I |
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Per entro i fitti popoli, lungo i deserti calli, sul monte aspro di gieli, nelle inverdite valli, infra le nebbie assidue, sotto gli azzurri cieli, dove che venga, l´Esule sempre ha la patria in cor. Accolto in meno i liberi al conversar fidente, ramingo tra gli schiavi, chiuso il pensier prudente, infra gl´industri unanimi, appo i discordi ignavi, o fastidito od invido, sempre ha la patria in cor. Sempre nel cor l´Italia, s´ell´anche obblia chi l´ama; e carità con cento memorie lo richiama là sempre a quei che gemono, che aggira lo spavento, e a quei che trarli ambivano di servi a libertà. S´ei dorme, i suoi fantasimi sono l´Italia; e vanno baldi ne´ sogni, o abbietti, a suscitargli affanno; e le parventi assumono forme e gli alterni affetti or dai perduti secoli, or dalla viva età. Era sopito l´Esule; era la notte oscura. Con lui tacea d´intorno l´universal natura presso a sentir la gelida ora che è innanzi al giorno; quando il pensier su l´andito un uom gli figurò. |
Dato ha il cappuccio agli omeri, indosso ha il lucco antico, cinto è di cuoio, e viene grave, ma in atto amico; trasfuso agli occhi ha il giubilo come d´un´alta spene; la sua parola è folgore: dirla oggimai chi può? - L´han giurato. Gli ho visti in Pontida convenuti dal monte, dal piano. L´han giurato; e si strinser la mano cittadini di venti città. Oh, spettacol di gioia! I lombardi son concordi, serrati a una lega. Lo straniero al pennon ch´ella spiega col suo sangue la tinta darà. Più sul cener dell´arso abituro la lombarda scorata non siede. Ella è sorta. Una patria ella chiede ai fratelli, al marito guerrier. L´han giurato. Voi, donne frugali, rispettate, contente agli sposi, voi che i figli non guardan dubbiosi, voi ne´ forti spiraste il voler. Perché ignoti che qui non han padri, qui staran come in proprio retaggio? una terra, un costume, un linguaggio Dio lor anco non diede a fruir? La sua parte a ciascun fu divisa. È tal dono che basta per lui. Maladetto chi usurpa l´altrui, chi ´l suo dono si lascia rapir! Su, lombardi! Ogni vostro comune ha una torre, ogni torre una squilla: suoni a stormo. Chi ha in feudo una villa co´ suoi venga al comun ch´ei giurò. Ora il dado è gettato. Se alcuno di dubbiezze ancor parla prudente, se in suo cor la vittoria non sente, in suo core a tradirvi pensò. |
Federigo? egli è un uom come voi, come il vostro è di ferro il suo brando. Questi scesi con esso predando, come voi veston carne mortal. - Ma son mille! più mila! - Che monta? forse madri qui tante non sono? forse il braccio onde ai figli fêr dono, quanto il braccio di questi non val? Su! nell´irto, increscioso Allemanno, su! lombardi, puntate la spada: fate vostra la vostra contrada, questa bella che il ciel vi sortì. Vaghe figlie dal fervido amore, chi nell´ora dei rischi è codardo più da voi non isperi uno sguardo, senza nozze consumi i suoi dì. Presto, all´armi! Chi ha un ferro l´affili; chi un sopruso patì sel ricordi. Via da noi questo branco d´ingordi! giù l´orgoglio del fulvo lor sir! Libertà non fallisce ai volenti, ma il sentier de´ perigli ell´addita; ma promessa a chi ponvi la vita, non è premio d´inerte desir. Gusti anch´ei la sventura e sospiri l´Allemanno i paterni suoi fochi ma sia invan che il ritorno egli invochi, ma qui sconti dolor per dolor. Questa terra ch´ei calca insolente, questa terra ei la morda caduto; a lei volga l´estremo saluto, e sia il lagno dell´uomo che muor. |
II |
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Era sopito l´Esule; era la notte oscura. I sogni suoi travolti altra pingean figura: eran sembianze cognite, già discernuti volti, gente su cui diffondesi vitale ancora il sol. Quale il piè lindo esercita a danze pellegrine; quale allo specchio è intento a profumarsi il crine; e qual su molle coltrice s´adagia, e vinolento rattien della fuggevole gioia, cantando, il vol: - Pèra chi stolido mi tedia l´anima, querulo, indocile a servitù! Ebben! che importami se omai l´Italia nome tra i popoli non serba più? Forse che sterili sul colle i pampini ai prandi niegano l´ilarità? |
Forse che i rosei baci ne mancano, e i furti facili della beltà? Stringan l´imperio su noi gli estranei, se la mia stringerlo destra non può. Ma non sia ch´emulo con me sollevisi chi nella polvere finor posò. La notte vedila tener le tenebre; e il giorno limpido i bei color: tai la progenie dell´uom dividono, due fati immobili, gioia e dolor. Se v´ha chi è in lagrime, sorga maledico contra le viscere che il concepîr: né lo spregevole figliuol del povero fra i nati al giubilo stenda il sospir. |
Oh, il nappo datemi! Beviam! sommergasi tutta de´ gemiti la vanità! Beviam! divampino e lombi ed anima! gli occhi scintillino di voluttà! Sul labbro scocchino le oblique arguzie, i prieghi e il calido ghigno d´amor, onde le cupide mogli m´invocano caro dei talami trionfator! Beviam! ché il domito sposo non vigila; e anco la timida divezzerò; lei che il volubile fianco e le grazie a´ gai spettacoli nuova recò. Poggiato a un candido sen, non m´assalgano nenie per l´italo defunto onor; ma baci fervidi, lepide insidie, delìri, aneliti e baci ancor. |
III |
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Era sopito l´Esule; era la notte oscura; un altro il sogno. - Ei siede svagato a una pianura. Stirpe di padri adulteri quivi trescar non vede, ma catafratto un popolo dalla battaglia uscir. Quel che giurâr l´attennero; han combattuto, han vinto. Sotto il tallon dei forti giace il tedesco estinto. Ecco i dispersi accorrere che scapigliati e smorti cercan ridursi all´aquile, chiaman sussidio al sir. Egli? - È scampato. Il veggiono nel bosco i suoi donzelli le man recarsi al mento, stracciarne i rossi velli; mentre i lombardi cantici col trionfal concento a lui da tergo intimano che qui non dee regnar. Preda dei primi a irrompere nel padiglion deserto, ecco ostentar pel campo l´aurea collana e il serto; e la superba clamide, e delle borchie il lampo, ecco, a ludibrio, l´omero di vil giumenta ornar. Come tra i brandi, mistico auspicio d´Israele, l´arca del divin patto con lor venìa fedele; così la croce, indizio dell´immortal riscatto, cinta dal fior de´ militi, qui sul carroccio sta. Ecco i lor giachi sciogliere, depor le cervelliere, e tutte intorno al Cristo si riposar le schiere. Eccole a Dio, cui temono, prostrarsi, ed il conquisto gli riferir dell´ardua lombarda libertà. Per la campagna, orribile di morti e di morenti, donne van mute in volta, cercando impazienti quei che han mancato al novero quando squillò a raccolta, quando le madri accorsero festanti ai vincitor. E anch´essi han le lor lagrime: figli dell´uomo anch´essi, che aspira ai gaudi, e interi non gli son mai concessi! Curve là donne ingegnansi d´intorno ad un che i fieri spasmi di morte occùpano con l´ultimo pallor.
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Sovra i nemici esamini ei si languia caduto. L´hanno le pie sorretto, l´hanno tra´ suoi renduto. Per tre ferite sanguina rotto al guerriero il petto; né tuttavolta il rigido pugno l´acciar lentò. Ma non han detto al misero che più non v´è cui fera? che in tutto il campo sola sventa la sua bandiera? che cui la fuga all´avide lance lombarde invola, perde il Ticino al valico, li dà sommersi al Po? Il sa che spose ai liberi, madri d´angustia uscite, son queste che devote bacian le sue ferite? Oh, quanta gioia irradia le moribonde gote! di qual conforto provida rimerita il valor! Presso a migrar, lo spirito si stringe al cor; l´aita, l´agita, il riconduce al batter della vita. Gli occhi virtù ripigliano a comportar la luce: odi, sul labbro valida ferve la voce ancor! - Dove son le tre nunzie de´ santi, le colombe che uscîr dell´altare? con che bello, che fausto aleggiare del carroccio all´antenna salîr! Fûr le bande nimiche allor viste ceder campo, tremar del portento, e percosso da miro spavento rovesciarsi il cavallo del sir. Dio fu nosco. Al drappel de la morte, alla foga de´ carri falcati ei fu guida, per chiane e fossati impigliando gli avversi guerrier. Sì, Colui che par lento agli afflitti, è il Dio vigil che pugna per essi: nel suo giorno ei solleva gli oppressi, fa sui prenci il disprezzo cader. Or, m´udite! Al giaciglio de´ selvi questa rissa di sangue vi toglie: saldi, eretti, riarsi di voglie, vi fa donni del vostro vigor. Ma vi affida un destin che v´è nuovo, che vi sbalza su ignoti sentieri: a percorrerli voi, v´è mestieri altro spirto comporvi, altro cor. Oh! dannati que´ giorni quand´uomo da qual fosse città peregrino, per qual porta pigliasse il cammino, uscia verso un´esosa città!
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Non la siepe che l´orto v´impruna è il confin dell´Italia, o ringhiosi; sono i monti il suo lembo: gli esosi son le torme che vengon di là. Le fiumane dei vostri valloni si devian per correnti diverse, ma nel mar tutte quante riverse perdon nome e si abbraccian tra lor. Così voi, come il mar le lor acque, tutti accolga un supremo pensiere, tutti mesca e confonda un volere, l´odio al giogo d´estranio signor. Le città, siccom´una con una, abbian pace anche dentro: e l´insegni, col deporre i profani disegni, l´uom che stola e manipol vestì. Capitan, valvassor, cittadino, cessi ognun dai livori di parte. Il lombardo che è scritto ad un´arte, non dispetti chi un´altra seguì. Al fratel di più forte consiglio chi vergogni obbedir non vi sia, perché nulla vergogna più ria che obbedire al soldato stranier. Se un rettor, se un de´ consoli falla, tollerate anche i guai dell´errore, perché nulla miseria maggiore che in dominio d´estranei cader. E voi, madri, crescete una prole sobria, ingenua, pudica, operosa. Libertà mal costume non sposa, per sozzure non mette mai piè. Addio tutti... Appressate al morente... Ch´io mi posi a una destra vittrice. Cari miei, non mi dite infelice; non piangete, o fratelli, per me. Era allor da compiangermi, quando a scamparvi, per Dio! dal servaggio, vi richiesi un dì sol di coraggio, e mi deste litigi e viltà! Tutto in gioia or mi torna, fin anco se del tanto dolor mi ricordi. È il dolor che n´ha fatto concordi: la concordia vincenti ne fa. Miser quei che in sua vita non colse un fior mai dalla speme promesso! quei che, senza venirgli mai presso, corse anelo, insistente ad un fin! Peggio ancor se qui giunto com´io, qui sul passo che sganna ogni illuso, vòlto indietro, s´accorge confuso ch´era iniquo il fornito cammin! Ma la via ch´io mi scelsi fu santa, ma il dover ch´era il mio l´ho compiuto, questo dì ch´io volea, l´ho veduto: or clemente m´accolga Chi ´l fe´. Qualche volta, pensose la sera, mi rammentin le donne ai mariti; qualche volta ne´ vostri conviti sorga alcuno che dica di me: - In parole fu acerbo con noi fin che Italia nell´ozio si tenne; quando il giorno dell´opre poi venne, uno sguardo egli intorno girò. Pose in lance il servaggio e la morte: eran pari; e a Dio l´alma commise. In PONTIDA il suo sangue promise; il suo sangue a LEGNANO versò. |
IV |
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Era sopito l´Esule; era la notte oscura. Il sogno erano agnelle vaganti alla pastura; campi che leni salgono su per colline belle; vlontano a dritta ripidi monti, e altri monti ancor; dinanzi una cerulea laguna, un prorompente fiume che da quell´onde svolve la sua corrente. Sovra tant´acque, a specchio, una città risponde; guglie a cui grigio i secoli composero il color; ed irte di pinacoli case, che sur lor grevi denno sentir dei lenti verni seder le nevi; e finestrette povere, a cui ne´ dì tepenti la casalinga vergine infiora il davanzal. È il tempo in cui l´anemone intisichisce e muore, cedendo i soli adulti a più robusto fiore. Purpureo ecco il garofano sbiecar d´in sui virgulti dell´odorato amaraco, del dittamo vital. Per tutto è moltitudine; è un dì come di festa. Donne che su i veroni sfoggiano in gaia vesta; giù tra la folla un séguito d´araldi e di baroni, che una novella spandono come gioconda a udir. Ma che parola parlino, ma che novella sia, ma che risposta renda chi grida per la via, nol può il sognante cogliere, per quant´orecchio intenda: è gente che con l´italo non ha comune il dir. Que´ suoi baroni emergono segnal d´un dì vetusto: è ferreo il lor cappello, è tutto maglia il busto: tal fra le vòlte gottiche distesa in su l´avello gli avi scolpian l´effigie del morto cavalier. Passan da trivio in trivio, dar nelle trombe fanno, cennan che il popol taccia, parlano. Intente stanno le turbe. E plausi e battere di palme a quei procaccia sempre il bandito annunzio, sovra qual trivio il diêr. |
Ma di che fan tripudio? ma che parola han detto? ma sul cammin la calca or di che sta in aspetto? La pompa ond´essi ammirano, più e più lontan cavalca, e anco lontan non s´odono trombe oramai squillar. Pur non v´è uom che smovasi a ceder passo altrui. Chi d´usurparlo ardisce balza respinto; e lui, del suo manchevol impeto, chi ´l vantaggiò schernisce. Da ciascun gesto il tendere de´ curiosi appar. All´ondeggiante strepito di sì condensa gente, ecco, una muta sosta or sottentrò repente. Pur né le trombe suonano, né palafren s´accosta che porti del silenzio l´araldo intimator. È un quietar spontaneo, un ripigliar decoro. Par anco peritosa una sfidanza in loro, come di chi con palpito s´appresta a veder cosa che riverenza insolita sa che dee porgli in cor. Ecco far ala, e un adito schiuder. Chi è mai che vegna? Non da milizie scorti, non da fastosa insegna, son pochi, sol conspicui per negri cigli accorti. In mezzo il biondo popolo, muovono lento il piè, a coppia a coppia, in semplici prolisse cappe avvolti. Che franchi atti discreti! che dignità nei volti! Tra lor dan voce a un cantico, tra lor l´alternan lieti. Oh, della cara Italia la cara lingua ell´è! - Lo stesso evangelo toccato da´ suoi, toccammo a vicenda; giurammo anche noi quel ch´egli col labbro dei conti giurò. Su l´anime nostre, su quella di lui sta il patto: la perda, la danni colui del quale avran detto che primo il falsò. In curia solenne, fra un nugol di sguardi, qual pari con pari, coi messi lombardi fu d´uopo al superbo legarsi di fé! Il popol ch´ei volle punito, soggetto, gli sfugge dal piglio; gli siede a rimpetto, levata la fronte, sicuro di sé. La pace! la pace! Rechiamola ai figli. Nunziamo alle spose finiti i perigli di ch´elle tant´anni pei cari tremâr. |
L´immune abituro, pregato ai mariti, or l´han; né più mogli di servi scherniti, ma donne di franchi s´udranno chiamar. Addio, belle rive del fiume straniero, e tu, mitigato signor dell´impero, e tu, pei lombardi la fausta città. Tornati a sedere su i fiumi nativi, compagno de´ nostri pensier più giulivi, COSTANZA, il tuo nome perpetuo verrà. Ma quando da canto le nostre lettiere vedrem le sospese labarde guerriere, e i grumi del sangue che un dì le bruttò; un altro bel nome ricorso alla mente diremo alle donne; ciascuna, ridente, poggiatasi al braccio che i fieri prostrò. Direm lo sbaraglio del campo battuto, e il sir di tant´oste tre giorni perduto, tre notti fra dumi tentando un sentier. La regia consorte tre notti l´aspetta, tre giorni lo chiama dall´alta veletta: al quarto misviene fra i muti scudier. L´han cerco nel greto, nell´ampia boscaglia; indarno! Sergenti, valletti in gramaglia preparan nell´aula l´esequie del re. No, povera afflitta, non metterlo il bruno. Giù al ponte v´è gridi; lo passa qualcuno: è desso, in castello; domanda di te. No, povera afflitta, tu colpa non hai: e il ciel te lo rende, né tu le saprai le angosce sofferte dall´uom del tuo cor. Ma taci, e ti basti che vano è il corrotto: nessun di battaglia s´attenti far motto, nessun con inchieste gl´irrìti il rossor. È altrove, è fra i balli del popol ritroso che fervon racconti del dì sanguinoso. Là chiede ogni voce: - Guerrieri, che fu? - Oh bello! sul campo venir di que´ prodi, tracciarne i vestigi, ridirne le lodi, membrarne per tutto l´audace virtù! Nel dì del Signore, dinanzi gli altari, allor che l´uom, netto d´affanni volgari, l´origin più intende da cui derivò; ignoti al rimorso d´averla smentita, oh bello! in sen piena sentirci la vita, volenti, possenti, quai Dio ne creò! Nel coglier dell´uve, nel mieter del grano, dovunque è una gioia, fia sempre " Legnano" l´altera parola che il canto dirà. Ma guai pe´ nipoti se, ad essi discesa, diventa parola che muor non compresa! Quel giorno l´infame dei giorni sarà. Snerbato, curante ciascun di se solo, qual correr d´estranei! qual onta sul suolo che a noi tanto sangue, tant´ansie costò! Allor, non distinti dai vili i gementi, guardando un tal volgo, diranno le genti: - I RE CHE HA SUL COLLO SON QUEI CHE MERTÒ. |
V |
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Era sopito l´Esule; era la notte oscura: e nulla più del lago e delle grigie mura. Ecco ne´ sogni mobili una diversa immago, ecco un diverso palpito del dormiente al cor. Pargli aver penne agli omeri, e un ciel che l´innamora battere, ai rai vermigli d´italiana aurora. Fiuta dall´alto i balsami de´ suoi materni tigli, gode in veder la turgida foglia de´ gelsi ancor. Come la vispa rondine, tornata ov´ella nacque spazia sul pian, sul fiume, scorre a lambir fin l´acque, sale, riscende, librasi su l´indefesse piume, viene a garrir nei portici, svola e garrisce in ciel; così fidato all´aere, ei genial lo spira, e cala ognor più il volo, più lo raccorcia, e gira lento, più lento, a radere il vagheggiato suolo; com´ape fa indugevole circa un fiorito stel. L´aia, il pratel, la pergola dove gioìa fanciullo; l´erte indicate ai bracchi nel giovenil trastullo; le fratte d´onde al vespero, chino a palpar gli stracchi, reddia, colmo sul femore pendendogli il carnier; tutti con l´occhio memore i siti egli rifruga, i cari siti, ahi lasso! che nell´amara fuga larve mandar parevano a circuirgli il passo, a collocargli un tribolo sovra ciascun sentier. E Rinato ai dì che furono, il mattin farsi ammira più rancio; e la salita del sol piena sospira, tanto che intorno ei veggasi ribrulicar la vita, oda il venir degli uomini, voli dinanzi a lor. Tutta un sorriso è l´anima di riversarsi ardente. |
Presago ei si consola nelle accoglienze, e sente che incontreria, benevolo fin anco lei che sola sa pur di quale assenzio deggia grondargli il cor. Eccolo, il sol! Frettevoli pestan la guazza, e fuori a seminati, a vigne traversano i coltori. Recan le facce stupide che il gramo viver tigne; scalzi, cenciosi muovono sul suol dell´ubertà. Dai fumaiuoli annunziansi ridesti a mille a mille i fochi dei castelli, dei borghi e delle ville. Dove più folto è d´uomini, a due, a tre, a drappelli escono agli ozi, all´opere, sparsi per la città. Son questi? è questo il popolo per cui con affannosa veglia ei cercò il periglio, perse ogni amata cosa? è questo il desiderio dell´inquieto esiglio? questo il narrato agli ospiti nobil nel suo patir? Ecco, infra loro il téutono dominator passeggia; li assal con mano avara, insidia, dileggia; ed ei tacenti prostransi, fidi all´infame gara di chi più alacre a opprimere o chi ´l sia più a servir. In tante fronti vacue d´ogni viril concetto chi un pensier può ancor vivo sperar d´antico affetto? chi vorria farvel nascere? chi non averlo a schivo come il blandir di femmina sul trivio al passeggier? Lesto da crocchio a crocchio il volator trapassa, e gl´indaganti sguardi su quel, su questo abbassa. I bei presagi tornangli ad uno ad un bugiardi; pur vola e vola, e indocile discrede il suo veder. Colà una donna? Ah, misera! qual caro suo l´è tolto? Non è dolor che agguagli quel che l´è impresso in volto. |
Par che da forze perfide messa quaggiù in travagli, sporga ver´ Dio la lagrima cui gli uomini insultâr. - Patria! .. Spilberga! .. vittime! .. - Suona il suo gemer tristo. Quel che dir voglia il sanno, com´ella pianga han visto; e niun con lei partecipa tanto solenne affanno, niun gl´infelici e il carcere osa con lei nomar. Chi dietro un flauto gongola, che di cadenze il pasca; e chi allibbisce ombroso d´ogni stormir di frasca: come nel buio il pargolo sotto la coltre ascoso, se il dì la madre, improvida, di spettri a lui parlò. Altri il pusillo spirito onesta d´un vel pio; piaggia i tiranni umìle e sen fa bello a Dio. Come se Dio compiacciasi quant´è più l´uom servile, l´uom sovra cui la nobile immagin sua stampò! E quei che fean dell´itale trombe sentir lo squillo là sulla Raab, soldati del tricolor vessillo, che a tener fronte, a vincere correan, per tutto usati l´austro, il boemo, l´unghero cacciar dinanzi a sé, dove son ei? Già l´inclita destra omicida è polve? tutte virtù l´argilla del cimitero involve? o de´ conigli l´indole anco il leon sorbilla, e dei ruggiti immemore lambe a chi ´l calca i piè? Al dubbio amaro, l´Esule, come una man gli fosse posta a oppressar sul core, si risentì; si scosse a distrigar l´anelito, a benedir l´albore che dalle vane immagini al ver lo ravviò. Desto, ammutito, immobile il suol com´uomo affisse che del suo angor vergogni: poi quel che vide ei scrisse. Ma quel che ancor l´ingenuo soffre pensando ai sogni, sol cui la patria è un idolo indovinar lo può. |