BACK

  1. Il praenomen è noto da Tac. Ann. XIII 11, 1.
    BACK


  2. Cfr. A. Degrassi, I Fasti consolari dell’Impero  Romano. Dal 30 avanti Crsito al 613 dopo Cristo, Roma 1952, 12.

    BACK


  3. H. Bardon, La littérature latine inconnue, II, Paris 1956, 129-31. Più in generale cfr. M. Schanz-C. Hosius, Geschichte der Römischen Literatur, München 1935, II, 475-76; R. Hanslik, Pomponius, in RE XXI-2 (1952), 2356-60.

    BACK


  4. Cfr. Ios. Bell. Iud. II 205; Ant. Iud. XIX 263. Fu suffectus di Gaio il quale rimase in carica sino al 7 gennaio: Suet. Cal. 17, 1; cfr. anche Prosop. Imp. Rom. P 564; E. M. Smallwood, Documents illustrating the principates of Gaius Claudius and Nero, Cambridge 1967, 2.

    BACK


  5. `Eort¾n tina ™n tù Palat…J Ãge kaˆ qšan ™petšlei, k¢n toÚtJ kaˆ aÙtÕj ½sqie kaˆ œpine kaˆ toÝj ¥llouj eƒst…a, Óte d¾ kaˆ Pompènioj Sekoàndoj Ð tÒte ØpateÚwn ™nefore‹tÒ te ¤ma tîn sit…wn, par¦ to‹j posˆn aÙtoà kaq»menoj, kaˆ ™pikÚptwn sunecîj aÙtoÝj katef…lei.
    Mentre Gaio stava celebrando una festa nel Palazzo e stava dando uno spettacolo, nel corso del quale mangiò e bevve anche lui festeggiando con gli altri, era presente anche Pomponio Secondo, a quel tempo console, che si saziava di cibo, seduto ai piedi dell'imperatore, e, contemporaneamente, si chinava e continuava a baciarli.

    BACK


  6.  Come rivela l’erasione del suo nome dai Fasti: cfr. Degrassi, I Fasti, 12.

    BACK


  7. Cfr. Degrassi, I Fasti,  9. Forse Dione ha attribuito a Quinto Pomponio il consolato del 31 invece che quello del 41.

    BACK


  8. Non dubita che l’arrestato fosse Publio (senza però discutere le notizie di Tacito e di Dione e tacendo di Quinto) B. Baldwin, Roman  Emperors in the Elder Pliny, “Scholia”, 4 (1995), 56-78, 67.

    BACK


  9. Tac. Ann. XI 13, 1; XII 27, 2.

    BACK


  10. Plinio servì sotto le armi in Germania, seppur non continuativamente, tra il 47 e il 58; cfr. R. Syme, Pliny the Procurator, in Roman Papers, II, Oxford 1979, 742-73: 747.

    BACK


  11. Plinio sta parlando di manoscritti autografi antichi.

    BACK


  12. C. Cichorius, Römische Studien, Leipzig-Berlin 1922, 423-32: 427, ritiene che le praefationes siano da riferire a “solche mündliche Vorreden vor der Rezitation neuer Dichtungen”.

    BACK


  13. gradus eliminare significa uscire (di casa, di scena).

    BACK


  14. nunc te obsecro/stirpem ut evolvas meorumque <nomen> notifices mihi. Cfr. Bardon, La littérature,  131.

    BACK


  15. Cfr. O. Ribbeck, Tragicorum Romanorum Fragmenta, Leipzig 1897, 331: Ex humile regem. I codici danno rege; la correzione stampata dal Ribbeck è congettura del Bergkius.

    BACK


  16. Quintiliano non parla di altri poeti a lui contemporanei: poco prima accenna soltanto a Vario (Rufo) e a Ovidio, che però non può “aver visto” poiché, com’è noto, Quintiliano nasce nel 35 d.C. circa (Inst. X 1, 98): Iam Vari Thyestes cuilibet Graecarum comparari potest. Ouidi Medea uidetur mihi ostendere quantum ille uir praestare potuerit si ingenio suo imperare quam indulgere maluisset.

    BACK


  17. Su Domizio Afro, oratore del tempo di Caligola, cfr. Tac. Ann. IV 52; Dio 59, 19 su cui W. G. Mc Dermott, Saint Jerome and Domitius Afer, “Vigiliae Christianae”, 34 (1980), 19-23.

    BACK


  18. Le citazioni riprese da Plinio in queste testimonianze dei grammatici latini derivano dal Dubius Sermo pliniano.

    BACK


  19. Il calcolo, che può naturalmente oscillare di qualche anno, si fonda per Tiberio sul 134/3 e per il fratello sul 123/2 a.C. Il Cichorius, Römische Studien, 425-26,  pone la morte di Pomponio nella seconda metà degli anni 60; W. Otto, Zur Lebenszeit des P. Pomponius Secondus, “Philologus”, 90 (1935), 483-94, non oltre il 54. Io credo invece che si debba scendere almeno fino al 66.

    BACK


  20. Su cui cfr. L. D. Jacobs, Ludi Cetasti Patavinorum, “Athenaeum”, 67 (1989), 275-81, il quale propende per mantenere il tràdito cetastis.

    BACK


  21. K. Nipperdey, Cornelius Tacitus, II, Berlin 1857, 267.

    BACK


  22. CIL V 2787 = ILS 5202: Q. Magurius Q. f. Fab(ia)/Ferox,/lus(or) epidixib(us) et cetaes I II III in/greg(e) Veturian(a) quae et/iuni/orum, A(quis) dicavit euras VIII et pertic(am) uncinor(um) XII n CCLIX. Sugli interessi degli stoici per il teatro tragico cfr. J. Blänsdorf, “Stoici a teatro?”. La Medea di Seneca nell’ambito della teoria della tragedia, “RIL”, 130 (1996),  217-36.

    BACK


  23. Per l’ispirazione popularis del principato di Claudio cfr. B. Levick, Antiquarian or Revolutionary? Claudius Caesar’s conception of his principate, “AJPh”, 99 (1978), 79-105; M. Sordi, Il De vita sua di Claudio e le caratteristiche di Claudio come storico di se stesso e di Roma, “RIL”, 127 (1993), 213-19.

    BACK


  24. Il titolo di una sua tragedia conservato da Persio (Sat. I 128) è l’Attis (o le Baccanti), cfr. Bardon, La littérature, 132.

    BACK


  25. Cfr. I. Ramelli qui sopra.

    BACK


  26. Cfr. ad es. ILS 216; G. Zecchini, I confini occidentali dell’impero: la Britannia da Cesare a Claudio, in Il confine nel mondo classico, a c. di M. Sordi, Milano 1987, (CISA, 13), 250-71.

    BACK


  27. Il divi del verso 789 è correzione del tràdito diri.

    BACK


  28. CIL VI 2041, linee 12, 39, 45.

    BACK


  29. CIL VI 1257.

    BACK


  30. Gli studiosi moderni sono ancora divisi tra quelli che attribuiscono l'opera senz’altro a Seneca e quelli che ne disconoscono la paternità senecana: cfr. status quaestionis in Ramelli, qui sopra.

    BACK


  31. Si veda ad esempio nel 70 la condanna ottenuta da Musonio Rufo ai danni di Egnazio Celere, che sotto Nerone aveva fatto condannare Barea Sorano.

    BACK


  32. In Cassio Dione (61, 10, 2) Seneca è chiamato turannodid£skaloj; M. Sordi, Introduzione a Cassio Dione, Storia Romana, volume sesto (libri LVII-LXIII), Rizzoli, Milano 1999, 20-21, ritiene che Seneca non godesse della stima di Plinio il Vecchio, fonte molto probabilmente di Cassio Dione per il principato neroniano.

    BACK


  33. Sulle allusioni a Nerone, sentito come un usuraptore della dinastia giulia-claudia e chiamato ripetutamente (cfr. soprattutto vv. 139-143) con il nome di Domizio (così come fa Plinio il Vecchio a più riprese nella Naturalis Historia) cfr. R. C. Lounsbury, Lucan, the Octavia, and Domitius Nero, in Studies in Latin Literature and Roman History IV, ed. C. Deroux,  Bruxelles 1986 (Collection Latomus, 196), 499-520;  Interessante in questo senso anche una notizia di Suetonio (Nero 41) secondo cui Nerone, di fronte al biasimo di Vindice nihil autem aeque doluit, quam ut malum se citharoedum increpitum ac pro Nerone Ahenobarbum appellatum; et nomen quidem gentile, quod sibi per contumeliam exprobraretur, resumpturum se professus est deposito adoptiuo (ma niente gli dette maggior fastidio che sentirsi definire cattivo citaredo ed esser chiamato Enobarbo invece che Nerone. In quanto al suo nome di famiglia dichiarò che, poiché lo usavano come insulto, lo avrebbe ripreso abbandonando quello adottivo).

    BACK


  34. L’autore dell’Octavia sa però che il favore del popolo è pericoloso; infatti del favore del popolo per Ottavia, Nerone si vendica con l’incendio di Roma, ed accenni alla mutevolezza degli umori popolari sono presenti a più riprese nella tragedia:
    (vv. 877-881): [Cho.] O funestus multis populi / dirusque fauor, / qui cum flatu uela secundo / ratis impleuit uexitque procul,
    / languidus idem deserit alto / saeuoque mari (Coro: O favore popolare, funesto e terribile per molti: tu che, dopo aver gonfiato con il tuo soffio favorevole le vele della nave e averla portata lontano, spegnendoti, l'abbandoni nell'alto mare in tempesta!);
    (vv. 834-35): [Ne.] Exultat ingens saeculi nostri bonis
    / corrupta turba nec capit clementiam / ingrata nostram, ferre nec pacem potest, / sed inquieta rapitur hinc audacia, / hinc temeritate fertur in praeceps sua (Ner.: Si abbandona ad eccessi la folla, corrotta dal benessere della nostra età, e non accetta la mia clemenza, ingrata, né sa accettare la pace, ma, nella sua inquietudine, ora si lascia prendere dalla propria audacia, ora si lascia trascinare a precipizio dalla propria temerarietà);
    (vv. 182-85): [Nut.] Confirmet animum civium tantus favor [Oct.] Solatur iste nostra, non releuat mala; [Nut.] Vis magna populi est. [Oct.] Principis maior tamen (Nut.: Il grande affetto che hanno per te i tuoi concittadini possa incoraggiare il tuo animo. Ott.: Questo consola i miei mali, non me li toglie. Nut.: La forza del popolo è grande. Ott.: Ma è più grande quella del principe);
    (vv. 454 -55): [Se.] Id facere laus est quod decet, non quod licet; [Ne.] Calcat iacentem uulgus. [Se.] Inuisum opprimit (Sen.: La gloria consiste nel fare ciò che si deve, non ciò che si può. Ner.: La folla calpesta chi si fa piccolo. Sen.: Ma schiaccia chi si rende inviso);
    (vv. 572-75): [Se.] Vix sustinere possit hos thalamos dolor uidere populi, sancta nec pietas sinat. [Ne.] Prohibebor unus facere quod cunctis licet? [Se.] Maiora populus semper a summo exigit; (Sen.: Il risentimento e la fedeltà del popolo non potranno certo sopportare queste nozze, né le permetterà il sacro affetto che tu devi alla tua sposa. Ner.: Io solo dunque non potrò fare ciò che è lecito a tutti? Sen.: Da chi è più in alto il popolo esige sempre sacrifici maggiori);
    (vv. 579-580): [Ne.] Male imperatur, cum regit uulgus duces. [Se.] Nihil impetrare cum ualet, iuste dolet (Ner.: Si governa male quando è il volgo che guida i capi. Sen.: Quando non riesce ad ottenere nulla giustamente esso si risente).

    BACK


TOP