Pubblichiamo qui di seguito l'articolo apparso sulla rivista storico-filologica Aevum 75, 2001, pp. 93-99, dietro gentile concessione dell'autore, prof. Alessandro Galimberti. Oltre all'importanza e all'interesse di natura sia scientifica sia didattica del lavoro (pertinente anche al programma di letteratura latina di una III liceo), speriamo che questa pubblicazione online contribuisca, anche se in minima misura, a riannodare quel filo, da troppo lungo tempo spezzato, che univa in un tempo ormai remoto la ricerca accademica agli studi superiori. E', in fondo, quanto ricorda il prof. A. Battegazzore, nell'articolo da noi pubblicato La scuola deve essere amicizia, e quanto  auspicano anche tutti coloro che operando nell'attuale scuola superiore sanno quanto i nostri studenti apprezzino e a volte esigano un approccio universitario alle materie di studio, soprattutto in vista dell'Esame di Stato.

MAT. DIDATTICI


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Sunto: In base all’esame delle testimonianze e dei frammenti superstiti dell’opera di Publio Pomponio Secondo, poeta tragico e autore di praetextae vissuto in età giulio-claudia, si ipotizza l’attribuzione dell’Octavia pseudosenecana a Pomponio Secondo.

 

Nel naufragio pressoché totale della produzione tragica romana di età giulio-claudia, salvo la significativa eccezione di Seneca, è raro incontrare qualche notizia che contribuisca a gettare luce sull’attività di un autore e che consenta di ricostruire in modo meno approssimativo la sua personalità: è questo forse il caso di Publio1 Pomponio Secondo poeta tragico e consul suffectus del 442, su cui H. Bardon3 ha raccolto e ha discusso le testimonianze. Io qui intendo riprendere in considerazione queste testimonianze nel tentativo di tracciare un profilo più articolato, e per certi versi più problematico, della figura di Publio Pomponio Secondo. Vale la pena di ricordare innanzitutto, ad evitare possibili confusioni, che egli era fratello di Quinto console del 414, il quale il giorno dell'uccisione di Gaio (24 gennaio 41) si rese protagonista di un atto di smaccata adulazione verso il principe durante un banchetto (Dio 59, 29, 5)5, e fu messo a morte nel 42 da Claudio per aver partecipato alla congiura del legato di Dalmazia Camillo Scriboniano6.

 

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Agrippina minore, che Claudio sposò
nel 48, dopo il matrimonio con Messalina.
Agrippina, madre del futuro imperatore
Nerone, avvelena coi funghi, nel 54 d.C, il
marito, allo scopo di agevolare l'ascesa
al trono di Nerone, da cui sarà assassinata nel
59 d. C.

Tacito (Ann. V 8, 2) riferisce che un Pomponio Secondo nel 31 era stato accusato di maiestas insieme con P. Vitellio, per aver tenuto nascosto presso di sé il seianeo Elio Gallo, ed era stato affidato alla custodia domiciliare presso il fratello:

Relatum inde de P. Vitellio et Pomponio Secundo. illum indices arguebant claustra aerarii, cui praefectus erat, et militarem pecuniam rebus novis obtulisse; huic a Considio praetura functo obiectabatur Aelii Galli amicitia, qui punito Seiano in hortos Pomponii quasi fidissimum ad subsidium perfugisset. neque aliud periclitantibus auxilii quam in fratrum constantia fuit qui vades extitere. mox crebris prolationibus spem ac metum iuxta gravatus Vitellius petito per speciem studiorum scalpro levem ictum venis intulit vitamque aegritudine animi finivit. at Pomponius multa morum elegantia et ingenio inlustri, dum adversam fortunam aequus tolerat, Tiberio superstes fuit.
Si discusse quindi in senato di P. Vitellio e di Pomponio Secondo. Le spie accusavano il primo di aver aperto le porte dell'erario, di cui era prefetto, e di aver dato il denaro dell'esercito per fare la rivoluzione; Considio, che aveva rivestito la pretura, rinfacciava al secondo l'amicizia con Elio Gallo, il quale, dopo l'esecuzione di Seiano, si sarebbe rifugiato nei giardini di Pomponio, come se quello fosse stato un rifugio sicurissimo. Non esisteva alcun altro rimedio per loro che si trovavano in pericolo, se non aggrapparsi alla coerenza dei fratelli, che si presentarono come loro garanti. Poi per la frequenza dei ritardi, egualmente desideroso di liberarsi sia dalla paura sia dalla speranza, Vitellio, dopo aver chiesto con la scusa degli studi un temperino, s'inferse alle vene una sottile incisione, e terminò l'esistenza con grande sofferenza. Ma Pomponio per via del suo stile di vita raffinato assai e del notevole ingegno, mentre tollerò con animo sereno l'avversa fortuna, sopravvisse a Tiberio.

Della vicenda parla anche Cassio Dione (59, 6, 2) secondo il quale era stato Quinto ad essere incarcerato:

ἔπειτα τοὺς ἐν τῷ δεσμωτηρίῳ ὄντας ἀπέλυσεν, ὧν εἷς ἦν Κύιντος Πομπώνιος ἑπτὰ ὅλοις ἔτεσιν ἐν τῷ οἰκήματι μεθ' ὑπατείαν κακωθείς· τά τε ἐγκλήματα τ ἀσεβείας, οἷσπερ καὶ τὰ μάλιστα πονουμένους σφᾶς ἑώρα, κατὲλυσε
In seguito Caligola liberò quelli che erano in prigione, dei quali uno era Quinto Pomponio, maltrattato in carcere per sette interi anni, dopo il consolato: ed egli cancellò l'accusa di lesa maestà a coloro che vedeva essere la causa principale delle vicissitudini giudiziarie dei prigionieri.

A me sembra però più probabile che la caratterizzazione di Tacito (multa morum elegantia et ingenio inlustri) si riferisca a Publio: Tacito stesso peraltro in un passo del Dialogus (13, 3) nonché Plinio (NH VII 80) sono concordi nell’affermare la dignitas vitae e la insignis natura di Publio, che poco si addice a Quinto, noto a Dione per il suo volgare gesto adulatorio; lo stesso Dione peraltro potrebbe aver confuso il nome di Publio con quello di Quinto, dal momento che commette anche un altro errore: né Quinto né Publio infatti erano stati consoli sotto Tiberio7. Fu dunque la carcerazione di Publio8 ad essere interrotta da Caligola, forse grazie ai buoni uffici del fratello Quinto; nonostante la condanna a morte di quest’ultimo nel 42, sotto Claudio Publio percorse i gradi di una brillante carriera politica, prima con il consolato del 44 e poi con la legazione in Germania del 50-51 d.C.9, dove Plinio il Vecchio10 ebbe modo di conoscerlo e di apprezzarlo e ne scrisse la biografia.

Di quest’opera di Plinio è rimasto poco oltre a quello che dice Plinio il Giovane in una lettera a Bebio Macro (Ep. III 5, 1-2), in apertura della quale fornisce l’elenco, in ordine cronologico, delle opere composte dallo zio, dal quale risulta che il De vita Pomponi Secundi fu composto successivamente alla morte di Pomponio, dopo il De iaculatione equestri, che appartiene al periodo della militanza di Plinio in Germania, e prima dei venti libri Bellorum Germaniae:

Pergratum est mihi quod tam diligenter libros auunculi mei lectitas, ut habere omnes uelis quaerasque qui sint omnes. Fungar indicis partibus, atque etiam quo sint ordine scripti notum tibi faciam. “De iaculatione equestri unus”; hunc cum praefectus alae militaret, pari ingenio curaque composuit. “De uita Pomponi Secundi duo”; a quo singulariter amatus hoc memoriae amici quasi debitum munus exsoluit. “Bellorum Germaniae uiginti”; quibus omnia quae cum Germanis gessimus bella collegit.
Mi è molto gradito il fatto che tu legga con tanta attenzione i libri di mio zio paterno, tanto che tu desideri averli tutti e mi chiedi quali siano. Te ne darò un catalogo, e ti renderò noto anche in quale ordine sono stati scritti. L'opera "Sul lancio del giavellotto a cavallo" è in un solo libro; questo lo compose quando militava come prefetto d'ala, con intelligenza e pari attenzione. La "Vita di Pomponio Secondo" è in due libri; e poiché fu singolarmente amato da lui, si sdebitò quasi ne fosse in dovere con questo dono dedicato alla memoria dell'amico. Le "Guerre germaniche" sono in venti libri;  ed in essi raccolse notizie su tutte le guerre che abbiamo combattuto coi Germani.

Anche Plinio il Vecchio in un passo della Naturalis Historia (XIV 56) accenna alla biografia di Pomponio Secondo in questi termini: in C. Caesaris Germanici fili principatu anno CLX singulas uncias vini constitisse, nobili exemplo docuimus referentes vitam Pomponii Secundi vatis cenamque quam principi illi dedit (In un anno del principato del figlio di C. Cesare Germanico abbiamo appreso da un noto caso che un'oncia di vino costava 160 sesterzi, quando narravamo la vita del vate Pomponio Secondo e il banchetto che egli offrì a quel principe). Il passo appare interessante, al di là menzione della biografia pliniana, soprattutto perché qui Pomponio Secondo è designato come vates: ciò appare degno di attenzione in quanto anche in NH XIII 83 Plinio qualifica come vates Pomponio: Tiberi Gaique Gracchorum11 manus apud Pomponium Secundum vatem civemque clarissimum vidi annos fere post ducentos; iam vero Ciceronis ac Divi Augusti Vergilique saepenumero videmus (Circa dopo duecento anni abbiamo osservato presso il vate Pomponio Secondo manoscritti di Tiberio e Caio Gracco; assai spesso certo ne avevamo anche visti di Cicerone e del divo Augusto e di Virgilio), e ancora in NH VII 80 parla di un Pomponio console e poeta: sed haec parva naturae insignia in multis varia cognoscuntur, ut in Antonia Drusi numquam expuisse, in Pomponio consulari poeta non ructasse (ma di questi piccoli, ma notevoli indizi del suo carattere, ne sono noti di diversi a proposito di diverse persone, quando per esempio non aveva mai sputato in presenza di Antonia moglie di Druso, o mai ruttato in presenza dell'ex console e poeta Pomponio). Che Pomponio fosse poeta tragico è assicurato da due passi di Quintiliano, il quale peraltro esprime su di lui giudizi lusinghieri: nam memini iuuenis admodum inter Pomponium ac Senecam etiam praefationibus12 esse tractatum an “gradus eliminat”13 in tragoedia dici oportuisset (Infatti ricordo quand'ero molto giovane che era stato discusso anche in prefazioni fra Pomponio e Seneca, se fosse stato opportuno dire nella tragedia 'esce di scena')(Inst. VIII 3, 31); e X 1, 98: Eorum quos uiderim longe princeps Pomponius Secundus, quem senes [quem] parum tragicum putabant, eruditione ac nitore praestare confitebantur (Fra quelli che avevo visto fu di gran lunga il primo Pomponio Secondo, che gli anziani ritenevano troppo poco tragico, ma ammettevano che fosse superiore in dottrina e raffinatezza).

Della produzione di Pomponio Secondo conosciamo, oltre ad un frammento poco significativo dell’Atreus14, un secondo frammento, della praetexta Aeneas: Ex humile rege15; il grammatico Carisio (GLK 1, 132 = Barwick 168, 29-30) citando quest’emistichio, osserva anche l’insolito impiego dell’aggettivo humile da parte di Pomponio: humile de homine aliquo, ut Pomponius Secundus in Aenea “Ex humile rege”: ciò fa pensare che Pomponio prediligesse uno stile ricercato e fosse un poeta dotto ed elegante come rileva Quintiliano, il quale pone Pomponio in testa ai poeti tragici del tempo16; di lui peraltro anche Tacito in due passi attesta l’eccellenza: in Dialogus de oratoribus 13 (ambientato nel 75-77 d.C. e composto da Tacito nel 100) scrive infatti: ne nostris quidem temporibus Secundus Pomponius Afro Domitio17 vel dignitate vitae vel perpetuitate famae cesserit (e nemmeno Pomponio Secondo, ai nostri tempi, era secondo ad Afro Domizio per la moralità della vita o per la lunghezza della fama); e ancora in Ann. XII 28, 2, commentando gli ornamenta triumphalia che Pomponio aveva ricevuto per i suoi successi sui Cherusci e sui Catti in Germania tra il 50 e il 51, scrive: decretusque Pomponio triumphalis honos, modica pars famae eius apud posteros in quis carminum gloria praecellit (e fu decretato a Pomponio l'onore del trionfo, una piccola parte della sua fama presso i posteri, per cui è superiore la gloria delle sue composizioni).

Dunque Publio fu un autore colto che godette certamente della stima dei suoi contemporanei: la sua raffinatezza, però, sebbene fosse gradita al pubblico colto, non gli valse sempre il plauso delle platee romane giacché Tacito stesso (Ann. XI 13, 1 sotto il 47 d.C.), riferisce un episodio che mostra il favore di Claudio e lo scarso apprezzamento popolare delle sue tragedie:

at Claudius matrimonii sui ignarus et munia censoria usurpans, theatralem populi lasciviam severis edictis increpuit, quod in Publium Pomponium consularem (is carmina scaenae dabat) inque feminas inlustris probra iecerat;
Ma Claudio ignaro della condotta di sua moglie, rivestendo la carica di censore, biasimò in alcuni severi editti la sguaiatezza a teatro del popolo, poiché aveva lanciato insulti sia contro l'ex console Pomponio (il quale metteva in scena i suoi drammi), sia contro illustri matrone.

Ciononostante Pomponio si sottoponeva a suo modo al giudizio del pubblico come rivela Plinio il Giovane (Ep. VII 17, 11):


Itaque Pomponius Secundus (hic scriptor tragoediarum), si quid forte familiarior amicus tollendum, ipse retinendum arbitraretur, dicere solebat: “Ad populum prouoco”, atque ita ex populi uel silentio uel adsensu aut suam aut amici sententiam sequebatur. Tantum ille populo dabat; recte an secus, nihil ad me.
Pertanto Pomponio Secondo (lo scrittore di tragedie), se un amico piuttosto stretto riteneva che dovesse per caso tralasciare qualcosa, ed egli invece riteneva di doverlo conservare, era solito dire: "Mi appello al popolo", e in questo modo seguiva l'opinione o propria o di un suo amico in base al silenzio o all'assenso popolare. Tanta era l'importanza che dava al popolo; se lo facesse giustamente o no, non mi riguarda affatto.

Dall’insieme di queste testimonianze emerge dunque la figura di un poeta colto e raffinato, che stentava però ad affermarsi presso il grande pubblico; una spiegazione di ciò viene dal numero di termini insoliti impiegati da Pomponio nei suoi scritti, segnalate dai grammatici antichi del IV sec. e dallo stesso Plinio il Vecchio18, suo biografo e attento lettore, a cui era nota la passione di Pomponio per i manoscritti antichi (NH XIII 83), di cui era un collezionista:

Charis. 1, 137 GLK = Barwick 174, 18-24: Monteis. Licet Pomponius Secundus poeta, ut refert Plinius, propter homonynum nominativi accusativo casu “omnes” non putet dici sed “omneis”, tamen idem Plinius in eodem permanet dicens omnes tunc demum posse dici accusativo ut canes, quando genetivus pluralis horum “canum” ante um i non habet.
Monteis: benché il poeta Pomponio Secondo, come riferisce Plinio, non ritenga che si dica, a causa dell'omonimia con il caso nominativo, 'omnes' in accusativo, tuttavia lo stesso Plinio resta della stessa opinione sostenendo che 'omnes' in fin dei conti può essere usato all'accusativo, come in 'canes', poiché il genitivo plurale di parole come 'canum' non ha la 'i' prima di 'um'.

Charis. GLK 1, 125 = Barwick 160, 3-7: cetariis Pomponius Secundus ad Thraseam, “cum ratio cetaribus” inquit Plinius “poscat, ut moenia moenibus, ilia ilibus, Parilia Parilibus, ea nomina quae i ante a habent ut cetaria, in bus necesse est desinant”.
Cetariis: Pomponio Secondo a Trasea. Dice Plinio: "Poiché la regola esige 'cetaribus' come 'moenibus' per 'moenia' e 'ilibus' per 'ilia', 'Parilibus' per 'Parilia', quei nomi che, come 'cetaria' hanno una 'i' davanti ad 'a' è necessario che escano in 'bus'.

Diom. GLK 1, 371: Sed novitas brevitatis causa cuncta permiscuit. Quippe sancio sancii faciebant, ut Pomponius ad Thraseam sancierat, et in passivo Cassius Severus.
Ma la novità dello stile ha confuso ogni cosa a causa della 'brevitas'. Ecco che 'sancio' al perfetto faceva 'sancii', come Pomponio con Trasea aveva usato 'sancierat', e al passivo Cassio Severo.

3b) Prisc. GLK 2, 538: Pomponius Secundus ad Thraseam: sancierat ius utile civitati.
Pomponio Secondo a Trasea: 'sancierat' una legge utile alla città.

Di grande interesse mi sembrano le notizie di Carisio, di Diomede e di Prisciano che attestano una corrispondenza tra Pomponio e Trasea (Peto), il celebre senatore stoico d’età neroniana: ciò premesso, Pomponio potrebbe forse essere annoverato tra gli esponenti dell’opposizione senatoria a Nerone che faceva capo a Trasea Peto. Non abbiamo infatti nessuna notizia di lui sotto Nerone e questo fa pensare che si fosse ritirato dalla politica: tenendo conto che Plinio in NH XIII 83 afferma di aver visto i manoscritti dei Gracchi a casa di Pomponio annos fere post ducentos, si ricava che la visita di Plinio a Pomponio dovette avvenire in una data compresa tra il 66 e il 7819 e che il De vita Pomponi Secundi, tra le prime opere di Plinio, immediatamente posteriore alla morte dell’amico, fu scritto probabilmente nei primissimi anni del regno di Vespasiano, periodo al quale potrebbe dunque risalire la morte dello stesso Pomponio.

Sappiamo infine che Trasea amava partecipare in qualità di cantore tragico ai ludi cetasti che si celebravano a Padova, sua città natale, di cui danno notizia Tacito Ann. XVI 21, 1: eaque offensio altius penetrabat, quia idem Thrasea Patavi, unde ortus erat, ludis cetastis a Troiano Antenore institutis habitu tragico cecinerat (e quell'offesa era più lacerante, poiché lo stesso Trasea aveva recitato come attore tragico a Padova, dove era nato, nei ludi cetasti, istituiti dal troiano Antenore) e Cassio Dione (62, 26, 3-4):

Θρασέας δὲ ὅτι οὔτε ἐς τὸ βουλευτήριον συνεχῶς ὡς οὐκ ἀρεσκόμενος τοῖς ψηφιζομένοις ἀπήντα, οὔτ' ἤκουσέ ποτε αὐτοῦ κιθαρῳδοῦντος, οὔτε ἔθυσε τῇ ἱερᾷ αὐτοῦ φωνῇ ὥσπερ οἱ ἄλλοι, οὔτε ἐπεδείξατο οὐδέν, καίτοι ἐν Παταουίῳ τῇ πατρίδι τραγῳδίαν κατά τι πάτριον ἐν ἑορτῇ τινι τριακονταετηρίδι ὑποκρινάμενος.
Trasea [fu accusato] per il fatto che né si presentava frequentemente alle sedute del senato in quanto non ne gradiva le votazioni, né mai lo aveva udito mentre si esibiva con la cetra, né sacrificava alla sua sacra voce al pari degli altri, né si era mai esibito in pubblico, ma tuttavia a Padova, sua patria, egli aveva recitato una tragedia secondo un'usanza locale in una festa che vi si teneva ogni trent'anni.

Sebbene la natura e la denominazione di questi ludi non siano del tutto chiari20, è stato ipotizzato21, proprio sulla base del passo di Carisio (GLK 1, 125 = Barwick 160, 3-7) nonché di un’iscrizione proveniente da Padova in cui compare il termine cetaes22, che si tratti dei Ludi Cetarii o dei Cetaria, ludi cioè connessi con la pesca del tonno praticata nell’Adriatico: non è pertanto privo di interesse il fatto che il vocabolo cetariis sia impiegato proprio da Pomponio nella sua corrispondenza con il padovano Trasea il quale a sua volta aveva interesse per la tragedia e si esibiva in ludi a cadenza trentennale, la cui origine è da ricondurre ad Antenore, uno dei protagonisti della leggenda troiana (la stessa leggenda a cui fa riferimento l’Aeneas di Pomponio!).

Alcuni episodi della biografia di Pomponio mostrano che egli molto probabilmente nutriva simpatie per la tradizione popularis: Plinio (NH XIII 83) afferma infatti che Pomponio possedeva ancora manoscritti di Tiberio e Gaio Gracco, vale a dire i capostipiti dei populares; il magro frammento dell’Aeneas fa intravedere che Publio parlava di un rex di umili origini (ex humile rege): forse dietro queste parole potrebbe celarsi un ricordo di Servio Tullio, il rex “democratico” per eccellenza; Pomponio infine, di fronte  ad alcune scelte espressive, giudicate inopportune dagli amici, rispondeva di rimettersi al giudizio del popolo (ad populum provoco: tantum ille populo dabat, Plin. Ep. VII 17, 11).

Se è così, si comprende un po’ meglio sia la sua carriera sotto Claudio, imperator popularis23, sia la sua avversione per Nerone, un imperatore che aveva impresso una svolta decisamente demagogica e autocratica al principato, di tendenza opposta a quella claudiana, e che per giunta si gloriava di essere un grande letterato24 nonché un inimitabile istrione.

A questo punto mi domando se Publio Pomponio Secondo non possa essere l’autore dell’Octavia, praetexta di spiriti antineroniani, composta da un anonimo autore di sentimenti stoici vicini a Seneca, poco dopo la morte di Nerone, tra il 68 e il 7125: Pomponio era infatti in rapporto con Seneca e con Trasea Peto: con il primo dibatteva questioni relative alle praefationes; col secondo, capofila dell’opposizione stoica in senato, aveva stretto rapporti di natura epistolare; proprio da una di queste lettere (GLK 1, 371) emerge la predilezione di Pomponio per uno stile caratterizzato dalla brevitas che si contraddistingue per l’impiego di forme sincopate che nell’Octavia compaiono almeno in due versi (531: occuparo; 532: fundaro).

Pomponio era anche un autore favorevole a Claudio, grazie al quale aveva fatto carriera, e, proprio in apertura della tragedia, Ottavia celebra la conquista della Britannia compiuta da Claudio nel 43 riprendendo i motivi e toni della propaganda claudiana26:

miserande pater,
modo cui totus paruit orbis
ultra Oceanum cuique Britanni
terga dedere,
ducibus nostris ante ignoti
iurisque sui.
(vv. 25-30)
infelice padre, a cui fino a poco tempo prima obbediva il mondo intero fin oltre l'Oceano e davanti a cui fuggirono i Britanni fino ad allora sconosciuti ai nostri condottieri, e liberi;


Statua di Ottavia, figlia di Claudio e
Messalina, protagonista dell'omonima praetexta.
Dal Ninfeo di Punta Epitaffio presso Baia,
località non lontana dall'attuale Pozzuoli.

 


Claudio e Agrippina in una moneta che reca i titoli
di Augusti per entrambi i sovrani.

stirpemque Claudi, cuius imperio fuit
subiectus orbis, paruit liber diu
Oceanus et recepit inuitus rates.
En qui Britannis primus imposuit iugum,
ignota tantis classibus texit freta
interque gentes barbaras tutus fuit
et saeua maria, coniugis scelere occidit.

(vv. 38-44)
e la stirpe di Claudio, al cui potere fu sottomesso il mondo, a lungo libero obbedì Oceano e contro voglia ne accettò le navi. Ahimè!, colui che per primo mise il giogo ai Britanni, ricoprì di tante flotte mari ignoti, e fu sicuro fra genti barbare, e mari selvaggi, morì per l'assassinio della propria moglie.

 

Claudio inoltre è evocato almeno tre volte nel corso della tragedia con l’epiteto di divus (vv. 286, 534, 586), di cui ben due (vv. 534, 586)27 per bocca di Seneca: ciò appare significativo poiché Claudio “sconsacrato” da Nerone, forse proprio nel 62, ottenne nuovamente la consacrazione, prima sotto Galba negli Acta Fratrum Arvalium28, e poi definitivamente da Vespasiano nel 70-7129, cioè proprio negli anni in cui con ogni probabilità fu composta l’Octavia.

La tragedia, come è noto, è ambientata nel 62, che è l’anno di svolta del principato neroniano in senso tirannico, l’anno in cui Nerone mandò a morte Ottavia, Rubellio Plauto e Fausto Silla (menzionati peraltro nella tragedia ai vv. 437-438, 465), consumò lo strappo con gli stoici determinando il definitivo allontanamento di Seneca dalla vita politica e ruppe con la tradizione e la dinastia giulio-claudia: che l’Octavia colga proprio nel 62 la svolta decisiva è rivelato anche dal fatto che il personaggio di Nerone nel dibattito con Seneca (vv. 437-592), in un primo momento gli risponde con argomenti dialettici, e solo alla fine dichiara brutalmente la rottura con il filosofo rendendola definitiva (vv. 587-588):

Desiste tandem, iam gravis nimium mihi,
instare: liceat facere quod Seneca improbat.
Smettila una buona volta di starmi addosso, sei ormai troppo pesante per me: mi sia lecito fare quel che Seneca disapprova.

Già ai vv. 448-449 però Nerone dichiara a Seneca, che lo esorta ad agire in modo da ottenere l’approvazione degli dei, la sua onnipotenza: [Se.] ut facta superi comprobent semper tua [Ne.] Stulte verebor, ipse cum faciam, deos (Se: che gli dèi sempre approvino le tue azioni. Ne: Sarei ben stolto a temere gli dèi, dal momento che io stesso li creo): è proprio questa frase che permette, a mio avviso, di datare nel 62 la sconsacrazione di Claudio, collegandola appunto con il ripudio di Ottavia e con il rinnegamento della tradizione giulio-claudia.

Evocando Claudio come divus per bocca di Seneca, l’autore dell’Octavia sembra volere attribuire al filosofo stoico una smentita delle posizioni ferocemente anticlaudiane espresse pochi anni prima, da lui o da altri30, in uno scritto politico come Apocolocyntosis: se è così, l’autore dell’Octavia, negli anni 68-71, in un momento in cui era in corso un dibattito sugli stoici condannati da Nerone31 e sul ruolo di Seneca come maestro del tiranno32, intenderebbe presentare Seneca come colui che sino all’ultimo si era opposto alla degenerazione in senso tirannico di Nerone e alla rottura con la tradizione giulio-claudia: l’Octavia coglie infatti, attraverso il dialogo tra Seneca e Nerone, la maturazione in atto della svolta neroniana del 62: mentre Seneca insiste sull’importanza della continuità dinastica nel governo del principato (vv. 533-535; 586-587), Nerone gli contrappone il suo disinteresse per la discendenza claudia e la sua volontà di fondare una dinastia propria33.

Si è visto inoltre che Pomponio doveva condividere l’ispirazione popularis del principato di Claudio e conservava nella sua biblioteca manoscritti dei Gracchi: mi sembra quantomai significativo che sul finire dell’Octavia (vv. 882-887) il coro prenda la parola per tessere l’elogio dei Gracchi, dei quali, tra l’altro, sono apprezzate l’alta moralità, la pietas nonché le capacità espressive:

Fleuit Gracchos miseranda parens,
perdidit ingens quos plebis amor
nimiusque fauor,
genere illustres, pietate fide
lingua claros, pectore fortes,
legibus acres
34.

L'infelice madre pianse i suoi Gracchi che furono rovinati dal grande affetto e dal fervore eccessivo della plebe, loro che erano di nascita illustre, insigni per senso del dovere, lealtà, eloquenza, avevano un cuore grande ed erano valorosi legislatori.

Publio Pomponio Secondo, console del 44, potrebbe dunque essere l’autore dell’Octavia: si è visto infatti che egli era ancora vivo tra il 66 e il 78 quando Plinio frequentava la sua casa; aveva fatto carriera sotto Claudio, ma risulta che si fosse ritirato dalla politica sotto Nerone; conosceva Seneca ed era in rapporto con Trasea Peto e ne condivideva probabilmente l’adesione allo stoicismo; impiegava forme sincopate come si riscontra nell’Octavia.

Publio Pomponio Secondo, filoclaudiano e antineroniano, è l’unico autore di praetextae di cui ci sia giunto il nome per il periodo a cui spetta l’Octavia: si presenta dunque come legittima e probabile l’identificazione di Pomponio con l’autore dell’Octavia.