Il Castello Sforzesco

 

La Porta Giovia nel sistema difensivo urbano 

Le mura romane 

Mediolanum ebbe le sue prime vere mura alla fine del I secolo avanti Cristo, sotto il principato di Ottaviano Augusto. Nel circuito di queste mura (il cui tratto meglio conservato è custodito nelle cantine di via S. Vito) si aprivano cinque porte sulle principali direttrici di traffico: Porta Giovia, Porta CumanaPorta Orientale o Argentea, Porta Romana, Porta Ticinese, la Nuova

La Porta Giovia si apriva verso l'importante strada verso il Seprio e ospitava ai suoi lati importanti sepolture, per lo più datate a partire dall'età augustea. Molte lapidi sottratte a questo cimitero verranno rimpiegate nella costruzione di edifici e basiliche in età tardo-imperiale Le radicali trasformazioni subite da questa zona a partire dal XIV secolo non hanno lasciato tracce della porta romana, ma si pensa che si trattasse di una normale porta a due fornici con torri arrotondate, come quella superstite al Carrobio di Porta Ticinese.

Le mura comunali

La cinta costituita dalle mura romane era stata col tempo gradualmente smantellata durante le invasioni barbariche dell'alto medioevo, sia per scelte volontarie, nei tratti ove bloccava l'espansione urbana, sia per incuria. Un primo lavoro di ripristino si ebbe con il regno di Liutprando (secolo VIII), e successivamente per opera dell'arcivescovo Ansperto  (secolo IX).Una nuova, e più estesa, cerchia difensiva venne però realizzata solo a partire dal 1155, su progetto di  mastro Guintellino. Consisteva in un cerchio irregolare, formato da un profondo fossato, nella parte verso la campagna, affiancato, nella parte verso la città, da un terrapieno formato dal materiale di risulta dello scavo del fosso,la realizzazione venne battezzata ben presto "cinta dei terraggi" (proprio perché fatta di terra). Il fossato era riempito d'acqua, mentre lo scarico della stessa era garantito dalla Vettabbia.

Dopo le devastazioni compiute dal Barbarossa, sui resti di questa cinta fortificata si iniziarono all'incirca nel 1171 i lavori per una più efficace linea difensiva, questa volta in muratura. Questa nuova cerchia era caratterizzata da sette porte e dodici pusterle, le une e le altre concepite come dei piccoli fortini. La pace di Costanza,però, fece in parte abbandonare i lavori di completamento. La nuova cinta, comunque, diede un particolare e duraturo assetto all'impianto urbanistico, tant'è che il fossato diventerà poi l'alveo dei Navigli (cosiddetta cerchia dei Navigli).

La nuova Porta Giovia venne leggermente avanzata verso gli orti coltivati a nord, che sfruttavano l'abbondanza di acque risorgive e incanalate (borgo degli ortolani), e si apriva sempre lungo la strada verso il Seprio. Sul suo lato orientale si trovava la Pusterla delle Azze, cosìddetta dalle accie, ossia le trame dei fustagni per la cui lavorazione si sfruttavano le acque del Nirone che scendeva dal borgo degli Ortolani. Tra la Porta Giovia e la Pusterla delle Azze si svolgevano anche i mercati ortofrutticoli e del fieno, ma si collocavano anche un gran numero di ostelli per pellegrini e viandanti, stallazzi per i cambi dei cavalli, cappelle ricche di leggende e tradizioni, come quella dei SS. Gervaso e Protaso. In questa zona a ridosso della Porta Giovia si insediarono anche i primi Carmelitani giunti a Milano.

Le difese viscontee a Porta Giovia

La Rocca di Galeazzo II Visconti

Nella divisione del territorio fra i nipoti Matteo II, Galeazzo II e Bernabò voluta dall'arcivescovo e signore di Milano Giovanni Visconti, a Galeazzo II era toccata la Porta Giovia. Tutte le Porte vennero debitamente potenziate e fortificate, in modo da farne delle Rocchette. La più famosa e documentata a Milano era quella di Porta Romana utilizzata da Bernabò e sopravissuta fino al suo atterramento voluto dal Piermarini.

La diffidenza che Galeazzo II e soprattutto sua moglie Bianca di Savoia provavano nei confronti di Bernabò determinò lo spostamento della coppia a Pavia, dove la coppia aveva fatto costruire un vero castello atto all'abitazione, con un grande parco per l'allevamento dei cavalli. La Rocca di Porta Giovia, edificata tra il 1358 e il 1368, rimase quale presidio militare di Galeazzo II a Milano e quale residenza per i suoi soggiorni milanesi (mentre il palazzo visconteo accanto all'arcivescovato - ora Palazzo Reale - non veniva usato perché troppo vicino al temuto fratello).

Una parte del fossato comunale si trova ancora oggi all'interno del castello, così da dividerlo quasi in due: di qua il grande cortile adibito a piazza d'armi, di là la Corte Ducale e la Rocchetta, cuore del castello stesso.

Il castello di Filippo Maria

Fu l'ultimo dei Visconti, Filippo Maria (1412-1447) ad eleggere la Rocca di Porta Giovia a sua residenza milanese e quindi a trasformarla in un vero e proprio castello con pianta quadrangolare, chiamando presso di sé architetti del calibro di Filippo Brunelleschi, il contributo concreto del quale resta però abbastanza oscuro.

Poiché attorno al castello fu scavato un largo fossato (alimentato direttamente dalle acque del fossato cittadino), l'accesso era garantito da due doppi ponti levatoi con relativi battiponte, uno sul lato città, l'altro sul lato campagna.

All'epoca era già sicuramente esistente una cinta muraria che proteggeva il castello nella parte esposta verso la campagna. La campagna retrostante fu trasformata poi in un'immensa tenuta boschiva di 3 milioni di metri quadri, che nelle epoche di maggior splendore fu popolata con animali esotici, per rendere le battute di caccia più prestigiose.

Alla morte di Filippo Maria (1447), il castello di Milano, con i suoi 180 metri di lato, era senz'altro il più grande fortilizio realizzato in epoca viscontea.

 

Il periodo sforzesco

La parentesi repubblicana

Dopo Filippo Maria, che lasciava come unica erede la figlia Bianca Maria sposata al condottiero Francesco Sforza, Milano si organizzò autonomamente dando vita alla Repubblica Ambrosiana (1447-1450). In questo pur breve periodo i milanesi si accanirono con violenza contro il castello visconteo, simbolo di oppressione e tirannide, demolendolo in parte e smantellandone le opere difensive.

Comunque, l'architettura del castello era da considerarsi ormai inadeguata rispetto all'evolversi delle tecniche militari, che iniziavano ad introdurre l'uso delle artiglierie.

 

Francesco Sforza

Francesco SforzaBianca MariaDivenuto signore di Milano Francesco I Sforza nel 1450, si pose immediatamente mano alla ricostruzione del castello, che divenne il cardine di tutto il sistema difensivo cittadino.

Per rendere meno indigesta la nuova fortezza, volle che la facciata verso la città fosse ingentilita con delle finestre, a mo' di palazzo, che poi però, quando la sua Signoria si era ormai affermata e nessuno più poteva metterla in discussione, fece prontamente murare per migliorare la sicurezza dell'intera rocca. Le finestre saranno riaperte solo coi restauri moderni del Beltrami.

Le principali innovazioni architettoniche di questo periodo furono le muraglie più spesse, atte a resistere ai colpi dei proiettili, i torrioni più bassi e rotondi, camminamenti di ronda per la difesa piombante e le indispensabili, moderne, aperture per le bocche da fuoco (archibugiere, balestriere, bombardiere).

I due torrioni circolari vennero edificati con uno spessore di sette metri, abbelliti con pietre a bugnato regolare. Fu anche aggiunto un grande stemma, che recava le iniziali FR. SF. e la vipera viscontea, insegna adottata per dimostrare la continuità della stirpe sforzesca da quella viscontea. All'interno, i torrioni contenevano delle celle per i prigionieri.

Alla prima fase ricostruttiva parteciparono esperti militari dell'epoca, quali Marcoleone da Nogarolo, Filippo d'Ancona, Giovanni Solari, Jacopo da Cortona.

Vi lavorò anche Antonio Averulino, il Filarete, che edificò nel 1452 la omonima torre, al centro della facciata rivolta verso la città, anch'essa progettata per smorzare i toni eccessivamente cupi e militareschi che il castello stava assumendo. Ispirata a quella presente nel castello campestre di Cusago, inizialmente doveva essere alta quanto le mura, ma essendosi innalzati i due torrioni circolari, la torre filaretiana dovette essere alzata, aggiungendovi i due sopralzi e la cupoletta.

La sovrintendenza generale ai lavori costruttivi venne affidata a Bartolomeo Gadio, che manterrà l'incarico per ventisei anni, durante i quali si portò a termine anche la ghirlanda, la cortina muraria a difesa del castello (ricavata sulla preesistente difesa viscontea) e la strada segreta, o coperta, posta nella controscarpa del fossato.Questa era una sorta di corridoio coperto a volta, illuminata da finestrelle che si aprivano sul fossato, e prima che varie frane e la costruzione della rete fognaria la interrompessero, aveva numerose gallerie che portavano per diversi chilometri in aperta campagna.

Galeazzo Maria e Gian Galeazzo Sforza

Galeazzo Sforza,figlio di Francesco, si occupò delle parti residenziali e rappresentative; proseguì la sistemazione della Rocchetta, e completò la Corte ducale. Innalzò due nuove ali, la prima per ospitare la sala Verde e la cappella ducale; la seconda con il portico detto dell'elefante.

Morto improvvisamente nel 1476, la Signoria passò al giovane Gian Galeazzo, sotto tutela della madre Bona di Savoia e del cancelliere Cicco Simonetta

Nel 1477 Bona fece innalzare la torre centrale che ancora porta il suo nome, col preciso compito di sorvegliare i movimenti interni al castello e l'accesso alla Rocchetta. Autore ne fu il marchese Lodovico Gonzaga, Signore di Mantova. La torre fu progettata per contenere otto celle, a cominciare da quella sotterranea, l'una sopra l'altra. Nel corso dei secoli tuttavia perse la parte superiore, e finì col terminare in una sorta di terrazza protetta da una ringhiera di ferro.

Ludovico Maria detto il Moro

Liberatosi del Simonetta e scacciata Bona di Savoia, Ludovico Maria assunse la tutela del Ducato facendo firmare al nipote una lettera d'assenso, divenendo di fatto il nuovo signore dal 1480 al 1499.

Il Moro volle imprimere al Castello un'immagine più residenziale e principesca, mitigando l'impronta guerresca ancora dominante nonostante gli sforzi dei suoi predecessori. Chiamò dunque a corte artisti di spicco, tra i quali il Bramante e Leonardo. Negli anni della loro permanenza a Milano, entrambi presentarono numerosi progetti per quella che ormai era diventata la residenza della famiglia ducale.

Risulta difficile individuare tracce dell'opera bramantesca.ma è noto che verso il 1495 il cortile della Rocchetta, il quadrilatero porticato posto nel vertice occidentale del castello cui si accedeva originariamente solo dalla grande piazza d'armi tramite un ponte levatoio, fu dotato del terzo ed ultimo fronte ad arcate su colonne. La datazione, confermata dalla presenza degli emblemi prediletti dal Moro sulle targhe che decorano i capitelli di disegno corinzio, ha suggerito un'attribuzione al Bramante, ma nella arcate che posano direttamente su colonne non si può individuare un suo contributo originale.

Sua,comunque, deve sicuramente essere la cosiddetta "ponticella", opera commissionata dal Moro a Bramante identificata dal Beltrami nel piccolo ponte coperto (databile al 1495 circa) che attraversa il fossato esterno al lato nord est del castello, connettendo le stanze private del duca con l'area allora a giardino compresa tra il fosso stesso e la ghirlanda.Tra queste stanze private, v'era la "saletta negra", che il Moro, dopo la morte della sposa Beatrice, aveva fatto decorare da Leonardo ed in cui amava raccogliersi.

Il contributo di Leonardo è assai meglio precisabile, ma resta documentato sostanzialmente solo da disegni: i suggestivi schizzi per un'altissima torre-osservatorio al centro della facciata verso la città e i tempietti a cupola per le torri angolari. Non restano invece tracce di un padiglione a pianta centrale realizzato nel giardino, e del famoso monumento equestre a Francesco Sforza,distrutto dai Francesi, che doveva essere posto in una grandiosa nuova piazza rivolta verso la città.

La sala delle AsseLa creazione più famosa di Leonardo resta il grande affresco sulla volta a ombrello della sala "delle Asse", eseguito secondo un suo progetto decorativo nel 1498 circa: una grande pergola verde di rami, annodati con i famosi "vinci", che scaturivano da un circolo di alberi.

Leonardo è comunque ricordato per aver organizzato coreografie e macchinari per allietare feste e stupire gli ospiti di corte.Una delle più famose fu quella organizzata nella Sala Verde della corte ducale, e detta Festa del Paradiso. Leonardo creò sul palcoscenico una volta raffigurante il Paradiso, con astri, divinità, angeli e quant'altro. Sul culmine della volta l'artista collocò un bambino tutto nudo e dorato di vernice, con grande ammirazione dei presenti; secondo le cronache però il bambino morì poco tempo dopo per le ustioni causate dalla vernice.

Le mura urbane,invece, rimasero in pratica ancora quelle di epoca comunale-viscontea, con sette porte e undici pusterle. In ogni caso la saldatura delle mura cittadine al castello risultava decisamente più complessa, per la presenza di rivellini che, snodo tra mura cittadine e mura castellane, smistavano i numerosi accessi al fortilizio, rendendolo ancora più sicuro.I due rivellini, uno chiamato di Porta Comasina e l'altro di Porta Vercellina, si edificarono al centro del fossato, e mediante ponticelle levatoie comunicavano con i rispettivi portoni di ingresso. Dei due, il rivellino tuttora superstite è quello di Porta Vercellina

Oggi della cinta muraria a protezione del castello, la ghirlanda, e del suo fossato, restano solo le vestigia della porta detta del Soccorso (verso la campagna) e i basamenti dei due piccoli torrioni tondi ai lati (detti della Colubrina e della Vittoria).

 

 Le dominazioni straniere

Il periodo francese

Nel 1499, per il tradimento di Bernardino da Corte, Milano cadde in mano a Luigi XII. Nei dodici anni di dominazione francese, la preoccupazione maggiore fu quella di isolare il castello dalla città (le cui case col tempo si erano addossate sempre più al fortilizio), sulla scia di una precisa volontà già individuabile nell'opera del Moro, che aveva fatto demolire le costruzioni private che impedivano di individuare consistenze e direzioni degli attacchi che il castello doveva subire.

Perduta la veste di reggia principesca, il castello inizia il suo lento ma inarrestabile declino. Il cortile centrale cominciò ad assumere l'aspetto di un cortile di caserma. Col tempo si allestirono delle botteghe per gli usi delle guarnigioni: panettieri, osterie, barbierie, fabbri ferrai ed anche un piccolo ospedale.

Il 28 giugno 1521,poi, esplose la torre del Filarete, nella cui sommità i francesi avevano ammassato le polveri da sparo; la torre dell'orologio, come era detta all'epoca, andò totalmente distrutta.

Quando le truppe imperiali sconfissero i Francesi nella battaglia di Pavia (24 febbraio 1525), per il Castello inizia un assedio di ben quattordici mesi. Al termine, il fortilizio è abbandonato nelle mani di Francesco II Sforza, che fu assediato per nove mesi.

Il periodo spagnolo

Francesco II morì senza lasciare eredi e casa Sforza si estinguerà poco dopo, con la morte di Gian Paolo (figlio naturale di Ludovico il Moro e di Lucrezia Crivelli), che inutilmente aveva tentato di avanzare legittime pretese di successione sulla Signoria del Ducato.

Così, città, territori e castello vennero offerti, da un'ambasceria di milanesi, all'imperatore Carlo V che, accettato il dono, nominò un governatore e rendendo così Milano un possedimento spagnolo.

I problemi difensivi vennero quanto prima affrontati dai nuovi padroni, ma i progetti restarono il più delle volte solo sulla carta. Si discuteva principalmente se la soluzione migliore fosse quella di realizzare una nuova cerchia murata, oppure raddoppiare il castello, magari edificandone uno totalmente nuovo da sostituire al primo, sempre più obsoleto davanti ai progressi delle tecniche militari. Questo nuovo baluardo avrebbe dovuto vedere la luce a sud della città, verso Porta Romana. Tuttavia l'ipotesi naufragò davanti ai preventivi di spesa, che sarebbe stata a carico dell'imperatore e non della città. Prevalse dunque il progetto per una nuova ed inespugnabile cinta muraria che abbracciasse tutta la città, approvato e sollecitato dal nuovo governatore Ferrante Gonzaga.

La prima pietra della mura spagnole (o bastioni) fu posta nel 1548 presso la chiesa di S. Dionigi, vicino al lazzaretto, su progetto di Giovanni Maria Olgiati.

Il Castello con la tenaglia Alcuni sostengono che l'ambizioso progetto fosse il medesimo già accarezzato dall'ultimo degli Sforza. In realtà questi aveva sì immaginato un potenziamento delle difese cittadine, ma non in senso di maggiore estensione, bensì attraverso la costruzione di una "tenaglia" appoggiata al vertice nord-est del castello, verso il borgo degli Ortolani

Progetto di trasformazione dalla tenaglia ai baluardiLa "tenaglia" difensiva fu veramente realizzata e le mura spagnole  arrivarono a coprirne l'area solo nel 1592, anno della sua presumibile demolizione.

Queste ciclopiche mura presentavano, secondo il pensiero di molti, eccessivi difetti. Primo fra tutti, si trattava di otto chilometri di cinta, con relativi fossati, strade di arroccamento, e altri servizi, ma solo le porte erano adeguatamente serrate da bastioni. Fortuna volle, comunque, che nessun esercito straniero sottopose mai la cinta ad alcuna verifica.

 

La bastionatura stellata del Castello

 

Il Castello nel XVII secolo

 

Dopo dodici anni dalla data di inizio della nuova e grandiosa cinta, iniziarono anche i lavori (1560) per la realizzazione della bastionatura del castello. A tal fine, si chiese alla cittadinanza un contributo straordinario di 60.000 ducati.

Il Castello con la bastionatura priva ancora delle mezzeluneLa somma fu anticipata dal banchiere Tommaso Marino, che dalla Spagna ottenne in cambio la cessione anticipata di due annualità di dazi sul vino.

Nove anni dopo l'inizio dei lavori il primo baluardo vide finalmente la luce, e fu dedicato al governatore Gabriele de Cueva. Seguirono poi i baluardi S. Jago o S. Diego e Padilla. La demolita "tenaglia" lasciò il posto ai baluardi Don Pedro e Acugna. Il sesto baluardo prese il nome di Velasco.

Così, il castello fu totalmente isolato dalla città, e diventerà subito qualcosa di a sé stante, slegato dal sistema difensivo urbano.

Con Filippo IV (re dal 1621 al 1665) al giro già macchinoso dei baluardi si aggiunse quello delle mezzelune, cosicché la stella che arrivò a circondare il castello venne ad avere ben dodici punte. L'antica reggia principesca si era ridotta a fredda macchina da guerra, ed ogni suo angolo trasformato in depositi di materiale bellico e caserme per le guarnigioni.

Nel periodo spagnolo anche il bellissimo bosco sforzesco verso la campagna perse ogni pregio, dato che fu suddiviso in più appezzamenti agricoli e affittato per le coltivazioni. La parte verde più prossima al castello finì con l'essere utilizzata per le adunate delle truppe e per le esercitazioni militari, cosa che la rese un enorme spiazzo sterrato e fangoso.

 

Gli Austriaci e i Savoia

 

Il Castello nel XVIII secolo

 

L'assedio e il bombardamento del CastelloNel marzo del 1707 l'ottantenne generale marchese de Florida abbandona, con l'onore delle armi, castello e città nelle mani dell'Austria.

Tuttavia nel 1733 la guerra di successione polacca vide l'alleanza franco-sabauda, accordo militare che permise a Carlo Emanuele III di Savoia di entrare in Milano. Il castellano Annibale Visconti si arrese dopo una decina di giorni di battaglia, che ebbe come tragica conseguenza la distruzione del borgo degli Ortolani.

Anche il castello ne uscì malandato, e i baluardi Acugna e Velasco dovettero essere addirittura smantellati.

 

Il periodo napoleonico

Se il primo periodo napoleonico (1796-1799) non toccò la struttura del castello, salvo la violenza del popolo che rovinò gli stemmi sulle torri, le quali a loro volta rischiarono di essere abbattute, il Bonaparte decise di interessarsi al fortilizio dopo la battaglia di Marengo. Infatti, con decreto del 23 giugno 1800, ordinò la totale demolizione dell'inutile fortilizio. Tuttavia i lavori si accanirono solo contro le bastionature spagnole, che dal 1802 caddero pezzo dopo pezzo; in pochi anni si arrivò così all'abbattimento di tutta l'opera di protezione. Fu salvato invece il castello

Il progetto AntoliniConseguentemente, vennero presentati alcuni progetti urbanistici per la sua sistemazione. Tra questi, uno di Luigi Canonica, con la sua "Città Buonaparte" e un secondo, meritevolissimo, di Giovanni Antonio Antolini: il "Foro Buonaparte". Il progetto Antolini, che prevedeva la costruzione di un complesso di edifici monumentali destinati ad uso pubblico, di cui il castello, rimaneggiato con forme classiche, doveva costituire la parte centrale, pur inizialmente approvato e poi riveduto e corretto, non venne mai realizzato, anche per un problema di costi eccessivi.

L' interno del castello,nel frattempo, veniva impunemente vilipeso: la leonardesca sala delle Asse, come le sale vicine, fu intonacata e adibita a scuderia.

 

 

 

 

L'ultima occupazione austriacaIl castello nel periodo della Restaurazione

Rientrati gli Austriaci nel 1814, questi mantennero il castello nelle condizioni lasciate da Napoleone, salvo i necessari restauri (esclusivamente pratici) eseguiti dopo le epiche giornate del 1848, durante le quali i cittadini si erano accaniti contro castello e soprattutto contro le torri.

 

 

 La rinascita del castello

Il nuovo piano regolatore

Con l'unità d'Italia, la città iniziò una vertiginosa espansione territoriale, favorita anche dall'annessione dei Corpi Santi (1873), cioè i comuni e i borghi sviluppatisi al di fuori delle mura spagnole. Queste cominciarono pertanto ad essere atterrate a partire dal 1885, risultando ormai d'ostacolo allo sviluppo del tessuto urbano, anche se gli ultimi tratti caddero solo nel 1946.

Nel 1884 l'ing. Cesare Beruto elabora, su incarico della giunta municipale, il primo vero piano regolatore organico che, pur con le inevitabile modifiche e varianti, rimarrà alla base del riordino viario e dell'ampliamento di Milano.

Fu così che andò distrutto il lazzaretto (1882-1890), ormai alloggio abusivo per decine di famiglie del sottoproletariato urbano, e al suo posto edificato un vasto quartiere di case per il popolo. A nulla valsero le proteste di molti nemici della speculazione, tra i quali l'architetto Luca Beltrami.

Una versione del piano BerutoQuesti riuscì però a salvare dalla stessa tristissima fine il castello, secondo i progetti del tempo destinato a fare posto ad un lunghissimo corso che avrebbe dovuto congiungere il Duomo, attraverso la neonata via Dante, all'attuale corso Sempione.

 

 

 

 

I restauri di Luca Beltrami

La torre del FilareteAl Beltrami furono affidati i lavori di ristrutturazione e reintegrazione del castello, che iniziarono nel 1893. La sua paziente e meticolosa opera fu condotta sempre sulla base di rilievi e documenti dell'epoca sforzesca.

La prima opera di restauro riguardò il torrione a destra di chi guarda, il quale fu sfruttato per inserire al suo interno un enorme serbatoio d'acqua potabile, su proposta dell'assessore Saldini. Nel 1905 fu completato il secondo torrione, anche questo adibito a serbatoio per l'acqua.

Nel 1893-1894 si pose mano alla torre di Bona di Savoia, a spese del Comitato Cittadino promotore delle Esposizioni Riunite, che si tennero in quegli anni proprio al castello.

Anche la torre del Filarete fu ricostruita, ispirandosi ai graffiti presenti a Chiaravalle e ad un quadro dell'epoca: prima dell'opera in muratura, tuttavia, si preferì appoggiare alla facciata una imponente sagoma di legno a grandezza naturale, onde verificare l'impatto visivo che una simile torre avrebbe avuto guardando il fortilizio dalla via Dante.

Nell'inverno del 1893-1894, per iniziativa di Paul Muller-Walde si iniziarono anche le prime indagini per scoprire le tracce originali della decorazione della sala delle Asse, intonacata dai Francesi invasori.

Il 24 settembre 1904 il Beltrami restituì alla cittadinanza il castello voluto dai Visconti, che però fu ribattezzato "Sforzesco", come segno del recupero del tempo in cui aveva vissuto la sua migliore stagione.

La retrostante piazza d'armi fu trasformata in parco cittadino dall'architetto Emilio Alemagna nel 1894. Nonostante l'ingente spesa, solo 21 ettari vennero veramente destinati a verde. Il restante spazio fu infatti occupato da case e strade. Altro spazio fu poi tolto agli alberi quando nel 1931 venne edificato il Palazzo dell'Arte.

 

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