così penosi per lui, che non
desiderava altro che d'abbreviarli. Affrettò il passo, recitò un versetto a voce più
alta, compose la faccia a tutta quella quiete e ilarità che poté, fece ogni sforzo per
preparare un sorriso; quando si trovò a fronte dei due galantuomini, disse mentalmente:
ci siamo; e si fermò su due piedi.
- Signor
curato, - disse un di
que' due, piantandogli gli occhi in faccia.
- Cosa comanda? - rispose subito don
Abbondio, alzando i suoi dal libro, che gli restò spalancato nelle mani, come sur un
leggìo.
- Lei ha intenzione, - proseguì
l'altro, con l'atto minaccioso e iracondo di chi coglie un suo inferiore
sull'intraprendere una ribalderia, - lei ha intenzione di maritar domani Renzo Tramaglino
e Lucia Mondella!
- Cioè... - rispose, con voce
tremolante, don Abbondio: - cioè. Lor signori son uomini di mondo, e sanno benissimo come
vanno queste faccende. Il povero curato non c'entra: fanno i loro pasticci tra loro, e
poi... e poi, vengon da noi, come s'anderebbe a un banco a riscotere; e noi... noi siamo i
servitori del comune.
- Or bene, - gli disse il bravo,
all'orecchio, ma in tono solenne di comando, - questo matrimonio non s'ha da fare, né
domani, né mai.
- Ma, signori miei, - replicò don
Abbondio, con la voce mansueta e gentile di chi vuol persuadere un impaziente, - ma,
signori miei, si degnino di mettersi ne' miei panni. Se la cosa dipendesse da me,... vedon
bene che a me non me ne vien nulla in tasca...
- Orsù, - interruppe il bravo, - se
la cosa avesse a decidersi a ciarle, lei ci metterebbe in sacco. Noi non ne sappiamo, né
vogliam saperne di più. Uomo avvertito... lei c'intende.
- Ma lor signori son troppo giusti,
troppo ragionevoli...
- Ma, - interruppe questa volta
l'altro compagnone, che non aveva parlato fin allora, - ma il matrimonio non si farà ,
o... - e qui una buona bestemmia, - o chi lo farà non se ne pentirà , perché non ne
avrà tempo, e... - un'altra bestemmia.
- Zitto, zitto, - riprese il primo
oratore: - il signor curato è un uomo che sa il viver del mondo; e noi siam galantuomini,
che non vogliam fargli del male, purché abbia giudizio. Signor curato, l'illustrissimo
signor don Rodrigo nostro padrone la riverisce caramente.
Questo nome fu, nella mente di don
Abbondio, come, nel forte d'un temporale notturno, un lampo che illumina momentaneamente e
in confuso gli oggetti, e accresce il terrore. Fece, come per istinto, un grand'inchino, e
disse: - se mi sapessero suggerire...
- Oh! suggerire a lei che sa di
latino! - interruppe ancora il bravo, con un riso tra lo sguaiato e il feroce. - A lei
tocca. E sopra tutto, non si lasci uscir parola su questo avviso che le abbiam dato per
suo bene; altrimenti... ehm... sarebbe lo stesso che fare quel tal matrimonio. Via, che
vuol che si dica in suo nome all'illustrissimo signor don Rodrigo?
- Il mio rispetto...
- Si spieghi meglio!
-... Disposto... disposto sempre
all'ubbidienza -. E, proferendo queste parole, non sapeva nemmen lui se faceva una
promessa, o un complimento. I bravi le presero, o mostraron di prenderle nel significato
più serio.
- Benissimo, e buona notte, messere,
- disse l'un d'essi, in atto di partir col compagno. Don Abbondio, che, pochi momenti
prima, avrebbe dato un occhio per iscansarli, allora avrebbe voluto prolungar la
conversazione e le trattative. - Signori... - cominciò, chiudendo il libro con le due
mani; ma quelli, senza più dargli udienza, presero la strada dond'era lui venuto, e
s'allontanarono, cantando una canzonaccia che non voglio trascrivere. Il povero don
Abbondio rimase un momento a bocca aperta, come incantato; poi prese quella delle due
stradette che conduceva a casa sua, mettendo innanzi a stento una gamba dopo l'altra, che
parevano aggranchiate. Come stesse di dentro, s'intenderà meglio, quando avrem detto
qualche cosa del suo naturale, e de' tempi in cui gli era toccato di vivere.
Don
Abbondio (il lettore se
n'è già avveduto) non era nato con un cuor di leone. Ma, fin da' primi suoi anni, aveva
dovuto comprendere che la peggior condizione, a que' tempi, era quella d'un animale senza
artigli e senza zanne, e che pure non si sentisse inclinazione d'esser divorato. La forza
legale non proteggeva in alcun conto l'uomo tranquillo, inoffensivo, e che non avesse
altri mezzi di far paura altrui. Non già che mancassero leggi e pene contro le violenze
private. Le leggi anzi diluviavano; i delitti erano enumerati, e particolareggiati, con
minuta prolissità ; le pene, pazzamente esorbitanti e, se non basta, aumentabili, quasi
per ogni caso, ad arbitrio del legislatore stesso e di cento esecutori; le procedure,
studiate soltanto a liberare il giudice da ogni cosa che potesse essergli d'impedimento a
proferire una condanna: gli squarci che abbiam riportati delle gride contro i bravi, ne
sono un piccolo, ma fedel saggio. Con tutto ciò, anzi in gran parte a cagion di ciò,
quelle gride, ripubblicate e rinforzate di governo in governo, non servivano ad altro che
ad attestare ampollosamente l'impotenza de' loro autori; o, se producevan qualche effetto
immediato, era principalmente d'aggiunger molte vessazioni a quelle che i pacifici e i
deboli già soffrivano da' perturbatori, e d'accrescer le violenze e l'astuzia di questi.
L'impunità era organizzata, e aveva radici che le gride non toccavano, o non potevano
smovere. Tali eran gli asili, tali i privilegi d'alcune classi, in parte riconosciuti
dalla forza legale, in parte tollerati con astioso silenzio, o impugnati con vane
proteste, ma sostenuti in fatto e difesi da quelle classi, con attività d'interesse, e
con gelosia di puntiglio. Ora, quest'impunità minacciata e insultata, ma non distrutta
dalle gride, doveva naturalmente, a ogni minaccia, e a ogni insulto, adoperar nuovi sforzi
e nuove invenzioni, per conservarsi. Così accadeva in effetto; e, all'apparire delle
gride dirette a comprimere i violenti, questi cercavano nella loro forza reale i nuovi
mezzi più opportuni, per continuare a far ciò che le gride venivano a proibire. Potevan
ben esse inceppare a ogni passo, e molestare l'uomo bonario, che fosse senza forza propria
e senza protezione; perché, col fine d'aver sotto la mano ogni uomo, per prevenire o per
punire ogni delitto, assoggettavano ogni mossa del privato al volere arbitrario
d'esecutori d'ogni genere. Ma chi, prima di commettere il delitto, aveva prese le sue
misure per ricoverarsi a tempo in un convento, in un palazzo, dove i birri non avrebber
mai osato metter piede; chi, senz'altre precauzioni, portava una livrea che impegnasse a
difenderlo la vanità e l'interesse d'una famiglia potente, di tutto un ceto, era libero
nelle sue operazioni, e poteva ridersi di tutto quel fracasso delle gride. Di quegli
stessi ch'eran deputati a farle eseguire, alcuni appartenevano per nascita alla parte
privilegiata, alcuni ne dipendevano per clientela; gli uni e gli altri, per educazione,
per interesse, per consuetudine, per imitazione, ne avevano abbracciate le massime, e si
sarebbero ben guardati dall'offenderle, per amor d'un pezzo di carta attaccato sulle
cantonate. Gli uomini poi incaricati dell'esecuzione immediata, quando fossero stati
intraprendenti come eroi, ubbidienti come monaci, e pronti a sacrificarsi come martiri,
non avrebber però potuto venirne alla fine, inferiori com'eran di numero a quelli che si
trattava di sottomettere, e con una gran probabilità d'essere abbandonati da chi, in
astratto e, per così dire, in teoria, imponeva loro di operare. Ma, oltre di ciò,
costoro eran generalmente de' più abbietti e ribaldi soggetti del loro tempo; l'incarico
loro era tenuto a vile anche da quelli che potevano averne terrore, e il loro titolo un
improperio. Era quindi ben naturale che costoro, in vece d'arrischiare, anzi di gettar la
vita in un'impresa disperata, vendessero la loro inazione, o anche la loro connivenza ai
potenti, e si riservassero a esercitare la loro esecrata autorità e la forza che pure
avevano, in quelle occasioni dove non c'era pericolo; nell'opprimer cioè, e nel vessare
gli uomini pacifici e senza difesa.
L'uomo che vuole offendere, o che
teme, ogni momento, d'essere offeso, cerca naturalmente alleati e compagni. Quindi era, in
que' tempi, portata al massimo punto la tendenza degl'individui a tenersi collegati in
classi, a formarne delle nuove, e a procurare ognuno la maggior potenza di quella a cui
apparteneva. Il clero vegliava a sostenere e ad estendere le sue immunità , la nobiltà i
suoi privilegi, il militare le sue esenzioni. I mercanti, gli artigiani erano arrolati in
maestranze e in confraternite, i giurisperiti formavano una lega, i medici stessi una
corporazione. Ognuna di queste piccole oligarchie aveva una sua forza speciale e propria;
in ognuna l'individuo trovava il vantaggio d'impiegar per sé, a proporzione della sua
autorità e della sua destrezza, le forze riunite di molti. I più onesti si valevan di
questo vantaggio a difesa soltanto; gli astuti e i facinorosi ne approfittavano, per
condurre a termine ribalderie, alle quali i loro mezzi personali non sarebber bastati, e
per assicurarsene l'impunità . Le forze però di queste varie leghe eran molto disuguali;
e, nelle campagne principalmente, il nobile dovizioso e violento, con intorno uno stuolo
di bravi, e una popolazione di contadini avvezzi, per tradizione famigliare, e interessati
o forzati a riguardarsi quasi come sudditi e soldati del padrone, esercitava un potere, a
cui difficilmente nessun'altra frazione di lega avrebbe ivi potuto resistere.
Il nostro Abbondio non nobile, non
ricco, coraggioso ancor meno, s'era dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della
discrezione, d'essere, in quella società , come un vaso di terra cotta, costretto a
viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro. Aveva quindi, assai di buon grado, ubbidito
ai parenti, che lo vollero prete. Per dir la verità , non aveva gran fatto pensato agli
obblighi e ai nobili fini del ministero al quale si dedicava: procacciarsi di che vivere
con qualche agio, e mettersi in una classe riverita e forte, gli eran sembrate due ragioni
più che sufficienti per una tale scelta. Ma una classe qualunque non protegge un
individuo, non lo assicura, che fino a un certo segno: nessuna lo dispensa dal farsi un
suo sistema particolare. Don Abbondio, assorbito continuamente ne' pensieri della propria
quiete, non si curava di que' vantaggi, per ottenere i quali facesse bisogno d'adoperarsi
molto, o d'arrischiarsi un poco. Il suo sistema consisteva principalmente nello scansar
tutti i contrasti, e nel cedere, in quelli che non poteva scansare. Neutralità disarmata
in tutte le guerre che scoppiavano intorno a lui, dalle contese, allora frequentissime,
tra il clero e le podestà laiche, tra il militare e il civile, tra nobili e nobili, fino
alle questioni tra due contadini, nate da una parola, e decise coi pugni, o con le
coltellate. Se si trovava assolutamente costretto a prender parte tra due contendenti,
stava col più forte, sempre però alla retroguardia, e procurando di far vedere all'altro
ch'egli non gli era volontariamente nemico: pareva che gli dicesse: ma perché non avete
saputo esser voi il più forte? ch'io mi sarei messo dalla vostra parte. Stando alla larga
da' prepotenti, dissimulando le loro soverchierie passeggiere e capricciose,
corrispondendo con sommissioni a quelle che venissero da un'intenzione più seria e più
meditata, costringendo, a forza d'inchini e di rispetto gioviale, anche i più burberi e
sdegnosi, a fargli un sorriso, quando gl'incontrava per la strada, il pover'uomo era
riuscito a passare i sessant'anni, senza gran burrasche.
Non è però che non avesse anche
lui il suo po' di fiele in corpo; e quel continuo esercitar la pazienza, quel dar così
spesso ragione agli altri, que' tanti bocconi amari inghiottiti in silenzio, glielo
avevano esacerbato a segno che, se non avesse, di tanto in tanto, potuto dargli un po' di
sfogo, la sua salute n'avrebbe certamente sofferto. Ma siccome v'eran poi finalmente al
mondo, e vicino a lui, persone ch'egli conosceva ben bene per incapaci di far male, così
poteva con quelle sfogare qualche volta il mal umore lungamente represso, e cavarsi anche
lui la voglia d'essere un po' fantastico, e di gridare a torto. Era poi un rigido censore
degli uomini che non si regolavan come lui, quando però la censura potesse esercitarsi
senza alcuno, anche lontano, pericolo. Il battuto era almeno almeno un imprudente;
l'ammazzato era sempre stato un uomo torbido. A chi, messosi a sostener le sue ragioni
contro un potente, rimaneva col capo rotto, don Abbondio sapeva trovar sempre qualche
torto; cosa non difficile, perché la ragione e il torto non si dividon mai con un taglio
così netto, che ogni parte abbia soltanto dell'una o dell'altro. Sopra tutto poi,
declamava contro que' suoi confratelli che, a loro rischio, prendevan le parti d'un debole
oppresso, contro un soverchiatore potente. Questo chiamava un comprarsi gl'impicci a
contanti, un voler raddirizzar le gambe ai cani; diceva anche severamente, ch'era un
mischiarsi nelle cose profane, a danno della dignità del sacro ministero. E contro questi
predicava, sempre però a quattr'occhi, o in un piccolissimo crocchio, con tanto più di
veemenza, quanto più essi eran conosciuti per alieni dal risentirsi, in cosa che li
toccasse personalmente. Aveva poi una sua sentenza prediletta, con la quale sigillava
sempre i discorsi su queste materie: che a un galantuomo, il qual badi a sé, e stia ne'
suoi panni, non accadon mai brutti incontri.
Pensino ora i miei venticinque
lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato.
Lo spavento di que' visacci e di quelle parolacce, la minaccia d'un signore noto per non
minacciare invano, un sistema di quieto vivere, ch'era costato tant'anni di studio e di
pazienza, sconcertato in un punto, e un passo dal quale non si poteva veder come uscirne:
tutti questi pensieri ronzavano tumultuariamente nel capo basso di don Abbondio. «Se
Renzo si potesse mandare in pace con un bel no, via; ma vorrà delle ragioni; e cosa ho da
rispondergli, per amor del cielo? E, e, e, anche costui è una testa: un agnello se nessun
lo tocca, ma se uno vuol contraddirgli... ih! E poi, e poi, perduto dietro a quella Lucia,
innamorato come... Ragazzacci, che, per non saper che fare, s'innamorano, voglion
maritarsi, e non pensano ad altro; non si fanno carico de' travagli in che mettono un
povero galantuomo. Oh povero me! vedete se quelle due figuracce dovevan proprio piantarsi
sulla mia strada, e prenderla con me! Che c'entro io? Son io che voglio maritarmi? Perché
non son andati piùttosto a parlare... Oh vedete un poco: gran destino è il mio, che le
cose a proposito mi vengan sempre in mente un momento dopo l'occasione. Se avessi pensato
di suggerir loro che andassero a portar la loro imbasciata...» Ma, a questo punto,
s'accorse che il pentirsi di non essere stato consigliere e cooperatore dell'iniquità era
cosa troppo iniqua; e rivolse tutta la stizza de' suoi pensieri contro quell'altro che
veniva così a togliergli la sua pace. Non conosceva don Rodrigo che di vista e di fama,
né aveva mai avuto che far con lui, altro che di toccare il petto col mento, e la terra
con la punta del suo cappello, quelle poche volte che l'aveva incontrato per la strada.
Gli era occorso di difendere, in più d'un'occasione, la riputazione di quel signore,
contro coloro che, a bassa voce, sospirando, e alzando gli occhi al cielo, maledicevano
qualche suo fatto: aveva detto cento volte ch'era un rispettabile cavaliere. Ma, in quel
momento gli diede in cuor suo tutti que' titoli che non aveva mai udito applicargli da
altri, senza interrompere in fretta con un oibò. Giunto, tra il tumulto di questi
pensieri, alla porta di casa sua, ch'era in fondo del paesello, mise in fretta nella toppa
la chiave, che già teneva in mano; aprì, entrò, richiuse diligentemente; e, ansioso di
trovarsi in una compagnia fidata, chiamò subito: - Perpetua! Perpetua! -, avviandosi pure
verso il salotto, dove questa doveva esser certamente ad apparecchiar la tavola per la
cena. Era Perpetua, come ognun se n'avvede, la serva di don Abbondio: serva affezionata e
fedele, che sapeva ubbidire e comandare, secondo l'occasione, tollerare a tempo il
brontolìo e le fantasticaggini del padrone, e fargli a tempo tollerar le proprie, che
divenivan di giorno in giorno più frequenti, da che aveva passata l'età sinodale dei
quaranta, rimanendo celibe, per aver rifiutati tutti i partiti che le si erano offerti,
come diceva lei, o per non aver mai trovato un cane che la volesse, come dicevan le sue
amiche.
-
Vengo, - rispose ,
mettendo sul tavolino, al luogo solito, il fiaschetto del vino prediletto di don Abbondio,
e si mosse lentamente; ma non aveva ancor toccata la soglia del salotto, ch'egli v'entrò,
con un passo così legato, con uno sguardo così adombrato, con un viso così stravolto,
che non ci sarebbero nemmen bisognati gli occhi esperti di Perpetua, per iscoprire a prima
vista che gli era accaduto qualche cosa di straordinario davvero.
- Misericordia! cos'ha, signor
padrone?
- Niente, niente, - rispose don
Abbondio, lasciandosi andar tutto ansante sul suo seggiolone.
- Come, niente? La vuol dare ad
intendere a me? così brutto com'è? Qualche gran caso è avvenuto.
- Oh, per amor del cielo! Quando
dico niente, o è niente, o è cosa che non posso dire.
- Che non può dir neppure a me? Chi
si prenderà cura della sua salute? Chi le darà un parere?...
- Ohimè! tacete, e non
apparecchiate altro: datemi un bicchiere del mio vino.
- E lei mi vorrà sostenere che non
ha niente! - disse Perpetua, empiendo il bicchiere, e tenendolo poi in mano, come se non
volesse darlo che in premio della confidenza che si faceva tanto aspettare.
- Date qui, date qui, - disse don
Abbondio, prendendole il bicchiere, con la mano non ben ferma, e votandolo poi in fretta,
come se fosse una medicina.
- Vuol dunque ch'io sia costretta di
domandar qua e là cosa sia accaduto al mio padrone? - disse Perpetua, ritta dinanzi a
lui, con le mani arrovesciate sui fianchi, e le gomita appuntate davanti, guardandolo
fisso, quasi volesse succhiargli dagli occhi il segreto.
- Per amor del cielo! non fate
pettegolezzi, non fate schiamazzi: ne va... ne va la vita!
- La vita!
- La vita.
- Lei sa bene che, ogni volta che
m'ha detto qualche cosa sinceramente, in confidenza, io non ho mai...
- Brava! come quando...
Perpetua s'avvide d'aver toccato un
tasto falso; onde, cambiando subito il tono, - signor padrone, - disse, con voce commossa
e da commovere, - io le sono sempre stata affezionata; e, se ora voglio sapere, è per
premura, perché vorrei poterla soccorrere, darle un buon parere, sollevarle l'animo...
Il fatto sta che don Abbondio aveva
forse tanta voglia di scaricarsi del suo doloroso segreto, quanta ne avesse Perpetua di
conoscerlo; onde, dopo aver respinti sempre più debolmente i nuovi e più incalzanti
assalti di lei, dopo averle fatto più d'una volta giurare che non fiaterebbe, finalmente,
con molte sospensioni, con molti ohimè, le raccontò il miserabile caso. Quando si venne
al nome terribile del mandante, bisognò che Perpetua proferisse un nuovo e più solenne
giuramento; e don Abbondio, pronunziato quel nome, si rovesciò sulla spalliera della
seggiola, con un gran sospiro, alzando le mani, in atto insieme di comando e di supplica,
e dicendo: - per amor del cielo!
- Delle sue! - esclamò Perpetua. -
Oh che birbone! oh che soverchiatore! oh che uomo senza timor di Dio!
- Volete tacere? o volete rovinarmi
del tutto?
- Oh! siam qui soli che nessun ci
sente. Ma come farà , povero signor padrone?
- Oh vedete, - disse don Abbondio,
con voce stizzosa: - vedete che bei pareri mi sa dar costei! Viene a domandarmi come
farò, come farò; quasi fosse lei nell'impiccio, e toccasse a me di levarnela.
- Ma! io l'avrei bene il mio povero
parere da darle; ma poi...
- Ma poi, sentiamo.
- Il mio parere sarebbe che, siccome
tutti dicono che il nostro arcivescovo è un sant'uomo, e un uomo di polso, e che non ha
paura di nessuno, e, quando può fare star a dovere un di questi prepotenti, per sostenere
un curato, ci gongola; io direi, e dico che lei gli scrivesse una bella lettera, per
informarlo come qualmente...
- Volete tacere? volete tacere? Son
pareri codesti da dare a un pover'uomo? Quando mi fosse toccata una schioppettata nella
schiena, Dio liberi! l'arcivescovo me la leverebbe?
- Eh! le schioppettate non si dà nno
via come confetti: e guai se questi cani dovessero mordere tutte le volte che abbaiano! E
io ho sempre veduto che a chi sa mostrare i denti, e farsi stimare, gli si porta rispetto;
e, appunto perché lei non vuol mai dir la sua ragione, siam ridotti a segno che tutti
vengono, con licenza, a...
- Volete tacere?
- Io taccio subito; ma è però
certo che, quando il mondo s'accorge che uno, sempre, in ogni incontro, è pronto a calar
le...
- Volete tacere? E' tempo ora di dir
codeste baggianate?
- Basta: ci penserà questa notte;
ma intanto non cominci a farsi male da sé, a rovinarsi la salute; mangi un boccone.
- Ci penserò io, - rispose,
brontolando, don Abbondio: - sicuro; io ci penserò, io ci ho da pensare - E s'alzò,
continuando: - non voglio prender niente; niente: ho altra voglia: lo so anch'io che tocca
a pensarci a me. Ma! la doveva accader per l'appunto a me.
- Mandi almen giù quest'altro
gocciolo, - disse Perpetua, mescendo. - Lei sa che questo le rimette sempre lo stomaco.
- Eh! ci vuol altro, ci vuol altro,
ci vuol altro. Così dicendo prese il lume, e, brontolando sempre: - una piccola
bagattella! a un galantuomo par mio! e domani com'andrà? - e altre simili lamentazioni,
s'avviò per salire in camera. Giunto su la soglia, si voltò indietro verso Perpetua,
mise il dito sulla bocca, disse, con tono lento e solenne : - per amor del cielo! -, e
disparve.