Il bimbo del ghetto

Enzo Biagi a colloquio con Tvusi Nussbaum

Un fotografo scatta una scena che diventa un simbolo: c’è un ragazzino, con un berrettuccio di panno, un cappotto ormai troppo corto che lascia scoperte le gambe magre, lo sguardo sgomento, le braccia alzate: si chiama Tvusi Nussbaum e ora fa il medico e vive a Rockland, vicino a New York, in una graziosa villetta circondata da prati verdi. Ha quattro bambine. Racconta: “Ho dimenticato molte cose, probabilmente le ho soppresse dalla mia memoria. Coscientemente, o probabilmente inconsciamente, cerco di sopprimere il passato. Fino ad ora ho sempre cercato di vivere il futuro, credo che questo mio atteggiamento risalga al periodo di Bergen Belsen. Cercavamo sempre di tenere del cibo per il domani, in modo che se i tedeschi non ci avessero dato un giorno un pezzo di pane o una minestra, avremmo avuto il pane avanzato dal giorno prima o dalla settimana prima. Forse è questo il motivo  per cui non ho mai parlato con le mie figlie di ciò che è stato.Il trattamento che noi ricevevamo era un’eccezione rispetto agli altri lager. L’unica cosa che ricordo è che non lavoravamo, eravamo tutti insieme, uomini, donne e bambini, avevamo ben poco da mangiare, sentivamo l’odore dei corpi in decomposizione a Bergen Belsen, l’odore delle fosse comuni. Ma in confronto ad Auschwitz, ad esempio, non eravamo trattati male. L’unico motivo per cui riuscii a salvarmi fu che i miei zii sopravvissero e mi adottarono. Riuscimmo a farcela perché io ero nato in Palestina. Se non fossimo stati nell’elenco di persone destinate ad andare in Israele non saremmo sopravvissuti. Il 13 Aprile 1945 siamo stati liberati dalla IX Armata degli Stati Uniti. Nell’Ottobre del 1945 andammo in Palestina e credo siamo stati gli ultimi a entrare legalmente in quel paese.”

Giorgio