Ebraismo, Cristianesimo, Islàm nella società di oggi: insieme nella diversità?
 

Introduzione Ernesto Borghi
Un contributo dell'Ebraismo Elia Richetti
Un contributo del Cristianesimo Roberto Osculati
Un contributo dell'Islàm Gabriele Mandel
Per continuare ad approfondire Appendice
Appendice Giovanni Boccaccio: Melchisedech giudeo con una novella di tre anella
cessa un gran pericolo dal Saladino apparecchiatogli


INTRODUZIONE

La dimensione religiosa costituisce una componente fondamentale della plurimillenaria cultura umana. In varie parti dell'Occidente talune forme di clericalismo e di laicismo hanno reso difficile cogliere, soprattutto dal XVI secolo in poi, la decisività umanizzante per la formazione culturale di ogni individuo di un confronto serio con il fatto religioso e le sue implicazioni interiori e sociali.

Ciononostante occorre rendersi conto di una condizione, credo, incontrovertibile: ogniqualvolta l'essere umano incontri la realtà e cerchi di conoscerla, essa gli può apparire complessa e multiforme e da ciò, sia pur non necessariamente, nasce la domanda di senso: perché tutto ciò? Se la domanda di senso non cerca solo la spiegazione pura e semplice dei meccanismi della realtà, ma cerca di andare al di là di essi, ossia verso un intervento, quale che sia, al di sopra e al di là della natura, si sviluppa allora il senso religioso.

Quando da questo stadio di ordine emotivo-contemplativo si passa a gesti e credenze, la religiosità diviene religione. E se è vero che una definizione nel senso stretto del termine è pressoché impossibile, dal momento che «ciò a cui si fa riferimento - Dio, il Sacro, il fondamento assoluto di senso e simili - rimane indisponibile e dunque indefinibile», è altrettanto vero che valori semantici di base del termine, pur nello sviluppo storico evidente dal VI secolo a.C ad oggi, mostrano essenzialmente l'esistenza di due prospettive, l'una di ordine oggettivo-pubblico, l'altra di carattere soggettivo-personale.

E se pensiamo che, ad esempio, nella mentalità cristiana medievale religione era, nel suo grado più alto, la vita monastica contraddistinta dai tre voti di povertà, castità ed obbedienza, possiamo farci un'idea del percorso che è stato fatto sino alla nostra contemporaneità. In proposito, quando oggi si parla di religione nell'immaginario collettivo e nelle lingue euroccidentali, si possono distinguere almeno sei accezioni differenti di questo termine: insieme di miti e di riti radicati in una determinata cultura; riferimento ideale e criterio di verità; serbatoio di valori e potere di legittimazione; pietà personale e impegno quotidiano relativo; risposta esistenziale al senso della vita e all'enigma del mondo; moralità.

E se il discorso viene aperto, dall'Occidente euro-americano alle regioni del mediterraneo orientale, nella direzione delle zone ad antica e recente islamizzazione, dall'Europa all'Africa all'Asia, è assai interessante chiedersi quanto abbiano inciso ed incidano ancora oggi nella vita quotidiana di molti milioni di persone l'adesione esistenziale ad una delle tre grandi fedi e culture ricondicubili alla radice abramitica: ebraismo, cristianesimo ed islàm.

In questa linea un interrogativo appare oggi assai rilevante: le tre grandi religioni unite dal comune riferimento ad Abramo possono ancora dare un contributo sostanziale alla costruzione di una convivenza sociale realmente umana? Le pagine di questo libretto desiderano fornire qualche risposta in proposito, in quanto ospitano il testo delle tre comunicazioni che furono al centro dell'incontro-dibattito organizzato dall'associazione Bercettiani il 30 maggio scorso ed intitolato Ebraismo, Cristianesimo, Islàm nella società di oggi: insieme nella diversità? Quella serata, contraddistinta dalla presenza di oltre centotrenta persone, fu un esempio significativo di come il dialogo e l'interscambio culturale, al di fuori di irenismi e facilonerie, sia possibile e costruttivo, quando ne sono responsabili persone non arroccate sulle proprie posizioni religiose quali Elia Richetti, Roberto Osculati e Gabriele Mandel. Ringraziamo ancora una volta i tre relatori per la cortesia con cui intesero accettare il nostro invito e per l'interesse indubbio che seppero suscitare tramite ciò che essi dissero quella sera.

Certamente non è semplice, nella vita di tutti i giorni, superare remore e confusioni culturali, pregiudizi e luoghi comuni intellettuali ed emotivi, che impediscono di progredire sulla strada di una conoscenza più meditata e diretta di alcune delle radici essenziali della società in cui viviamo quali indubbiamente sono le tre confessioni religiose di radice abramitica.

Speriamo che anche questa brochure, la quale pubblica gli atti di quella serata, serva almeno a far superare qualcuno degli ostacoli che rendono difficile il dialogo interreligioso ed interculturale. E mi riferisco anzitutto al livello dei "non addetti ai lavori", che, spesso, nel proprio bagaglio formativo ed informativo non hanno dato né danno sufficiente rilievo, per varie ragioni, alla dimensione religiosa della cultura.

L'incontro/dibattito del 30 maggio scorso fu soltanto un punto di partenza. È auspicabile che questo primo momento sia seguito, proprio nelle aule del "Berchet", da varie altre occasioni di confronto sempre più intelligente e maturo con la dimensione religiosa della cultura di tutti, aspetto qualificante di un umanesimo autenticamente vitale.
Ernesto Borghi


UN CONTRIBUTO DELL'EBRAISMO

di Elia Richetti

rabbino capo della Comunità Ebraica di Venezia

Trovandoci nei locali del "Berchet", inizio con un piccolo ricordo personale. Negli anni in cui studiavo alla Scuola Ebraica, qui a Milano, preside del "Berchet" era il professor Joseph Colombo, che, tra l’altro, era carissimo amico dei miei genitori. Chi di voi l’ha conosciuto e lo ricorda, ricorderà anche una delle sue principali caratteristiche, il fatto di riuscire a trovare in ogni parola uno spunto per darle dei significati diversi. In quegli anni, io alla Scuola Ebraica di Milano facevo parte anche di un gruppo, i cosiddetti vigili della scuola, che avevano compiti di servizio d’ordine e di un minimo di sicurezza durante le manifestazioni scolastiche.

Una sera il professor Colombo era ospite a casa nostra e, ad un certo punto, venne fuori con una domanda rivolta a me: «Allora, caro Elia, quali sono le prossime aspirazioni?». Mia madre intervenne subito dicendo: «Per ora molto varie, da rabbino a vigile». Il professor Colombo non si scompose e disse: «Molto bene, abbiamo bisogno che i nostri rabbini siano sempre vigili!».

Il compito di vigilare è, effettivamente, uno dei compiti rabbinici, ma anche il compito di parlare, di intervenire, di esporre, di raccontare. Parlando del tema della serata non possiamo fare a meno di raccontare qualcosa su un personaggio, quello che dovrebbe essere l’elemento comune delle tre religioni: Abramo. Perché ne parliamo? So che alcuni scienziati parlano di un periodo della storia del mondo ebraico che si definirebbe abramismo, un periodo che per un gioco di tesi, antitesi e successive sintesi si sviluppa e dà luogo ad altre forme, dal mosaismo al profetismo, al rabbinismo e via di questo passo. Mi permetto di non seguire questa strada.

La tradizione ebraica vede nell’ebraismo non un alternarsi di fasi, ma un continuo divenire in linea retta, non per contrapposizione. Ciò che è l’insegnamento di Abramo è lo stesso che c’è oggi e proseguirà domani, a Dio piacendo. Qual è l’insegnamento? Un insegnamento che, secondo la tradizione e, in particolare, quella rappresentata da quei racconti e da quei commenti rabbinici che passano sotto il nome di midrashìm nasce, addirittura, da quando Abramo era appena nato. Vorrei spendere una parola in favore del midràsh, metodo di indagine testuale molto a-scientifico, per non dire anti-scientifico, ma che, anziché dissezionare un testo come se fosse un organismo morto su un tavolo da obitorio, lo analizza, lo divide, lo scompone e lo ricompone come un organismo vivo e vitale. Direi, quindi, che rappresenta il messaggio più intimo di quello che è il testo biblico.

Secondo il midràsh, Abramo aveva imparato tutto lo scibile religioso ancora nel ventre della madre e questa scuola, questo insegnamento, proseguì dopo la nascita perché, visto e considerato che il re della Caldea, Nimrod, per le sue conoscenze di astrologia, sapeva che doveva nascere un faro di luce fra i discendenti di Sem e Eber, a loro volta figlio e pronipote di Noè, tentava di trovarlo e di ucciderlo. Quindi Abramo crebbe nascosto in una grotta e un angelo provvedeva alle sue necessità e continuava ad insegnargli la Tôrah. Che sia così o che sia secondo l’altro midràsh, in cui si vede un Abramo di tre anni che, guardando il cielo, ritiene che uno o l’altro dei fenomeni naturali possano essere Dio, fino ad arrivare alla conclusione che Dio è aldilà della natura, questi due midrashìm, che a prima vista sembrano antitetici, in realtà ci dicono qual è l’idea principale del pensiero e dell’insegnamento di Abramo. Ed è l’idea di un monoteismo assoluto, nel senso che, qua e là, altri popoli, prima del popolo ebraico, sono arrivati a dire che esiste un solo Dio, ma per ognuno di loro si trattava non del Solo Dio, ma del proprio Dio che sicuramente aveva – o avrebbe - sconfitto gli altri.

Secondo la tradizione ebraica, invece Dio è Unico per tutti quanti, non è il Dio di Israele, anche se quotidianamente, mattina e sera, noi proclamiamo: «Il Signore è il Nostro Dio, il Signore è Uno», ma questo significa che è il Nostro Dio in quanto il popolo ebraico per primo l’ha conosciuto e l’ha riconosciuto, ma è il Dio Unico di tutti. E quindi ciò porta ad una conseguenza: se Dio è il Dio Unico di tutti ed è lui che ha creato tutto ciò che esiste e tutti coloro che esistono, ne deriva che tutto il Creato è formato da esseri fratelli. Anzi, dirò di più: mentre Dio ha creato infiniti corpi celesti, infiniti esseri viventi, ha creato un solo essere umano e ciò non può che avere un solo motivo, il fatto che nessuno possa sentirsi autorizzato a dire all’altro «I miei antenati valevano più dei tuoi». In questo insegnamento che, in questa formulazione, è stato espresso per la prima volta oltre duemila anni fa, troviamo un elemento che, per certi aspetti, è forse ancora innovativo e soprattutto non ancora realizzato.

L’insegnamento di Abramo prosegue nel tempo. Secondo i commenti alla Bibbia l’espressione biblica «Abramo partì da Ur dei Caldei, lui, sua moglie e Lot, suo nipote e le anime che avevano fatto a Charan», rappresenta il concetto che quest’idea di Dio Abramo la propagandava presso gli altri, addirittura Abramo presso gli uomini, Sara presso le donne e, anzi, il midràsh ci dice anche in che modo lo facesse. Leggiamo che Abramo piantò una tenda appena giunto nella terra di Canaan; secondo il midràsh questa tenda era aperta sui quattro lati, perché qualunque viandante, avvicinandosi, trovasse una porta aperta.

E quando entrava un viandante, chiunque fosse, Abramo si dava subito da fare, a portare cibo, bevande e logicamente i viandanti, grati, lo ringraziavano. Ma Abramo diceva: «No, non è me che devi ringraziare, devi ringraziare il padrone di tutte queste cose». «E chi è ?». «Dio». «Ma quale?». «No, ce ne è Uno Solo!» e cominciava a spiegare.

Qualcuno si interessava, cominciava a capire, qualcun altro diceva «ma no, queste sono sciocchezze»… Allora Abramo, senza perdere la pazienza (altro elemento di cui bisognerebbe ricordarsi, ogni tanto) presentava un conto esorbitante. Allora, logicamente, il malcapitato diceva: «Ma come, non hai detto che non è roba tua?». «Va bene, se non è roba mia, ringrazia il padrone e io son pronto a stracciarlo». Pedagogia, modo per colpire, per avvicinare, per educare e quindi ecco un altro aspetto della personalità di Abramo.

In altro contesto Abramo denotò grande ospitalità, anche quando comparvero davanti a lui, subito dopo che si era fatto l’operazione della circoncisione, tre personaggi. Noi vediamo Abramo che corre incontro a loro: «vide e corse», prima ancora di capire chi siano. E mentre corre, si rivolge a Dio: «Aspettami, ho qualche cosa di più importante da fare…». Subito li accoglie, li fa sedere, corre a far portare loro dell’acqua, corre a far preparare delle focacce – tra l’altro la Bibbia ci dice il quantitativo di farina che adoperò Abramo in quell’occasione: tre seim, circa sessanta chili! – corre, prende degli animali, li macella, porta personalmente – aveva tanto di servitù – ma corre personalmente, fa… Tale è il senso di ospitalità di Abramo che, mentre era lì che stava medicandosi la ferita (Dio aveva mandato appositamente un caldo eccezionale perché i viandanti non si mettessero per strada e Abramo potesse così riposarsi), lui soffriva della mancanza di questi viandanti.

Abramo resta un personaggio umano, fallibile, commette anche diversi errori, per esempio l’errore di aver nascosto che Sara era sua moglie, e per ben due volte…Un altro errore, di cui non parla la Bibbia, è riferito dal midràsh: una volta, un vecchio viandante, che si rifiutava di discutere con apertura mentale di questioni religiose, fu da Abramo scacciato via in malo modo. E Dio lo rimproverò per questo. «Per tanti anni» – disse Dio - «nonostante quest’uomo rifiutasse di conoscermi, ho sopportato lui e i suoi peccati. L’ho custodito, l’ho protetto, gli ho dato la salute, non gli ho fatto mancare nulla. Tu, per questi pochi minuti in cui si è dimostrato cocciuto, hai perso la pazienza e l’hai cacciato via, dimenticando ciò che ti avevo insegnato, la pietà e la misericordia».

Abramo fece tesoro di questo insegnamento divino. Troveremo ancora questi termini, o termini analoghi. Quali sono gli insegnamenti che Abramo ha cercato di trasmettere alle persone più vicine a lui, i suoi figli, il primo, Ismaele, nato da Hagar, il secondo, Isacco?

A questo proposito ci sarebbero tanti midrashìm da raccontare sull’allontanamento di Ismaele, sul rapporto di Abramo con Ismaele dopo l’allontanamento. Ricordiamoci però una cosa: un piccolo midràsh dice che Abramo continuava a seguire Ismaele, ad interessarsi da lontano di come se la cavava. Andava ogni tanto, quando Ismaele non era in casa e lasciava messaggi, più o meno cifrati, e Ismaele capiva, sapeva che suo padre non lo aveva abbandonato, che si occupava di lui, tanto che lo vediamo accorrere e partecipare alla sepoltura di Abramo. Anche Isacco, nonostante ci fossero stati motivi di dissenso tra di loro, proseguiva il rapporto con suo fratello. Noi vediamo nella Bibbia proprio che Isacco tornava da Beèr la-Chài Roì, cioè dal posto dove viveva Ismaele, quando ha visto in lontananza i cammelli con il servo Eliezer e la promessa sposa.

Quali insegnamenti trasmetteva Abramo? Abbiamo detto dell’idea monoteista, è lapalissiano, ma certamente questa idea era circondata da corollari indicati da Dio stesso. Nel momento in cui annuncia la prossima distruzione di Sodoma e Gomorra, Dio dice: «Come posso io nascondere ad Abramo quello che sto per fare? Io ho un rapporto speciale con lui, perché egli è quello che istruirà i suoi figli e la sua famiglia dopo di lui, perché mantengano la via del Signore, operando carità e giustizia».

Mantenere la via del Signore, cioè ricordarsi che noi siamo continuamente legati a Dio. Ciò di cui ci serviamo quotidianamente è una concessione divina. Anche per bere un po' d'acqua si ringrazia Dio di averla creata. È un insegnamento che ci deriva direttamente da quel midràsh secondo cui Abramo insegnava alla gente a ringraziare Dio per il cibo.

Poi, operando carità e giustizia. Operando: perché l’insegnamento ebraico è che le belle idee sono qualche cosa di passeggero. Diventano qualche cosa di presente e di costante quando si traducono in un’azione, anzi addirittura l’azione può precedere l’idea stessa.

Ricorderò un episodio personale. Avrò avuto nove o dieci anni; mio nonno materno era rabbino capo qui a Milano, mio padre invece veniva da una famiglia ebraica abbastanza tiepida, di quelle che si ricordano delle ricorrenze principali andando in sinagoga e poco di più. Logicamente però, mio padre, sposando la figlia del rabbino, qualche cosa di più doveva mettere in pratica. E mi ricordo che una volta disse a mio nonno: «Vede, io non avrei nulla in contrario ad essere ancora più osservante, ma vorrei capire il perché dei precetti che devo mettere in pratica». E mio nonno gli ha risposto: «Hai perfettamente ragione. Allora comincia a metterli in pratica, così li capirai».

Questa è una costante dell’ebraismo. Se noi guardiamo attraverso la Bibbia, noi troviamo che nei vari punti in cui Dio ci mette in guardia dal cadere nell’errore, subito dopo arriva l’esposizione di un precetto, come a dire: «mettilo in pratica, eviterai di cadere nell’errore». Di nuovo, la pedagogia divina. Operando quindi, e operando cosa? Carità e giustizia.

Questi due termini nella concezione ebraica non sono antitetici. Pensiamoci un attimo: nella logica nostra, quotidiana, odierna, o io sono caritatevole e quindi chiudo un occhio su qualche cosa, son pronto a venire incontro anche a chi ha sbagliato perché o mi fa pena, oppure mi rendo conto di alcune esigenze particolari, o sono giusto, seguo la legge nella maniera contenuta nel Talmud con l'espressione, «che la legge fori la montagna».

Queste sono le due possibilità. Come si fa ad essere, ad un tempo, caritatevoli e giusti?

Tzedaqàh e Mishpàt. Mishpàt, il giudizio, la norma, è quella che vuole che la gente si comporti così perché ci si deve comportare così. Per esempio, è norma di Mishpàt, perché così è stabilito nella Bibbia, che quando uno miete il suo campo non torni indietro a raccattare le spighe eventualmente cadute, perché non spettano a lui, spettano alle categorie più disagiate.

Questo è Mishpàt, è norma. Ma nella Bibbia troviamo anche un esempio diverso, ed è un esempio di Tzedaqàh, di carità, ma attenzione: la parola stessa Tzedaqàh deriva dalla radice Tzaddìq, che vuol dire giusto. È l’episodio di Rut. Nel libro biblico omonimo noi vediamo che questa donna straniera, appartenente ad un popolo che si era comportato male nei confronti del popolo di Israele, questa donna che, con la sua stessa presenza a Betlemme ricordava l’errore, la colpa della famiglia di Elimèlech e di sua moglie Noemi di aver abbandonato il loro popolo proprio nel momento del bisogno e di essersi mescolati proprio con quel popolo odiato, questa Rut vuole poter spigolare. Sì, è vero, la norma, il Mishpàt glielo consente, ma la gente lo capirà?

Ed ecco che il padrone del campo, Bòoz, fa qualche cosa di strano. Lui non solo le dice di continuare a lavorare lì, ma chiama anche il responsabile della mietitura e gli dice di dar ordine ai mietitori di lasciar cadere apposta delle spighe, in maniera da far della beneficenza ad una persona sofferente e isolata, ma, al tempo stesso, senza farla sentire una persona che chiede l’elemosina. Questa è Tzedaqàh. È quell’atteggiamento che recepisce la norma e la sublima in qualche cosa che va aldilà della norma scritta, ma che sente vivamente il senso profondo che ha ispirato la norma stessa. Tzedaqàh e Mishpàt. Questo è l’insegnamento che, secondo Dio, Abramo trasmette ai suoi discendenti.

Ma ce ne è un altro ancora. E ci viene rappresentato da quella prova drammatica a cui Dio lo sottopone, la cosiddetta legatura di Isacco, impropriamente detta sacrificio di Isacco, perché Isacco non è stato sacrificato. È un argomento che ha ispirato e ispira profeti, artisti, poeti, pittori. Una letteratura enorme, vastissima in campo ebraico si ispira a questa aqedàh, a questa legatura di Isacco. Ricordiamo, però, una cosa: secondo il conteggio che risulta dal testo biblico, Isacco non era quel piccolo bambino che ci rappresentano le varie iconografie. Isacco aveva, al momento, la tenera età di trentasette anni. Era sicuramente un uomo consapevole, se avesse avuto qualche dubbio su quello che stava facendo suo padre, avrebbe potuto tranquillissimamente scappare. Anche perché il padre tanto giovincello non era. Di anni ne aveva ben 137.

Qual è l’atteggiamento dei due? La Bibbia usa un termine: «va-yelekhu shenehèm yachdav» (= andarono ambedue insieme) e a chi conosce un minimo della metodologia dell’esegesi biblica ebraica le espressioni ambedue ed insieme sembrano veramente tautologiche.

Se sono ambedue sono già insieme, se sono insieme, visto che non c’era nessun altro, sono ambedue. Perché questo raddoppiamento? Perché, dice il midràsh, andavano «be-lèv echad», come con un unico cuore, un unico sentimento. Una differenza, però, esiste. Isacco accetta la sua sorte con dedizione, pronto ad accettare. Il termine dedizione mi ricorda un’altra parola che ha dato il nome ad un’altra religione, Islam. Abramo agisce con emunà: questa parola, che generalmente viene tradotta con fede, rappresenta invece tutt’altro. La fede è qualcosa che uno sente aldilà di qualunque motivazione, aldilà di qualunque cosa e quindi rimane un qualcosa in cui si spera, in cui si vuole credere. La parola emunà è la stessa che compare quando Mosè tenne le mani alzate fino al tramonto durante la guerra contro Amalèk. Le sue mani erano emunà fino al tramonto del sole. Erano salde, immobili. Emunà è quindi la certezza, più che la fede.

E qual è questa certezza? «Dio procurerà per sé un agnello per l’olocausto». Certezza nella promessa divina – «da Isacco deriverà la tua discendenza» -, certezza nella provvidenza, quella stessa certezza che aveva guidato i suoi passi da quel «Vai, vai per te», da quella sicurezza verso l’ignoto, quella certezza che lo ha accompagnato attraverso dieci dure prove. Quindi amore per Dio e amore per le creature, fiducia in Dio, sollecitudine per ogni essere creato, perché ogni essere creato ha in sé il sigillo divino.

Rigoroso senso di giustizia, cioè di verità e di umanità. Questo è un messaggio che le notizie dei giornali e dei telegiornali ci dimostrano ancora nuovo e rivoluzionario, ancora in parte inattuato. È il messaggio che forse dovrebbe guidarci per essere non più ambedue, ma tutti e tre insieme.


UN CONTRIBUTO CRISTIANO

«LA QUESTIONE ANCOR PENDE»

di Roberto Osculati

professore ordinario di Storia del cristianesimo

presso l'Università degli Studi di Catania

1. Le tre leggi secondo Melchisedech

La terza novella della prima giornata del Decameron racconta l'astuzia con cui un ricco banchiere ebreo sfugge ad un’insidia tesagli dal Saladino. Costui ha bisogno di molto denaro e tenta di estorcerlo con un inganno a chi appartiene ad una religione diversa dalla sua e può essere facilmente soggetto ad angherie. Il principe musulmano chiama a sé il banchiere fingendo di voler discutere di problemi teologici e gli pone la questione della verità religiosa e della preminenza di una forma sull’altra tra ebraismo, cristianesimo e islàm. Qualunque possa essere la scelta dell’interrogato, egli presta il fianco ad un'accusa pericolosa. Se infatti ritiene superiore l'ebraismo, offende il Saladino; se propone il cristianesimo o l’islàm, dovrebbe aderirvi. Il saggio uomo d'affari evita prudentemente di entrare nella discussione e propone una parabola, quasi una novella nella novella, per indicare quale sia il comportamento più avveduto nella scelta tra valori affini.

Un prezioso anello passava di padre in figlio e indicava il primato di colui che veniva scelto come erede a preferenza degli altri. Nel succedersi delle generazioni accadde che ad un padre fosse impossibile conferire il primato ad uno dei suoi tre figli, tutti ugualmente meritevoli del privilegio. Due copie accuratissime dell’originale sono fatte preparare ed ognuno riceve in segreto quello che ritiene il segno della sua elezione. Alla morte del padre tutti e tre producono l’anello in loro possesso e ritengono di poter imporre agli altri il loro privilegio, ma «trovatisi gli anelli sì simili l'uno all'altro, che qual fosse il vero non si sapeva conoscere, si rimase la quistione, qual di costoro fosse il vero erede del padre, in pendente et ancor pende. E così vi dico, signor mio, delle tre Leggi alli tre popoli date da Dio Padre, delle quali la quistion proponeste: ciascuno la sua eredità, la sua vera Legge e i suoi comandamenti dirittamente si crede avere e fare; ma chi se l’abbia, come degli anelli, ancor ne pende la quistione».

Il Saladino, colpito dall’acutezza e dalla prudenza dell'ebreo, gli confessa la propria necessità e la malizia sottesa alla domanda teologica. L’altro generosamente l’aiutò, fu ricambiato con larghezza e i due divennero amici. Prudenza, confidenza, sincerità, generosità ed amicizia sono così presentate come essenziale punto di convergenza tra i fedeli di forme religiose diverse. Ci sono valori che accomunano al di là delle osservanze religiose. Affinità e rivalità provengono dalle radici comuni, ma non devono mai trasformarsi in pretesa di superiorità o, peggio, occasione di violenza.

2. La rivelazione divina

Ebraismo, cristianesimo e islàm ritengono di essere fondati su una rivelazione definitiva del divino attraverso una figura eccezionale. Mosè, Gesù e Maometto sono considerati da ognuna delle tre religioni come vertici la cui elezione non ammette confronti. Ognuna delle tre religioni si appella tramite loro ad un privilegio di origine trascendente ed inappellabile. Il cristianesimo poi si considera autentico compimento dell'ebraismo, mentre l'islam sarebbe il perfezionamento delle due forme precedenti. La pretesa di assolutezza, la necessità di definirsi con precisione, l'apologia di se stessi e la critica degli altri possono facilmente creare un rapporto di gelosia, di rivalità, di esclusione reciproca, del tutto simile a quello dei tre fratelli della parabola.

La considerazione di se stesse come rivelazione divina esclusiva sembra talvolta condurre queste forme religiose ad una nozione del divino molto rigida ed autoritaria, quasi si trattasse di un essere assoluto geloso, invadente, puntiglioso, preoccupato di produrre leggi e di esercitare il giudizio di elezione o di condanna. È vero che accanto a queste connotazioni sono poste quelle della grazia e della misericordia, ma spesso la pratica dei fedeli può propendere per le prime caratteristiche mettendo in sordina le seconde, soprattutto per quanto riguarda convinzioni o comportamenti altrui. Un Dio propenso alla legalità patriarcale trova sempre degli adepti a lui simili e il Gesù delle versioni evangeliche lo ricorda a perenne ammonimento dei cristiani di ogni epoca.

Bisognerebbe poi valutare quanto questi tratti in apparenza teologici non rispecchino invece caratteristiche umane basate su interessi psicologici, sociali, economici o militari. Il cristianesimo, soprattutto nel passato, ha mostrato spesso questo aspetto del tutto in contraddizione con le sue origini e i suoi documenti fondamentali. Dove ha potuto divenire religione obbligatoria, si è fatto garanzia di un ordine pubblico molto distante dagli ideali evangelici e, anche in tempi recenti, fatica a staccarsi dalle antiche abitudini di solidarietà con strutture cui ha fornito una garanzia teologica.

3. Quale religione?

Nelle singole forme religiose si sono manifestati in passato e continuano a prodursi fenomeni contraddittori. Non si possono ridurre ebraismo, cristianesimo ed islam, come storicamente si sono evoluti, ad uno schema teorico semplificato o ad una visione idilliaca. In particolare, per quanto riguarda il cristianesimo, esso trascina con sé gli atteggiamenti più diversi. Si pensi alla misericordia evangelica e alle sue infinite negazioni pratiche, alla propensione al martirio accompagnata dalle guerre e dalle conquiste, alla sensibilità per la vita umana e al suo disprezzo, al superamento dei riti a vantaggio dell'etica personale e alla proliferazione delle scenografie e dei formalismi, all'annuncio di uguaglianza e di universalità e alle ferree gerarchie, all'esaltazione della coscienza e della sua libertà e alla repressione più feroce, alla povertà volontaria e alla ricerca affannosa di ricchezze.

La Divina Commedia, ad esempio, è una monumentale enciclopedia delle contraddizioni cristiane come si presentavano all'inizio del XIV secolo ed è un perenne richiamo ad un'opera di intelligenza, di selezione, di impegno personali. Il cristianesimo è sorto da un’autocritica dell'ebraismo e porta in sé la necessità di sottoporsi a giudizio, di liberarsi dalle sue continue negazioni e contraffazioni, mentre è palese che il nome cristiano nel corso dei secoli ha ricoperto pure le più clamorose negazioni delle sue caratteristiche primigenie. Si tratta spesso di un groviglio difficilmente districabile e, da un punto di vista razionale, viene spesso da domandarsi se Epicuro e gli stoici, Euripide e gli scettici non avessero buoni motivi per mettere sotto giudizio il fenomeno religioso pubblico del loro tempo, come poi fecero nell'Europa moderna razionalismo, illuminismo e storicismo. Basti ricordare Spinoza, Hume, Kant, Hegel e Nietzsche. Ma anche un teologo cristiano come Kierkegaard è stato uno dei più acuti e spietati critici del cristianesimo corrente ed ha ripreso molti temi di una teologia autocritica e capace di valutare le distanze tra gli ideali e le realizzazioni pratiche.

Le pretese di assolutezza di una forma religiosa molto spesso non soltanto sono in contraddizione con altri atteggiamenti paralleli, ma pure evidenziano la dialettica interna dello stesso fenomeno nelle sue realizzazioni storiche. Così il cristianesimo moderno ha visto crescere accanto a sé, e forse da se stesso, forme intellettuali e morali che l'hanno messo sotto giudizio e lo tengono continuamente all'erta. Le esigenze di libertà individuale e collettiva, il primato dell'autocoscienza e della coerenza morale, la democrazia e l'evoluzione scientifica si sono rivoltate contro un cristianesimo ridotto ad instrumentum regni ed a pretesa di dominare gli esseri umani. La religiosità infatti, sottoposta ad un'analisi critica, esprime, talvolta in modo emozionale ed istintivo, tutte le ricchezze e le miserie dell'umano: è segno di vita e di morte, di amore e di odio, di verità e di falsità, di giustizia e di ingiustizia, di pace e di guerra. Il suo appello alla trascendenza non può mai nascondere quanto è umano prodotto di vicende individuali e sociali.

È necessario un continuo sforzo di comprensione, di giudizio, di scelta personale e di comunicazione tra persone e culture diverse. Come mostrano il Saladino e l'ebreo, si deve rinunciare all'inganno e alla violenza, per trovare le ragioni della sincerità e dell'amicizia, oltre le maschere dell'arroganza rivestita di panni religiosi. A meno che si vogliano concepire l'umanità e le sue espressioni religiose come inevitabile necessità di sopraffazione, in base al principio «mors tua, vita mea». Occorre anzitutto sapere quale tipo di umanità si desidera e che cosa si vuole esprimere anche attraverso le complicate eredità della storia religiosa.

4. Alcune tematiche cristiane

Il cristianesimo, considerato in base ai suoi primi testi letterari, quali sono raccolti nel Nuovo Testamento, esprime una nozione di umanità assai ben circostanziata e ad essa corrisponde un'idea del divino concepito quale Padre misericordioso di una moltitudine immensa di figli. Si pensi alla parabola dell'evangelo secondo Luca e alla figura del padre generoso impegnato ad attendere il ritorno del figlio allontanatosi da lui, a festeggiare il suo ritorno, ad ammansire il fratello geloso (Luca 15,11-32). Se il divino è immaginato quale accoglienza fattiva di tutti gli esseri umani indegni di un simile trattamento, la legge morale che ne discende è altrettanto irta di paradossi, quale imitazione del Padre nella sua condiscendenza verso figli fragili ed arroganti. L'evangelo cristiano considera l'umanità nella sua impotenza, nel dolore, nella fame, nella sete, nella nudità, nella morte, nell'inconsistenza del fango da cui è stato tratto, ma nello stesso tempo ne esalta la libertà e la creatività, la conversione e la rinascita. Soprattutto lo considera capace di soccorrere generosamente i suoi simili, purchè esca dalle sue paure rivestite di arroganza e di giuridismi. Si ricordino in proposito la parabola del buon samaritano o la figura di Zaccheo (Luca 10,25-37; 19, 1-10). La giustizia possibile a tutti oltre ogni forma rituale è il soccorso più elementare a chi è nella necessità (Matteo 25, 31-46).

Nella vita di ognuno, oltre la legge della fragilità, della colpa e della morte, c’è anche quella dello Spirito fonte di vita (Romani 8) e l’umanità è un continuo e infinito passaggio dalla prima alla seconda creazione, dalla colpa alla grazia, dalla morte alla vita, dalla Genesi all'Apocalisse.

Al centro della religiosità cristiana, nelle sue fonti genuine e nelle sue espressioni coerenti, sta poi la figura evangelica di Gesù. Egli è l'innocente, il giusto condannato ed ucciso, il Signore e la vittima, il vincitore e la sconfitto, il primo e l’ultimo. La sua immagine modellata dagli evangeli esprime i paradossi di ogni vita umana, gli estremi tra cui oscilla alla ricerca di una giustizia sempre cercata e mai pienamente conquistata. Sotto questo aspetto si potrebbe dire che il cristianesimo non è un sistema religioso, ma un paradosso senza fine. Sembra volutamente mettere sottosopra qualsiasi ordinamento mondano alla ricerca di una realtà differente, sempre negata dai grandi fenomeni della storia e sempre rinata nei cuori umani incapaci di arrendersi alla normalità, al buon senso, alla prudenza, al conformismo e alla violenza. Lo vide con grande acutezza Francesco d’Assisi nel mondo medievale, lo seppero mettere in luce nel secolo XIX Kierkegaard, Dostoevskij, Tolstoj ed anche Nietzsche di fronte all’evoluzione della cultura europea, dominata dai fenomeni di massa e pronta a scatenarsi nelle guerre della prima metà del secolo XX.

Il paradosso, sigillato dalla morte miserevole dell'ultimo tra gli esseri umani, fu molto spesso rivestito di panni sacrali, rituali, morali, giuridici, metafisici, politici e militari. «Ecco l’uomo!», sentenziava Pilato nella sua saggezza romana (Giovanni 19,5): egli esprimeva così l'essenza tragica di ogni vita, spogliata dalle contraffazioni, e mostrava a tutti quella verità di cui domandava conto a nome di ogni essere umano (Giovanni 18,38).

Se i problemi dei difficili rapporti tra il cristianesimo e le altre forme religiose sono ricondotti a quella profetica chiarezza, scompaiono. Lì è indicata una verità pratica ed universale che accomuna tutti gli esseri umani, stretti nelle loro contraddizioni e vittime della loro arroganza e fragilità. Di fronte a quella verità anche le religioni, con la loro storia pretenziosa e complicata, sono costrette a fare ammenda di se stesse. Ognuno è rinviato alla propria coscienza, alle scelte personali, all'umiltà della carne umana nella sua povertà e nella sua ricchezza, nella sua fatica e nella sua creatività.


UN CONTRIBUTO ISLAMICO

di Gabriele Mandel

codirettore dell'Università Internazionale Islamica di Cordoba

 

Quale può essere il contributo dell’islàm oggi? Occorre anzitutto chiederci che cosa sia l’islàm. Una domanda pleonastica: tutti sanno che l’islàm è una religione, ma è una religione ben poco conosciuta non solo dagli italiani, ma anche da molti musulmani.

Anzitutto: non è un blocco monolitico. Nemmeno il cristianesimo: ha cattolici, ortodossi, protestanti, evangelici... e se i pastori protestanti possono sposarsi, non lo possono affatto i preti cattolici, mentre i cristiani mormoni possono sposare anche cinque donne; e se le chiese cattoliche sono piene di statue, quelle ortodosse si distinguono per uno sfarzo rutilante, mentre quelle evangeliche e protestanti sono di una sobrietà esemplare.

Anche l’islàm si differenzia altamente, anzi, è forse la religione dai maggiori contrasti: da un lato ad esempio gli integralisti, i fondamentalisti, i fanatici dalla miope osservanza ortodossa, e dall’altro le confraternite dei sufi, i mistici di grande cultura e di illuminata apertura. Non a caso il musulmano che ha accolto la prima visita del Papa ad una moschea musulmana nel marzo 2001, il Gran Muftì di Damasco, è un sufi; ed è indubbio che questo è stato un avvenimento di portata considerevole.

Certo, è vero: la cultura islamica ha nel medioevo donato all’Europa la medicina, derivata dal Canone del turco Avicenna; le ha suggerito l’istituzione dell’università e degli ospedali, le ha fornito la metodologia scientifica, la carta, lo zucchero, la bussola, e considerevoli apporti nella ceramica, nella tessitura e fra i prodotti agricoli, per citare solo alcune voci. Un vasto apporto culturale, venuto meno quando i mongoli gengiscanidi quasi distrussero la civiltà dell’islàm.

E oggi? Quando l’Impero ottomano fu in Europa notevolmente osteggiato per il pericolo che l’Impero stesso, giunto sino alle porte di Vienna, rappresentava, sorse una propaganda denigratoria e una serie di preconcetti che hanno forza ancor oggi. Pertanto l’islàm, è indubbio, nell’inconscio collettivo non è di certo visto di buon occhio, anche se è pur vero il semplice assunto: posseggo una cultura, ma se imparo anche la tua mi arricchisco, perché posseggo allora due culture. Sarebbe auspicabile che anche lo Stato italiano riconoscesse finalmente la religione islamica. Sarebbe auspicabile quindi uno scambio culturale fra le nostre culture.

Sì, ma con quale islàm? O meglio: oggi, in Italia, con quali rappresentanti dell’islàm? Per sua stessa natura, la mia religione non ha una struttura simile a quella cattolica: non esiste un rappresentante ufficiale di tutte le correnti, o – ad esempio - di tutte le moschee che sono sorte in Italia, anche se a tutt’oggi esse non possono venir chiamate ufficialmente moschee, ma solo centri culturali.

Non sussiste, né può sussistere una rappresentanza ufficiale. In Italia non sussiste né può sussistere un interlocutore unico che possa dialogare con il governo italiano. D’altronde si può dire che ogni nazione islamica ha sue regole, sue leggi, sue consuetudini e suoi costumi, ed ogni paese islamico vive un islàm spesso differenziato da questa sua qualità intrinseca. Sarebbe, quindi, meglio che il dialogo – e per conseguenza l’eventuale apporto culturale – si svolgesse a livello dei singoli rappresentanti diplomatici piuttosto che di ipotetici rappresentanti religiosi.

Ecco comunque una delle ragioni per cui l’Italia è costellata da una grande varietà di gruppuscoli che si pretendono rappresentanti dell’islàm, alcuni dei quali sono gestiti da incompetenti incapaci, o da integralisti limitati, se non addirittura da imbroglioni psicopatici. Così problemi e difficoltà presenti in alcuni paesi islamici vengono riproposti in Italia da arrivisti (anche da arrivisti italiani convertiti) che basandosi su una ignoranza di fondo incentivano le discriminazioni, i contrasti, anche gli odi etnici, per dar corda al loro limitato potere. Quale apporto culturale possono dare, costoro? Niente che valga!

Vi è però, nell’islàm, un’altra realtà, poco conosciuta dalla massa ma ben presente anche negli ambienti cattolici a livello culturale: il Sufismo. Secondo Si Hamza Boubakeur (uno dei massimi teologi islamici del XX secolo): «il Sufismo in se stesso non è una Scuola teologico-giuridica, né uno scisma, né una setta, poiché si pone di sopra da ogni obbedienza. E' innanzi tutto un metodo islamico di perfezionamento interiore, d'equilibrio, una fonte di fervore profondamente vissuto e gradualmente ascendente. Lungi dall'essere una innovazione o una via divergente parallela alle pratiche canoniche, è anzitutto una marcia risoluta d'una categoria di anime privilegiate, prese, assetate di Dio mosse dalla scossa della Sua grazia per vivere solo per Lui e grazie a Lui nel quadro della Sua legge meditata, interiorizzata, sperimentata».

«Come il respiro che anima il corpo – scrisse invece Sayyed Hosein Nasr -, il Sufismo ha infuso il suo spirito in tutta la struttura dell'islàm, sia nelle manifestazioni sociali, sia in quelle intellettuali. Le Confraternite dei sufi, poiché sono corpi ben organizzati entro la più ampia matrice della società islamica, hanno esercitato il loro influsso durevole e profondo su tutta la struttura della società, benché la loro funzione primaria fosse stata quella di custodire attraverso i tempi le discipline spirituali e renderne possibile la trasmissione da una generazione all'altra.

I Sufi, riuniti in confraternite ben organizzate, predicano da oltre mille anni libertà, eguaglianza, fratellanza, riconoscendo ad ogni religione la volontà di raggiungere l'inconoscibile divino, e di condurre gli esseri umani sulla via della bontà, del reciproco rispetto, del comportamento etico conforme alle leggi divine che regolano l'universo, anche se la debolezza umana tende a farli deviare e corrompere.

Ebbene: oggi è consuetudine definire questi concetti come non più adeguati al mondo moderno, e pertanto ci si dimentica della realtà essenziale di dottrine e correnti il cui significato religioso o spirituale è permanente. Trascurando realtà spirituali - fondamentali anche se impalpabili e non redditizie sul piano economico quando sono correttamente condotte - si tende a misconoscere la necessità esistenziale di questi concetti. Nel nostro attuale vortice di cambiamenti superficiali, tutto ciò che non appare aggiornato è considerato senza importanza, irrilevante. Una gran parte dell’umanità occidentale ha smesso di considerare significative le verità perenni della religione e del misticismo. Seguendo questa ottusità intellettuale una parte dell’umanità ha perduto i propri valori e il significato stesso della vita. L’islàm autentico, autenticamente sentito, sgorga dall’Assoluto, da Dio. Costituendo un messaggio del divino, indica a tutti gli esseri umani la via dello spirito. L’islàm è questo messaggio. È il richiamo dell’Assoluto a ogni essere umano, e pertanto rappresenta ancora una concezione della vita serena e completa, contro il morbo della secolarizzazione e della libertà incondizionata.

L’essere umano moderno soffre di eccessiva frammentazione sia nella scienza sia nell’istruzione sia nella vita sociale. Accade che proprio a causa della pressione esercitata dalla tecnologia – parafrasando Gesù dovremmo dire: «è la tecnologia utile all’uomo e non l’uomo utile alla tecnologia» - i legami sociali e la personalità individuale tendono a disgregarsi. Non fondandosi sulla fuga esteriore dal mondo ma sul distacco interiore dai suoi orpelli, il Sufismo può fornire all’umanità tutta, oggi, una grande lezione, e soprattutto la grande conferma al retto agire e al retto sentire che assillano ancora, per fortuna, tutti gli esseri umani, ed in particolare quella parte di loro non ancora del tutto inquinata: i giovani.

Certo: i maggiori esponenti delle scienze e delle arti dell’islàm furono maestri sufi, ma il Sufismo può apportare qualcosa di più che questi valori materiali; e soprattutto può contribuire a quel bene oggi della massima importanza che è la pace.

In effetti oggi tutti invocano la pace, ma secondo i concetti di Seyyd Hossein Nasr «essa non è mai raggiunta proprio perché dal punto di vista metafisico è assurdo aspettarsi che una cultura consumistica ed egoistica, dimentica di Dio e dei valori dello spirito, possa darsi la pace. La pace fra gli esseri umani è il risultato della pace con se stessi, con Dio, con la natura, secondo una componente etica che abbia superato false morali, preconcetti, interessi unilaterali e presuntuose ignoranze. Essa è il risultato dell’equilibrio e dell’armonia che si possono realizzare soltanto aderendo agli ideali precipui delle correnti mistiche. In questo contesto è quindi di vitale importanza la pace fra le religioni. In tema di pace va poi detto qualcosa a proposito della pace interiore, che oggi gli esseri umani cercano disperatamente tanto da aver favorito l’insediamento in Occidente di pseudo-yoghi e di falsi guaritori spirituali. In realtà si avverte per istinto l’importanza dell’ascesa mistica ed etica, ma ben pochi accettano di sottoporsi alla disciplina di una tradizione autentica, la sola che possa produrre effetti positivi». L’islàm offre appunto al mondo d’oggi questo suo apporto considerevole di pensiero, di testi, di meditazioni e di studio: il Sufismo.

E concludo con una frase d’uno dei più grandi maestri sufi del XIII secolo, Jalâl âl Dîn Rûmî: «Le vie sono diverse, la meta è unica. Non sai che molte vie conducono a una sola meta? La meta non appartiene né alla miscredenza né alla fede; là non sussiste contraddizione alcuna. Quando la gente vi giunge, le dispute e le controversie che sorsero durante il cammino si appianano; e chi si diceva l’un l’altro durante la strada "tu sei un empio" dimentica allora il litigio, poiché la meta è unica». Questo non è il superamento della religione, ma il rispetto d’ogni religione, come insegna il Corano. E questo, questo soprattutto, ci porterà alla pace interiore e alla pace fra tutte le comunità della terra.


PER CONTINUARE AD APPROFONDIRE

I saggi che compaiono in questa selezione intendono essere soltanto un piccolo aiuto per tutti coloro che, sull'abbrivio di quanto ascoltato questa sera, desiderano proseguire un itinerario informativo sulle confessioni religiose che guardano ad Abramo come punto di riferimento comune. Niente di esaustivo: soltanto alcuni suggerimenti bibliografici che potranno essere variamente integrati dagli interessati tramite molte altre letture, che il mercato offre in misura sempre più rilevante anche a causa di eventi tragici: si pensi, per esempio, al grande numero di volumi sull'islàm, di varia natura e qualità, pubblicati dall'au-tunno scorso.

Un'opera basilare e, per certi versi, propedeutica a ogni altro approfondimento è il grande volume di Khoury A.T. (ed.), Ebraismo, Cristianesimo, Islam, Piemme, Casale Monferrato 1998. Esso pone in rapporto le tre religioni di fronte a oltre duecento voci comuni per cogliere differenze e analogie tra esse nella concretezza di molti temi specifici.

Per una considerazione complessiva dei fenomeni religiosi contemporanei, è di utilissima lettura l'efficace ed agile saggio di Pace E. - Stefani P., Il fondamentalismo religioso contemporaneo, Queriniana, Brescia 2000.

Ebraismo

  • Bahbout S., L'Ebraismo, Atlanti Universali Giunti, Firenze 1994
  • De Benedetti P., Introduzione al Giudaismo, Morcelliana, Brescia 1999
  • Mello A., Ebraismo, Queriniana, Brescia 2000
  • Loewenthal E., Gli ebrei questi sconosciuti, Baldini & Castoldi, Milano 1996
  • Stefani P., Introduzione all'ebraismo, Queriniana, Brescia 1995
  • Stefani P., Gli ebrei, Il Mulino, Bologna 1997
  • Filoramo G., Ebraismo, Laterza, Roma-Bari 1999
  • Heschel A.J., Il Sabato, Rusconi, Milano 2000
  • Sierra S.J. (ed.), La lettura ebraica delle Scritture, EDB, Bologna 1995
  • Zegdun J., Il Mondo del Midrâsh, Carucci, Roma 1980
  • Biblia, Vademecum per il lettore della Bibbia, Morcelliana, Brescia 1996

Cristianesimo

  • Perrot C., Gesù, Queriniana, Brescia 1999
  • Fabris R., Gesù di Nazareth, Cittadella, Assisi 19842
  • Tragan P.-R., La preistoria dei vangeli, Servitium, Sotto il Monte (BG) 20012
  • Borghi E. (ed.), Leggere la Bibbia oggi, Ancora, Milano 2001
  • Osculati R., La teologia cristiana nel suo sviluppo storico, I-II, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1996-1997
  • Sesboüé B., Credere, Queriniana, Brescia 2000
  • Mc Grath A., Teologia cristiana, Claudiana, Torino 1999
  • Waldenfels H., Il fenomeno del cristianesimo. Una religione mondiale nel mondo delle religioni, Queriniana, Brescia 1995
  • Moltmann J., Cos'è Cristo per noi oggi?, Queriniana, Brescia 1995
  • Gutierrez G., Il Dio della vita, Queriniana, Brescia 1991
  • Borghi E., La forza della Parola. Vivere il vangelo secondo Marco, Paoline, Milano 1998
  • Id., La responsabilità della gioia. Vivere il vangelo secondo Luca, Paoline, Milano 2000
  • Id., Il cuore della giustizia. Vivere il vangelo secondo Matteo, Paoline, Milano 2001
  • Osculati R., L'evangelo di Giovanni, IPL, Milano 2000

Islam

  • Il Corano, a cura di F. Peirone, Mondadori, Milano 1979
  • Il Corano, a cura di H.R. Piccardo, Newton Compton, Milano 1996
  • Mandel G., Il Corano senza segreti, Rusconi, Milano 19942
  • Scarabel A., Islàm, Queriniana, Brescia 2000
  • Filoramo G. (ed.), Islam, Laterza, Bari 1999
  • Mandel G., Maometto, il Profeta, Mondadori, Milano 2001
  • Id., I novantanove Nomi di Dio nel Corano, Edizioni San Paolo, Milano 1995
  • Ende W. - Steinbach V., L'Islam oggi, EDB, Bologna 1991
  • Baffioni C., Filosofia e religione i Islam, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1997
  • Straface A., Islam: ortodossia e dissenso, Lavoro, Roma 1998
  • Campanini M., Islam e politica, Il Mulino, Bologna 1999
  • Guzzetti C. M., Bibbia e Corano. Confronto sinottico, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1995
  • Vercellin G., Istituzioni del mondo musulmano, Einaudi, Torino 1996


APPENDICE

Giovanni Boccaccio

Melchisedech giudeo con una novella di tre anella
cessa un gran pericolo dal Saladino apparecchiatogli

(da Decameron, I giornata, III novella)

Il Saladino, il valore del quale fu tanto che non solamente di piccolo uomo il fé di Babilonia Soldano, ma ancora molte vittorie sopra li re saracini e cristiani gli fece avere, avendo in diverse guerre e in grandissime sue magnificenze speso tutto il suo tesoro, e per alcuno accidente sopravvenutogli bisognandogli una buona quantità di danari, né veggendo donde così prestamente come gli bisognavano avergli potesse, gli venne a memoria un ricco giudeo, il cui nome era Melchisedech, il quale prestava ad usura in Alessandria, e pensossi costui avere da poterlo servire, quando volesse; ma sì era avaro che di sua volontà non l'avrebbe mai fatto, e forza non gli voleva fare; per che, strignendolo il bisogno, rivoltosi tutto a dover trovar modo come il giudeo il servisse, s'avvisò di fargli una forza da alcuna ragion colorata.

E fattolsi chiamare, e familiarmente ricevutolo, seco il fece sedere e appresso gli disse: «Valente uomo, io ho da più persone inteso che tu se’ savissimo e nelle cose di Dio senti molto avanti; e per ciò io saprei volentieri da te quale delle tre Leggi tu reputi la verace, o la giudaica o la saracina o la cristiana».

Il giudeo, il quale veramente era savio uomo, s’avvisò troppo bene che il Saladino guardava di pigliarlo nelle parole per dovergli muovere alcuna quistione e pensò non potere alcuna di queste tre più l'una che l'altra lodare, che il Saladino non avesse la sua intenzione; per che, come colui il qual pareva d'aver bisogno di risposta per la quale preso non potesse essere, aguzzato lo ’ngengno, gli venne prestamente avanti quello che dir dovesse; e disse: «Signor mio, la quistione la qual voi mi fate è bella, e a volervene dire ciò che io sento, mi vi convien dire una novelletta, qual voi udirete.

Se io non erro, io mi ricordo aver molte volte udito dire che un grande uomo e ricco fu già, il quale intra l’altre gioie più care che nel suo tesoro avesse, era uno anello bellissimo e prezioso; al quale per lo suo valore e per la sua bellezza volendo fare onore e in perpetuo lasciarlo ne’ suoi discendenti, ordinò che colui de’ suoi figliuoli appo il quale, sì come lasciatogli da lui, fosse questo anello trovato, che colui s’intendesse essere il suo erede e dovesse da tutti gli altri essere come maggiore onorato e riverito.

E colui al quale da costui fu lasciato il simigliante ordinò ne’ suoi discendenti, e così fece come fatto avea il suo predecessore; e in brieve andò questo anello di mano in mano a molti successori, e ultimamente pervenne alle mani ad uno, il quale avea tre figliuoli belli e virtuosi e molto al padre loro obedienti, per la qual cosa tutti e tre parimenti gli amava. E i giovani, li quali la consuetudine dello anello sapevano, sì come vaghi d'essere ciascuno il più onorato tra’ suoi, ciascuno per sé, come meglio sapeva, pregava il padre, il quale era già vecchio, che quando a morte venisse a lui quello anello lasciasse.

Il valente uomo, che parimente tutti gli amava né sapeva esso medesimo eleggere a qual più tosto lasciar lo dovesse, pensò, avendolo a ciascun promesso, di volergli tutti e tre sodisfare: e segretamente ad uno buono maestro ne fece fare due altri, li quali sì furono simiglianti al primiero, che esso medesimo che fatti gli avea fare appena conosceva qual si fosse il vero; e venedo a morte, segretamente diede il suo a ciascuno de’ figliuoli. Li quali, dopo la morte del padre, volendo ciascuno la eredità e l'onore occupare, e l’uno negandolo all'altro, in testimonianza di dover ciò ragionevolmente fare ciascuno produsse fuori il suo anello; e trovatisi gli anelli sì simili l'uno all'altro, che qual fosse il vero non si sapeva conoscere, si rimase la quistione, qual di costoro fosse il vero erede del padre, in pendente et ancor pende. E così vi dico, signor mio, delle tre Leggi alli tre popoli date da Dio Padre, delle quali la quistion proponeste: ciascuno la sua eredità, la sua vera Legge e i suoi comandamenti dirittamente si crede avere e fare; ma chi se l'abbia, come degli anelli, ancor ne pende la quistione».

Il Saladino conobbe costui ottimamente essere saputo uscire del laccio il quale davanti a’ piedi teso gli aveva, e per ciò dispose d'aprirgli il suo bisogno e vedere se servire il volesse; e così fece, aprendogli ciò che in animo avesse avuto di fare, se così discretamente come fatto avea, non gli avesse risposto. Il giudeo liberamente d'ogni quantità che il Saladino il richiese il servì; e il Saladino poi interamente il sodisfece, e oltre a ciò gli donò grandissimi doni e sempre per suo amico l'ebbe e in grande e onorevole stato appresso di sé il mantenne.