I LAGER COME LE BOLGE: LA CITTA' DOLENTE DEL '900

George Steiner ha scritto che i campi di sterminio nazisti della Seconda guerra mondiale erano la realizzazione concreta di immagini medievali riguardanti le punizioni, i peccati, le torture infernali, i Trionfi della morte. Tanto più questa rassomiglianza si può, purtroppo, estendere a una delle più alte creazioni artistiche di tutti i tempi: alla Divina Commedia di Dante. Gli spunti per allestire i terribili lager nazisti in quel poema sono davvero tanti e non è escluso che i capi della esecranda Gestapo si fossero ispirati proprio ad alcune di quelle grandi invenzioni fantastiche. Intanto l'ingresso dell'Inferno dantesco e la famosa scritta «Per me si va nella città dolente...» è riecheggiata, con beffarda stortura, nell'iscrizione che tutt'oggi campeggia sul cancello d'entrata del campo di sterminio di Auschwitz: «Arbeit macht frei» (Il lavoro rende liberi).

Quell'iscrizione, suggerita da Himmler, il capo indiscusso della Gestapo, comparve per la prima volta non ad Auschwitz, ma sul cancello del lager di Dachau e, dietro a essa, sul tetto del palazzetto riservato all'amministrazione del campo, si leggeva dipinto in caratteri cubitali un monito che suonava più o meno così: «La strada della libertà è fatta di zelo e onestà, pulizia, sobrietà, obbedienza, sincerità, sacrificio, lealtà». La criminale distorsione nei riguardi della Divina Commedia , e soprattutto l'atroce beffa ai danni dei prigionieri politici (ebrei e non ebrei), degli stranieri pericolosi, degli zingari, dei malati di mente e dei testimoni di Geova non ha eguali nella storia dell’umanità. E il famoso Minosse, il guardiano della porta che «giudica e manda secondo che avvinghia», cioè secondo quante volte torce la propria coda, ha forse un equivalente nei lager? Purtroppo sì.

Anche il nome di quel mostro, mezzo uomo, mezzo animale, sadico e aggressivo cominciava con l'emme. Il dottor Mengele, medico del campo di Auschwitz, attendeva i prigionieri sul piazzale del campo. Li esaminava, li interrogava poi con un cenno della mano li «mandava» nei vari reparti, se non direttamente nelle camere a gas, dove venivano subito uccisi con il cianuro. E dopo... Dopo c'era Dite, la città del fuoco: i forni crematori, che nella primavera del '45 erano attivi ventiquattro ore su ventiquattro, bruciando i corpi dei condannati, già assassinati, fino a incenerirli.

Le rassomiglianze sono molte e sono davvero dolorose, tanto che viene spontaneo domandarsi come i più alti raggiungimenti della mente umana possano essere volti verso il male da un manipolo di criminali determinati e organizzati. Nel sesto canto dell'Inferno i golosi sono condannati a camminare incessantemente sotto una pioggia battente, sozza e infetta; e nel settimo i dannati percorrono due semicerchi e, quando questi si congiungono, i due gruppi si insultano in modo feroce, rozzo, bestiale. Come non pensare a ciò che è stato scientemente attuato a Bergen-Belsen, Birkenau, Auschwitz, Dachau: gli interminabili appelli sotto la pioggia, nel fango, il dover stare sull'attenti e al minimo sgarro essere battuti e anche abbattuti a colpi di mitra?

Come non pensare a come i prigionieri venivano intaccati nell'integrità della loro psiche, in modo da diventare feroci gli uni con gli altri? Nel nono canto dell'Inferno appaiono, in cima a una torre, le tre Furie. La torre di cui parla Dante ricorda, e non tanto alla lontana, le torri che erano collocate agli angoli dei lager e le Furie... Che cosa dire di una certa Ilse Koch e delle sue amiche, sorveglianti sadiche, indemoniate, che della pelle delle prigioniere uccise fecero fabbricare schermi per gli abat-jours e la sera andando a letto, magari rievocavano i propri atti sadici, eccitandosi? Nel tredicesimo canto, quello di Pier delle Vigne («... perché mi scerpi») tra gli arbusti abitati dalle anime dei dannati, altri dannati corrono nudi inseguiti da cani che poi li straziano. Come non pensare ai terribili segugi delle Ss? Purtroppo erano scene quasi quotidiane quelle descritte da Dante in questo canto.

Nel diciottesimo canto i fraudolenti giacciono in un lago di sterco. Era proprio quello che i nazisti avevano creato nei loro lager, costringendo i prigionieri a sedersi uno accanto all'altro su lunghe assi, in modo che quasi di sicuro qualcuno cadesse di sotto e annegasse nello sterco. Nel ventunesimo canto i barattieri sono condannati a stare in vasche di pece bollente («... come nell'arzanà dei viniziani bolle d'inverno la tenace pece»): in uno dei pochi campi di sterminio al di fuori del territorio della Germania e della Polonia, nella cosiddetta Risiera di San Sabba di Trieste, i prigionieri a volte venivano abbattuti a colpi di mazza ferrata e poi, una volta svenuti, immersi in vasche di acido, il quale con gran bollore annientava i corpi.

Le ferite che si rimarginano e si riaprono, la lebbra e la scabbia che divorano la carne dei dannati del ventottesimo e ventinovesimo canto purtroppo erano la realtà quotidiana dei lager nazisti. Anche la povera Anna Frank, che tanti conoscono dal suo Diario rimasto a noi come testimonianza, dopo l'arresto morì di tifo, insieme alla madre e alla sorella; non aveva nessuno colpa, non falsificava metalli, come i dannati di Dante, né falsava le persone, come i dannati che ardevano, nell'inferno dantesco, di una febbre perenne.

Nel trentunesimo canto, compare il conte Ugolino che fu chiuso in una torre e affamato fino a essere indotto a mangiare i propri figli (la chiusa del canto è ambigua a questo riguardo). Quanti atti di cannibalismo vero e proprio furono consumati nei lager più feroci, come quello di Auschwitz? Basti leggere l'esemplare testo teatrale di George Tabori, pubblicato in questi giorni da Einaudi: l'autore vi narra la storia di suo padre il quale, per non aver mangiato il corpo di un compagno di prigionia - da altri prigionieri disperati, cucinato e consumato per pasto - morì ucciso con il cianuro in una camera a gas di Auschwitz.

In ultimo vorrei citare l'esempio del sommo traditore, Lucifero, condannato a penzolare al centro del mondo, circondato dal ghiaccio eterno. Il 23 aprile del 1944 gli abitanti di Trieste, uscendo di casa al mattino presto, videro penzolare dalle finestre di un’elegante villa del centro città, cinquanta impiccati, giustiziati dalle Ss per ritorsione. Pendevano nel vuoto, sotto gli occhi di tutti, tra loro c'erano ragazzi giovanissimi che si erano uniti ai partigiani, per disgusto e ribellione contro ciò che la civilissima città di Trieste aveva sopportato in fatto di persecuzione e sterminio.

Gli esempi paralleli tra l'inferno dantesco e i campi di sterminio nazisti potrebbero essere ancora tanti. Vorrei ribadire qui che, grazie alle scoperte scientifiche e al «progresso», il sapere e la «fantasia» dei nazisti hanno superato di gran lunga quelli di Dante. Le prove di resistenza alla pressione dentro recipienti chiusi, la lobotomia, cioè il sezionamento da vivo dei cervelli, le prove chirurgiche sui gemelli, lo stesso uso del gas cianuro fatto sprigionare da «docce» dove erano in Dante?

Le tante trovate sadiche, la scarica elettrica che attendeva chi si fosse avventato contro il filo spinato, la sapiente degradazione psicologica, lo sfruttamento gratuito dei prigionieri ai quali era impossibile nutrirsi quel tanto che fosse sufficiente per continuare a lavorare, sono reperibili forse nella Divina Commedia? Tutto questo arrivava a una tale bassezza alla quale Dante non poteva minimamente pensare per rappresentare la terribile giustizia divina. Dall'inferno dei lager sono usciti vivi davvero pochi: ma lì cominciava un altro inferno, quello dei sopravvissuti, molti dei quali si sono poi tolti la vita, non resistendo al ricordo della malvagità che aveva così orrendamente infettato il nostro pianeta.

Marco