Dal Carmagnola al Romanzo

Appunti preliminari per il corso sul Manzoni

 

Premesse Il 1820
Il viaggio del '19 L'anno dello sliricamento: 1821

 

 


Nello scorso incontro abbiamo preso in esame alcuni degli aspetti della formazione del Manzoni, quali l'apporto importante dato ad essa dalla sua presenza nell'ambiente parigino della Maisonnette, a contatto con i pensieri e le idee degli Ideologues.
Abbiamo inoltre visto come a partire dal '10, su questo sfondo laico e tardo-illuministico si inserisca un'esperienza di segno assai differente, ma altrettanto fondamentale per il Manzoni, e cioè la conversione.
Abbiamo dunque anche specificato che la conversione manzoniana avvenne sotto il segno "giansenista", ma sarebbe un grave errore etichettare il Manzoni come "giansenista" tout court. Infatti del giansenismo, corrente di cattolicesimo che poneva particolare attenzione alla dottrina della grazia, il Manzoni riuscì ad apprezzare la grande vicinanza al dettato del Vangelo, la sua adesione alla dimensione rivoluzionaria di quel messaggio, che bene si accordava con le sue "aspirazioni democratiche, umanitarie e repubblicane", per dirla con lo Zottoli, uno dei più autorevoli fra i biografi del Manzoni Anche l'Alberti ci dà un'esemplare definizione del cristianesimo manzoniano: "...il suo cristianesimo è un cristianesimo intimamente, totalmente, esclusivamente lievitato dallo spirito evangelico, e che non conosce compromessi".

Dopo le vicende legate al matrimonio, che fu celebrato due volte, la seconda secondo il rito cattolico, in quanto Enrichetta era calvinista, abbiamo detto che nel periodo di tempo che va dal 1810 al 1816, la famiglia Manzoni si stabilisce definitivamente a Milano, dividendo la propria residenza fra la casa di contrada del Morone, e la villa di Brusuglio.


Naturalmente il Manzoni è anche attento ai gravissimi fatti storici che si producono in quegli anni, fatali per l'Europa, alla caduta di Napoleone.
Sono questi anni di fervidissime letture, ma di scarsa produttività poetica. E' in questo preciso momento, abbiamo detto, che il Manzoni prende conoscenza di quello che andava avvenendo intorno a lui nel panorama letterario ed intellettuale italiano, milanese in particolare: e ciò durante i fecondi colloqui che avvenivano a casa sua, quando, ricevendo gli amici, egli ne era messo a conoscenza del fermento di rinnovamento letterario, civile, politico, che lievitava in Milano in quegli anni.

A seguito della suggestione, dunque, ricevuta dalle letture di Schiller, Goethe e Shakespeare, il Manzoni pensa di cimentarsi in un'opera di teatro, spinto dall'interesse di rappresentare la situazione di "un uomo di animo forte ed elevato, e desideroso di grandi imprese, che si dibatte con la debolezza e con la perfidia dei suoi tempi". D'altronde, nella Lettre à Monsieur Chauvet (uno dei testi capitali per la comprensione della poetica manzoniana, composta proprio per difendersi dalle accuse dei "passatisti", ossia di quei letterati che ritenevano di dover rispettare l'unità di tempo e spazio), il Manzoni chiarifica ulteriormente il centro del suo interesse nel comporre questa tragedia: "les véritables pensées par lesquelles les hommes arrivent à commetre une grande injustice": dunque ecco il fondamentale tema dell'ingiustizia, a cui abbiamo accennato.

La composizione del Carmagnola è interrotta dalla composizione di un'altra opera, sollecitata dal nuovo padre spirituale della famiglia Manzoni, il canonico Luigi Tosi. Questi, uomo di fervente osservanza, forse non proprio dotatissimo nel riconoscere quanto la fede del Manzoni non potesse escludere, anzi presupponesse la attività creativa ed artistica, si dichiara preoccupato per il nostalgico rimpianto che il Manzoni aveva della società francese, e gli pare anche che i suoi progetti teatrali non si addicano abbastanza alla vita di osservanza religiosa cui voleva richiamare il Manzoni. E' così che egli lo induce a comporre un'opera, Le Osservazioni sulla Morale cattolica, in cui si impegna a confutare il ginevrino Sismondi, che aveva osato sostenere che la morale cattolica era stata nei secoli motivo di corruttela per l'Italia.

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Nel luglio del '19 i Manzoni progettano il viaggio che Alessandro aveva tanto sospirato, per riprendere finalmente contatto con l'ambiente parigino e soprattutto col Fauriel. Il Carmagnola è finito, ed il Manzoni, che soffre costantemente di crisi nervose, fa ancora una volta tesoro delle conversazioni col suo amico, e ne trae scambi decisivi per l'avanzamento delle sue riflessioni letterarie sulla via che lo porterà al romanzo. Questa volta è l'incontro fecondo con lo storico Thierry, ma anche con altri intellettuali della cerchia del Fauriel stesso, che producono nel Manzoni un chiarimento su alcune questioni fondamentali. Infatti il Thierry aveva, durante i suoi studi, fatto l'importante osservazione secondo cui nei secoli, sia in Francia sia in Inghilterra, si era operata una discriminazione forte fra popoli conquistati (indigeni) e i conquistatori (stranieri). Dunque la "verità" non può stare solo dalla parte della storia scritta dai vincitori, perché esiste sempre la verità dei vinti, che viene taciuta, o comunque oscurata. Alla memoria dei posteri vengono sempre sottratte le masse degli umili, calpestate e conculcate dalla potenza dei vincitori, che sanno poi sempre imporre la loro cultura. Il vero compito dell'arte è dunque di scoprire la storia degli umili. Questo è un passo decisivo sulla via del romanzo, che vedrà da lì a poco, messi sulla scena gli umili.

Contemporaneamente il Manzoni va riflettendo sul rinnovamento del teatro. Anche qui il testo di riferimento fondamentale è la Lettre: difetto fondamentale del teatro tragico francese rispetto a quello shakespeariano è che il primo vuole a tutti i costi coivolgere lo spettatore alle passioni rappresentate, il secondo pone invece lo spettatore

nelle pure regioni della contemplazione disinteressata... è alla vista delle vane sofferenze e dei vani godimenti degli uomini che ci sentiamo pervadere di terrore e di pietà per noi stessi... E' colla rappresentazione delle passioni che sempre hanno tormentato gli uomini che il poeta può farci sentire quel fondo di comune miseria e di debolezza che ci predispone a un'indulgenza fatta non già di stanchezza e di disprezzo, ma di ragione e di amore. E' solo facendoci assistere a degli avvenimenti cui non c'interessiamo già come attori, ma come testimoni, che può aiutarci a prender l'abitudine di fissare la nostra mente su quei pensieri calmi e grandi, pronti a sparire e a dissolversi all'urto della realtà giornaliera della vita, e che, fatti più presenti, darebbero certo più consistenza alla nostra saggezza e alla nostra dignità.

Ecco dunque un'altra fonte essenziale dell'arte poetica manzoniana: l'impegno a mettere il lettore di fronte alla complessità delle passioni umane e del destino della vita deve essere totale, perché solo essendo appieno vicini alla realtà è possibile indurre la mente a cogliere l'essenza e il significato della vita umana.

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Siamo in questo modo giunti all'anno 1820. I Manzoni sono nuovamente a Brusuglio. A partire dall'ottobre dello stesso anno, ritornato in città, il Manzoni concepisce per la prima volta il proposito di occuparsi di una nuova tragedia, L'Adelchi. Questa tragedia è - si può dire - il frutto della lezione del Thierry: come preparazione preliminare il Manzoni compie un'opera di documentazione scrupolosa sulla storia dei Longobardi conquistatori e delle popolazioni italiche asservite. Il suo interesse va dunque ben oltre il semplice personaggio tragico di Adelchi: il fatto è però che, data la natura del genere teatrale, questo interesse deve restare subordinato alla trama, ai dialoghi fra i personaggi, a quei vincoli che un'opera teatrale porta inevitabilmente con sé. Ma c'è di più: il Manzoni, appena terminata la sua fatica, se ne dichiara insoddisfatto. Il suo intento era infatti di ottenere un componimento misto di storia e d'invenzione: invece, come scrive al Fuariel, quando la tragedia era avanti assai, egli si rese conto che in essa non v'era nulla di autenticamente storico, e che, anzi, il personaggio di Adelchi aveva una "tinta romanzesca", che malissimo si addiceva all'esigenza superiore, quella della verità della resa artistica. Nessun artificio, nessuna forzatura era ammissibile agli occhi del Manzoni in un'opera che dovesse veramente definirsi artistica. Il "romanzesco" era proprio questo, per lui in questo momento, una forzatura della verosimiglianza in carattere fittizio, in cliché, che non avrebbe mai potuto servire al fine etico superiore che gli abbiamo visto esprimere nel citato passo della Lettre.

 

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Nel frattempo, arriviamo al 1821, l'anno sicuramente più difficile e doloroso che il Manzoni abbia vissuto. I moti rivoluzionari napoletani e piemontesi lo avevano trascinato assieme ai suoi amici liberali nell'entusiasmo che vi fosse ancora una qualche speranza di libertà per l'Italia asservita. Il loro tragico fallimento, con le condanne seguite contro i principali frequentatori di casa Manzoni (Pellico, Maroncelli, Berchet), costretti all'esilio o condannati allo Spielberg, diedero al Manzoni la sensazione di una precarietà anche della sua situazione, nonostante che, agli occhi delle autorità austriache, egli non fosse direttamente coinvolto nelle cospirazioni. Noi dobbiamo però qui agganciarci al fatto che il Manzoni fu profondamente - come abbiamo detto - deluso dell'ultima esperienza creativa da lui fatta. Egli non cambierà mai parere sull'Adelchi, e d'altronde le intime contraddizioni del genere gli parevano troppo assolute perchè un autore moderno, con esigenze come le sue, potesse venirne a capo. Si fa strada quindi in lui l'idea di abbandonare quel genere tragico. Si stava avvicinando a grandi passi ormai il giorno in cui il Manzoni avrebbe definitivamente abbandonato la poesia, in cui si sarebbe sliricato. All'inizio del novembre del '21 il Manzoni è ancora incerto fra una "tragedia di Spartaco", che non vedrà mai la luce, e un "mio romanzo", sul genere di quei "cantafavola" d'oltralpe che iniziavano ad essere tanto in voga anche in Italia. Prima però di continuare questa sua nuova fatica (il 24 aprile aveva steso il celebre attacco "Quel ramo del lago di Como"), il Manzoni si occupò ancora della limatura finale dell'Adelchi, e poi, avuta la notizia della morte di Napoleone a Brusuglio fra il 18 e il 21 luglio 1821, colto da un attacco nervoso e da un'incontenibile febbre creativa, stese di getto la celeberrima ode Cinque Maggio.
Ma l'impresa di accingersi a fare opera di narrativa nelle lettere italiane aveva una sua difficoltà di natura linguistica, che il Manzoni sintetizza in una fondamentale lettera al Fauriel del 3 novembre 1821:

...Pensate invece a un italiano che, se non è toscano, scrive in una lingua che non ha quasi mai parlata, una lingua nella quale opere relative alle scienze morali sono così rare, dimodoché per le buone idee moderne non esiste un tipo generale di espressioni... A questo povero scrittore manca completamente un sentimento, per così dire, di comunione col suo lettore, manca la certezza di maneggiare uno strumento ugualmente conosciuto da entrambi... Orbene ditemi un po' cosa deve fare un italiano che, non sapendo far altro, vuole scrivere...

Fu con questi dubbi per la testa che il Manzoni si portò a Brusuglio, nell'aprile del '21, le Storie Milanesi del Ripamonti, e le opere economico-politiche di Melchiorre Gioia: quelle che saranno le sue principali fonti per il materiale storico del '600 lombardo. S'imbattè dunque nella grida che il dottor Azzeccagarbugli legge a Renzo, in cui si parlava delle pene che venivano comminate a chi minacciasse un parroco perché non facesse un matrimonio. Da lì gli nacque l'idea che il tema di un matrimonio contrastato sarebbe stato un buon soggetto per un romanzo.
Ma quali erano i modelli che il Manzoni aveva a disposizione per il romanzo? Innanzitutto l'Ivanhoe di Walter Scott, che però parve al Manzoni "difettoso", perchè "non ha abbastanza realtà": ecco ribadirsi con forza il tema fondamentale dell'arte del vero, che rimanda la concezione d'arte del Manzoni alla sua matrice cristiana. Questo tratto della poetica manzoniana risulta espresso in una celeberrima affermazione contenuta nella Lettera al Marchese Cesare d'Azeglio (datata 18 settembre 1823, cioè dopo la prima stesura del romanzo):

...che la poesia deva proporsi per oggetto il vero, come l'unica sorgente d'un diletto unico e durevole

Ecco dunque il miracolo del realismo manzoniano, che avevamo già posto embrionalmente presente nelle riflessioni giovanili sul metodo degli Ideologues. Dice bene l'Alberti:

...quel che si nasconde dietro la discrezione della forma, dietro il riserbo morale del Manzoni [è] una implacabile passione del vero, una volontà di affrontare e rappresentare la realtà che nelle storia della nostra letteratura è stata propriamente rivoluzionaria.

La stessa frequentazione degli ideologi prima, e poi dei nuovi storici francesi, per stimolante che fosse stata, e anzi diciamo pure provvidenziale, non aveva fatto che rendere sempre più consapevole il Manzoni che tale esigenza [l'esigenza di indagare le "più basse sfere", come ebbe a scrivere F. de Sanctis] traeva per lui tutta la sua forza dalla rivelazione cristiana riscoperta, che ne era all'origine.

Il Manzoni non sapeva rivendicare ai reietti della storia, ai servi, agli umili, altro e più alto titolo che quello di figli di Dio, anzi di beniamini della promessa, di primogeniti all'accessione all'eredità celeste. Non era stato detto, una volta per sempre, che gli ultimi saranno i primi? Fu così che il Manzoni, figgendo gli occhi nel buio dei secoli e frugando per quella "immensa moltitudine di uomini", posò a un certo punto lo sguardo su due volti qualunque e riconobbe nei loro tratti quelli, così lungamente cercati, dei suoi protagonisti.

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