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Ebraismo, Cristianesimo,
Islàm nella società di oggi: insieme nella diversità?
INTRODUZIONE
La dimensione religiosa costituisce una componente
fondamentale della plurimillenaria cultura umana. In varie parti
dell'Occidente talune forme di clericalismo e di laicismo hanno reso
difficile cogliere, soprattutto dal XVI secolo in poi, la decisività
umanizzante per la formazione culturale di ogni individuo di un confronto
serio con il fatto religioso e le sue implicazioni interiori e sociali.
Ciononostante occorre rendersi conto di una condizione,
credo, incontrovertibile: ogniqualvolta l'essere umano incontri la realtà
e cerchi di conoscerla, essa gli può apparire complessa e multiforme e da
ciò, sia pur non necessariamente, nasce la domanda di senso: perché
tutto ciò? Se la domanda di senso non cerca solo la spiegazione pura e
semplice dei meccanismi della realtà, ma cerca di andare al di là di essi,
ossia verso un intervento, quale che sia, al di sopra e al di là della
natura, si sviluppa allora il senso religioso.
Quando da questo stadio di ordine emotivo-contemplativo
si passa a gesti e credenze, la religiosità diviene religione. E se
è vero che una definizione nel senso stretto del termine è pressoché
impossibile, dal momento che «ciò a cui si fa riferimento - Dio, il Sacro,
il fondamento assoluto di senso e simili - rimane indisponibile e dunque
indefinibile», è altrettanto vero che valori semantici di base del
termine, pur nello sviluppo storico evidente dal VI secolo a.C ad oggi,
mostrano essenzialmente l'esistenza di due prospettive, l'una di ordine
oggettivo-pubblico, l'altra di carattere soggettivo-personale.
E se pensiamo che, ad esempio, nella mentalità
cristiana medievale religione era, nel suo grado più alto, la vita
monastica contraddistinta dai tre voti di povertà, castità ed obbedienza,
possiamo farci un'idea del percorso che è stato fatto sino alla nostra
contemporaneità. In proposito, quando oggi si parla di religione
nell'immaginario collettivo e nelle lingue euroccidentali, si possono
distinguere almeno sei accezioni differenti di questo termine: insieme di
miti e di riti radicati in una determinata cultura; riferimento ideale e
criterio di verità; serbatoio di valori e potere di legittimazione; pietà
personale e impegno quotidiano relativo; risposta esistenziale al senso
della vita e all'enigma del mondo; moralità.
E se il discorso viene aperto, dall'Occidente
euro-americano alle regioni del mediterraneo orientale, nella direzione
delle zone ad antica e recente islamizzazione, dall'Europa all'Africa
all'Asia, è assai interessante chiedersi quanto abbiano inciso ed incidano
ancora oggi nella vita quotidiana di molti milioni di persone l'adesione
esistenziale ad una delle tre grandi fedi e culture ricondicubili alla
radice abramitica: ebraismo, cristianesimo ed islàm.
In questa linea un interrogativo appare oggi assai
rilevante: le tre grandi religioni unite dal comune riferimento ad Abramo
possono ancora dare un contributo sostanziale alla costruzione di una
convivenza sociale realmente umana? Le pagine di questo libretto
desiderano fornire qualche risposta in proposito, in quanto ospitano il
testo delle tre comunicazioni che furono al centro dell'incontro-dibattito
organizzato dall'associazione
Bercettiani il 30 maggio scorso ed
intitolato Ebraismo, Cristianesimo, Islàm nella società di oggi:
insieme nella diversità? Quella serata, contraddistinta dalla presenza
di oltre centotrenta persone, fu un esempio significativo di come il
dialogo e l'interscambio culturale, al di fuori di irenismi e facilonerie,
sia possibile e costruttivo, quando ne sono responsabili persone non
arroccate sulle proprie posizioni religiose quali Elia Richetti, Roberto
Osculati e Gabriele Mandel. Ringraziamo ancora una volta i tre relatori
per la cortesia con cui intesero accettare il nostro invito e per
l'interesse indubbio che seppero suscitare tramite ciò che essi dissero
quella sera.
Certamente non è semplice, nella vita di tutti i
giorni, superare remore e confusioni culturali, pregiudizi e luoghi comuni
intellettuali ed emotivi, che impediscono di progredire sulla strada di
una conoscenza più meditata e diretta di alcune delle radici essenziali
della società in cui viviamo quali indubbiamente sono le tre confessioni
religiose di radice abramitica.
Speriamo che anche questa brochure, la quale
pubblica gli atti di quella serata, serva almeno a far superare qualcuno
degli ostacoli che rendono difficile il dialogo interreligioso ed
interculturale. E mi riferisco anzitutto al livello dei "non addetti ai
lavori", che, spesso, nel proprio bagaglio formativo ed informativo non
hanno dato né danno sufficiente rilievo, per varie ragioni, alla
dimensione religiosa della cultura.
L'incontro/dibattito del 30 maggio scorso fu soltanto
un punto di partenza. È auspicabile che questo primo momento sia seguito,
proprio nelle aule del "Berchet", da varie altre occasioni di confronto
sempre più intelligente e maturo con la dimensione religiosa della cultura
di tutti, aspetto qualificante di un umanesimo autenticamente vitale.
Ernesto Borghi
UN CONTRIBUTO DELL'EBRAISMO
di Elia Richetti
rabbino capo della Comunità Ebraica di Venezia
Trovandoci nei locali del "Berchet", inizio con un
piccolo ricordo personale. Negli anni in cui studiavo alla Scuola Ebraica,
qui a Milano, preside del "Berchet" era il professor
Joseph Colombo, che, tra l’altro,
era carissimo amico dei miei genitori. Chi di voi l’ha conosciuto e lo
ricorda, ricorderà anche una delle sue principali caratteristiche, il
fatto di riuscire a trovare in ogni parola uno spunto per darle dei
significati diversi. In quegli anni, io alla Scuola Ebraica di Milano
facevo parte anche di un gruppo, i cosiddetti vigili della scuola, che
avevano compiti di servizio d’ordine e di un minimo di sicurezza durante
le manifestazioni scolastiche.
Una sera il professor Colombo era ospite a casa nostra
e, ad un certo punto, venne fuori con una domanda rivolta a me: «Allora,
caro Elia, quali sono le prossime aspirazioni?». Mia madre intervenne
subito dicendo: «Per ora molto varie, da rabbino a vigile». Il professor
Colombo non si scompose e disse: «Molto bene, abbiamo bisogno che i nostri
rabbini siano sempre vigili!».
Il compito di vigilare è, effettivamente, uno dei
compiti rabbinici, ma anche il compito di parlare, di intervenire, di
esporre, di raccontare. Parlando del tema della serata non possiamo fare a
meno di raccontare qualcosa su un personaggio, quello che dovrebbe essere
l’elemento comune delle tre religioni: Abramo. Perché ne parliamo? So che
alcuni scienziati parlano di un periodo della storia del mondo ebraico che
si definirebbe abramismo, un periodo che per un gioco di tesi,
antitesi e successive sintesi si sviluppa e dà luogo ad altre forme, dal
mosaismo al profetismo, al rabbinismo e via di questo
passo. Mi permetto di non seguire questa strada.
La tradizione ebraica vede nell’ebraismo non un
alternarsi di fasi, ma un continuo divenire in linea retta, non per
contrapposizione. Ciò che è l’insegnamento di Abramo è lo stesso che c’è
oggi e proseguirà domani, a Dio piacendo. Qual è l’insegnamento? Un
insegnamento che, secondo la tradizione e, in particolare, quella
rappresentata da quei racconti e da quei commenti rabbinici che passano
sotto il nome di midrashìm nasce, addirittura, da quando Abramo era
appena nato. Vorrei spendere una parola in favore del midràsh,
metodo di indagine testuale molto a-scientifico, per non dire
anti-scientifico, ma che, anziché dissezionare un testo come se fosse un
organismo morto su un tavolo da obitorio, lo analizza, lo divide, lo
scompone e lo ricompone come un organismo vivo e vitale. Direi, quindi,
che rappresenta il messaggio più intimo di quello che è il testo biblico.
Secondo il midràsh, Abramo aveva imparato tutto
lo scibile religioso ancora nel ventre della madre e questa scuola, questo
insegnamento, proseguì dopo la nascita perché, visto e considerato che il
re della Caldea, Nimrod, per le sue conoscenze di astrologia, sapeva che
doveva nascere un faro di luce fra i discendenti di Sem e Eber, a loro
volta figlio e pronipote di Noè, tentava di trovarlo e di ucciderlo.
Quindi Abramo crebbe nascosto in una grotta e un angelo provvedeva alle
sue necessità e continuava ad insegnargli la Tôrah. Che sia così o
che sia secondo l’altro midràsh, in cui si vede un Abramo di tre
anni che, guardando il cielo, ritiene che uno o l’altro dei fenomeni
naturali possano essere Dio, fino ad arrivare alla conclusione che Dio è
aldilà della natura, questi due midrashìm, che a prima vista
sembrano antitetici, in realtà ci dicono qual è l’idea principale del
pensiero e dell’insegnamento di Abramo. Ed è l’idea di un monoteismo
assoluto, nel senso che, qua e là, altri popoli, prima del popolo ebraico,
sono arrivati a dire che esiste un solo Dio, ma per ognuno di loro si
trattava non del Solo Dio, ma del proprio Dio che sicuramente aveva – o
avrebbe - sconfitto gli altri.
Secondo la tradizione ebraica, invece Dio è Unico per
tutti quanti, non è il Dio di Israele, anche se quotidianamente, mattina e
sera, noi proclamiamo: «Il Signore è il Nostro Dio, il Signore è Uno», ma
questo significa che è il Nostro Dio in quanto il popolo ebraico per primo
l’ha conosciuto e l’ha riconosciuto, ma è il Dio Unico di tutti. E quindi
ciò porta ad una conseguenza: se Dio è il Dio Unico di tutti ed è lui che
ha creato tutto ciò che esiste e tutti coloro che esistono, ne deriva che
tutto il Creato è formato da esseri fratelli. Anzi, dirò di più: mentre
Dio ha creato infiniti corpi celesti, infiniti esseri viventi, ha creato
un solo essere umano e ciò non può che avere un solo motivo, il fatto che
nessuno possa sentirsi autorizzato a dire all’altro «I miei antenati
valevano più dei tuoi». In questo insegnamento che, in questa
formulazione, è stato espresso per la prima volta oltre duemila anni fa,
troviamo un elemento che, per certi aspetti, è forse ancora innovativo e
soprattutto non ancora realizzato.
L’insegnamento di Abramo prosegue nel tempo. Secondo i
commenti alla Bibbia l’espressione biblica «Abramo partì da Ur dei Caldei,
lui, sua moglie e Lot, suo nipote e le anime che avevano fatto a Charan»,
rappresenta il concetto che quest’idea di Dio Abramo la propagandava
presso gli altri, addirittura Abramo presso gli uomini, Sara presso le
donne e, anzi, il midràsh ci dice anche in che modo lo facesse.
Leggiamo che Abramo piantò una tenda appena giunto nella terra di Canaan;
secondo il midràsh questa tenda era aperta sui quattro lati, perché
qualunque viandante, avvicinandosi, trovasse una porta aperta.
E quando entrava un viandante, chiunque fosse, Abramo
si dava subito da fare, a portare cibo, bevande e logicamente i viandanti,
grati, lo ringraziavano. Ma Abramo diceva: «No, non è me che devi
ringraziare, devi ringraziare il padrone di tutte queste cose». «E chi è
?». «Dio». «Ma quale?». «No, ce ne è Uno Solo!» e cominciava a spiegare.
Qualcuno si interessava, cominciava a capire, qualcun
altro diceva «ma no, queste sono sciocchezze»… Allora Abramo, senza
perdere la pazienza (altro elemento di cui bisognerebbe ricordarsi, ogni
tanto) presentava un conto esorbitante. Allora, logicamente, il
malcapitato diceva: «Ma come, non hai detto che non è roba tua?». «Va
bene, se non è roba mia, ringrazia il padrone e io son pronto a
stracciarlo». Pedagogia, modo per colpire, per avvicinare, per educare e
quindi ecco un altro aspetto della personalità di Abramo.
In altro contesto Abramo denotò grande ospitalità,
anche quando comparvero davanti a lui, subito dopo che si era fatto
l’operazione della circoncisione, tre personaggi. Noi vediamo Abramo che
corre incontro a loro: «vide e corse», prima ancora di capire chi siano. E
mentre corre, si rivolge a Dio: «Aspettami, ho qualche cosa di più
importante da fare…». Subito li accoglie, li fa sedere, corre a far
portare loro dell’acqua, corre a far preparare delle focacce – tra l’altro
la Bibbia ci dice il quantitativo di farina che adoperò Abramo in
quell’occasione: tre seim, circa sessanta chili! – corre, prende degli
animali, li macella, porta personalmente – aveva tanto di servitù – ma
corre personalmente, fa… Tale è il senso di ospitalità di Abramo che,
mentre era lì che stava medicandosi la ferita (Dio aveva mandato
appositamente un caldo eccezionale perché i viandanti non si mettessero
per strada e Abramo potesse così riposarsi), lui soffriva della mancanza
di questi viandanti.
Abramo resta un personaggio umano, fallibile, commette
anche diversi errori, per esempio l’errore di aver nascosto che Sara era
sua moglie, e per ben due volte…Un altro errore, di cui non parla la
Bibbia, è riferito dal midràsh: una volta, un vecchio viandante,
che si rifiutava di discutere con apertura mentale di questioni religiose,
fu da Abramo scacciato via in malo modo. E Dio lo rimproverò per questo.
«Per tanti anni» – disse Dio - «nonostante quest’uomo rifiutasse di
conoscermi, ho sopportato lui e i suoi peccati. L’ho custodito, l’ho
protetto, gli ho dato la salute, non gli ho fatto mancare nulla. Tu, per
questi pochi minuti in cui si è dimostrato cocciuto, hai perso la pazienza
e l’hai cacciato via, dimenticando ciò che ti avevo insegnato, la pietà e
la misericordia».
Abramo fece tesoro di questo insegnamento divino.
Troveremo ancora questi termini, o termini analoghi. Quali sono gli
insegnamenti che Abramo ha cercato di trasmettere alle persone più vicine
a lui, i suoi figli, il primo, Ismaele, nato da Hagar, il secondo, Isacco?
A questo proposito ci sarebbero tanti midrashìm
da raccontare sull’allontanamento di Ismaele, sul rapporto di Abramo con
Ismaele dopo l’allontanamento. Ricordiamoci però una cosa: un piccolo
midràsh dice che Abramo continuava a seguire Ismaele, ad interessarsi
da lontano di come se la cavava. Andava ogni tanto, quando Ismaele non era
in casa e lasciava messaggi, più o meno cifrati, e Ismaele capiva, sapeva
che suo padre non lo aveva abbandonato, che si occupava di lui, tanto che
lo vediamo accorrere e partecipare alla sepoltura di Abramo. Anche Isacco,
nonostante ci fossero stati motivi di dissenso tra di loro, proseguiva il
rapporto con suo fratello. Noi vediamo nella Bibbia proprio che Isacco
tornava da Beèr la-Chài Roì, cioè dal posto dove viveva Ismaele, quando ha
visto in lontananza i cammelli con il servo Eliezer e la promessa sposa.
Quali insegnamenti trasmetteva Abramo? Abbiamo detto
dell’idea monoteista, è lapalissiano, ma certamente questa idea era
circondata da corollari indicati da Dio stesso. Nel momento in cui
annuncia la prossima distruzione di Sodoma e Gomorra, Dio dice: «Come
posso io nascondere ad Abramo quello che sto per fare? Io ho un rapporto
speciale con lui, perché egli è quello che istruirà i suoi figli e la sua
famiglia dopo di lui, perché mantengano la via del Signore, operando
carità e giustizia».
Mantenere la via del Signore, cioè ricordarsi
che noi siamo continuamente legati a Dio. Ciò di cui ci serviamo
quotidianamente è una concessione divina. Anche per bere un po' d'acqua si
ringrazia Dio di averla creata. È un insegnamento che ci deriva
direttamente da quel midràsh secondo cui Abramo insegnava alla
gente a ringraziare Dio per il cibo.
Poi, operando carità e giustizia. Operando:
perché l’insegnamento ebraico è che le belle idee sono qualche cosa di
passeggero. Diventano qualche cosa di presente e di costante quando si
traducono in un’azione, anzi addirittura l’azione può precedere l’idea
stessa.
Ricorderò un episodio personale. Avrò avuto nove o
dieci anni; mio nonno materno era rabbino capo qui a Milano, mio padre
invece veniva da una famiglia ebraica abbastanza tiepida, di quelle che si
ricordano delle ricorrenze principali andando in sinagoga e poco di più.
Logicamente però, mio padre, sposando la figlia del rabbino, qualche cosa
di più doveva mettere in pratica. E mi ricordo che una volta disse a mio
nonno: «Vede, io non avrei nulla in contrario ad essere ancora più
osservante, ma vorrei capire il perché dei precetti che devo mettere in
pratica». E mio nonno gli ha risposto: «Hai perfettamente ragione. Allora
comincia a metterli in pratica, così li capirai».
Questa è una costante dell’ebraismo. Se noi guardiamo
attraverso la Bibbia, noi troviamo che nei vari punti in cui Dio ci mette
in guardia dal cadere nell’errore, subito dopo arriva l’esposizione di un
precetto, come a dire: «mettilo in pratica, eviterai di cadere
nell’errore». Di nuovo, la pedagogia divina. Operando quindi, e operando
cosa? Carità e giustizia.
Questi due termini nella concezione ebraica non sono
antitetici. Pensiamoci un attimo: nella logica nostra, quotidiana,
odierna, o io sono caritatevole e quindi chiudo un occhio su qualche cosa,
son pronto a venire incontro anche a chi ha sbagliato perché o mi fa pena,
oppure mi rendo conto di alcune esigenze particolari, o sono giusto, seguo
la legge nella maniera contenuta nel Talmud con l'espressione, «che la
legge fori la montagna».
Queste sono le due possibilità. Come si fa ad essere,
ad un tempo, caritatevoli e giusti?
Tzedaqàh e Mishpàt. Mishpàt, il
giudizio, la norma, è quella che vuole che la gente si comporti così
perché ci si deve comportare così. Per esempio, è norma di Mishpàt,
perché così è stabilito nella Bibbia, che quando uno miete il suo campo
non torni indietro a raccattare le spighe eventualmente cadute, perché non
spettano a lui, spettano alle categorie più disagiate.
Questo è Mishpàt, è norma. Ma nella Bibbia
troviamo anche un esempio diverso, ed è un esempio di Tzedaqàh, di
carità, ma attenzione: la parola stessa Tzedaqàh deriva dalla
radice Tzaddìq, che vuol dire giusto. È l’episodio di Rut.
Nel libro biblico omonimo noi vediamo che questa donna straniera,
appartenente ad un popolo che si era comportato male nei confronti del
popolo di Israele, questa donna che, con la sua stessa presenza a Betlemme
ricordava l’errore, la colpa della famiglia di Elimèlech e di sua moglie
Noemi di aver abbandonato il loro popolo proprio nel momento del bisogno e
di essersi mescolati proprio con quel popolo odiato, questa Rut vuole
poter spigolare. Sì, è vero, la norma, il Mishpàt glielo consente,
ma la gente lo capirà?
Ed ecco che il padrone del campo, Bòoz, fa qualche cosa
di strano. Lui non solo le dice di continuare a lavorare lì, ma chiama
anche il responsabile della mietitura e gli dice di dar ordine ai
mietitori di lasciar cadere apposta delle spighe, in maniera da far della
beneficenza ad una persona sofferente e isolata, ma, al tempo stesso,
senza farla sentire una persona che chiede l’elemosina. Questa è
Tzedaqàh. È quell’atteggiamento che recepisce la norma e la sublima in
qualche cosa che va aldilà della norma scritta, ma che sente vivamente il
senso profondo che ha ispirato la norma stessa. Tzedaqàh e
Mishpàt. Questo è l’insegnamento che, secondo Dio, Abramo trasmette ai
suoi discendenti.
Ma ce ne è un altro ancora. E ci viene rappresentato da
quella prova drammatica a cui Dio lo sottopone, la cosiddetta legatura
di Isacco, impropriamente detta sacrificio di Isacco, perché
Isacco non è stato sacrificato. È un argomento che ha ispirato e ispira
profeti, artisti, poeti, pittori. Una letteratura enorme, vastissima in
campo ebraico si ispira a questa aqedàh, a questa legatura
di Isacco. Ricordiamo, però, una cosa: secondo il conteggio che risulta
dal testo biblico, Isacco non era quel piccolo bambino che ci
rappresentano le varie iconografie. Isacco aveva, al momento, la tenera
età di trentasette anni. Era sicuramente un uomo consapevole, se avesse
avuto qualche dubbio su quello che stava facendo suo padre, avrebbe potuto
tranquillissimamente scappare. Anche perché il padre tanto giovincello non
era. Di anni ne aveva ben 137.
Qual è l’atteggiamento dei due? La Bibbia usa un
termine: «va-yelekhu shenehèm yachdav» (= andarono ambedue insieme)
e a chi conosce un minimo della metodologia dell’esegesi biblica ebraica
le espressioni ambedue ed insieme sembrano veramente
tautologiche.
Se sono ambedue sono già insieme, se sono
insieme, visto che non c’era nessun altro, sono ambedue.
Perché questo raddoppiamento? Perché, dice il midràsh, andavano
«be-lèv echad», come con un unico cuore, un unico sentimento. Una
differenza, però, esiste. Isacco accetta la sua sorte con dedizione,
pronto ad accettare. Il termine dedizione mi ricorda un’altra
parola che ha dato il nome ad un’altra religione, Islam. Abramo
agisce con emunà: questa parola, che generalmente viene tradotta
con fede, rappresenta invece tutt’altro. La fede è qualcosa che uno
sente aldilà di qualunque motivazione, aldilà di qualunque cosa e quindi
rimane un qualcosa in cui si spera, in cui si vuole credere. La parola
emunà è la stessa che compare quando Mosè tenne le mani alzate fino al
tramonto durante la guerra contro Amalèk. Le sue mani erano emunà
fino al tramonto del sole. Erano salde, immobili. Emunà è quindi la
certezza, più che la fede.
E qual è questa certezza? «Dio procurerà per sé un
agnello per l’olocausto». Certezza nella promessa divina – «da Isacco
deriverà la tua discendenza» -, certezza nella provvidenza, quella stessa
certezza che aveva guidato i suoi passi da quel «Vai, vai per te», da
quella sicurezza verso l’ignoto, quella certezza che lo ha accompagnato
attraverso dieci dure prove. Quindi amore per Dio e amore per le creature,
fiducia in Dio, sollecitudine per ogni essere creato, perché ogni essere
creato ha in sé il sigillo divino.
Rigoroso senso di giustizia, cioè di verità
e di umanità. Questo è un messaggio che le notizie dei giornali e
dei telegiornali ci dimostrano ancora nuovo e rivoluzionario, ancora in
parte inattuato. È il messaggio che forse dovrebbe guidarci per essere non
più ambedue, ma tutti e tre insieme.
UN CONTRIBUTO CRISTIANO
«LA QUESTIONE ANCOR PENDE»
di Roberto Osculati
professore ordinario di Storia del cristianesimo
presso l'Università degli Studi di Catania
1. Le tre leggi secondo Melchisedech
La terza novella della prima giornata del Decameron
racconta l'astuzia con cui un ricco banchiere ebreo sfugge ad un’insidia
tesagli dal Saladino. Costui ha bisogno di molto denaro e tenta di
estorcerlo con un inganno a chi appartiene ad una religione diversa dalla
sua e può essere facilmente soggetto ad angherie. Il principe musulmano
chiama a sé il banchiere fingendo di voler discutere di problemi teologici
e gli pone la questione della verità religiosa e della preminenza di una
forma sull’altra tra ebraismo, cristianesimo e islàm. Qualunque possa
essere la scelta dell’interrogato, egli presta il fianco ad un'accusa
pericolosa. Se infatti ritiene superiore l'ebraismo, offende il Saladino;
se propone il cristianesimo o l’islàm, dovrebbe aderirvi. Il saggio uomo
d'affari evita prudentemente di entrare nella discussione e propone una
parabola, quasi una novella nella novella, per indicare quale sia il
comportamento più avveduto nella scelta tra valori affini.
Un prezioso anello passava di padre in figlio e
indicava il primato di colui che veniva scelto come erede a preferenza
degli altri. Nel succedersi delle generazioni accadde che ad un padre
fosse impossibile conferire il primato ad uno dei suoi tre figli, tutti
ugualmente meritevoli del privilegio. Due copie accuratissime
dell’originale sono fatte preparare ed ognuno riceve in segreto quello che
ritiene il segno della sua elezione. Alla morte del padre tutti e tre
producono l’anello in loro possesso e ritengono di poter imporre agli
altri il loro privilegio, ma «trovatisi gli anelli sì simili l'uno
all'altro, che qual fosse il vero non si sapeva conoscere, si rimase la
quistione, qual di costoro fosse il vero erede del padre, in pendente et
ancor pende. E così vi dico, signor mio, delle tre Leggi alli tre popoli
date da Dio Padre, delle quali la quistion proponeste: ciascuno la sua
eredità, la sua vera Legge e i suoi comandamenti dirittamente si crede
avere e fare; ma chi se l’abbia, come degli anelli, ancor ne pende la
quistione».
Il Saladino, colpito dall’acutezza e dalla prudenza
dell'ebreo, gli confessa la propria necessità e la malizia sottesa alla
domanda teologica. L’altro generosamente l’aiutò, fu ricambiato con
larghezza e i due divennero amici. Prudenza, confidenza, sincerità,
generosità ed amicizia sono così presentate come essenziale punto di
convergenza tra i fedeli di forme religiose diverse. Ci sono valori che
accomunano al di là delle osservanze religiose. Affinità e rivalità
provengono dalle radici comuni, ma non devono mai trasformarsi in pretesa
di superiorità o, peggio, occasione di violenza.
2. La rivelazione divina
Ebraismo, cristianesimo e islàm ritengono di essere
fondati su una rivelazione definitiva del divino attraverso una figura
eccezionale. Mosè, Gesù e Maometto sono considerati da ognuna delle tre
religioni come vertici la cui elezione non ammette confronti. Ognuna delle
tre religioni si appella tramite loro ad un privilegio di origine
trascendente ed inappellabile. Il cristianesimo poi si considera autentico
compimento dell'ebraismo, mentre l'islam sarebbe il perfezionamento delle
due forme precedenti. La pretesa di assolutezza, la necessità di definirsi
con precisione, l'apologia di se stessi e la critica degli altri possono
facilmente creare un rapporto di gelosia, di rivalità, di esclusione
reciproca, del tutto simile a quello dei tre fratelli della parabola.
La considerazione di se stesse come rivelazione divina
esclusiva sembra talvolta condurre queste forme religiose ad una nozione
del divino molto rigida ed autoritaria, quasi si trattasse di un essere
assoluto geloso, invadente, puntiglioso, preoccupato di produrre leggi e
di esercitare il giudizio di elezione o di condanna. È vero che accanto a
queste connotazioni sono poste quelle della grazia e della misericordia,
ma spesso la pratica dei fedeli può propendere per le prime
caratteristiche mettendo in sordina le seconde, soprattutto per quanto
riguarda convinzioni o comportamenti altrui. Un Dio propenso alla legalità
patriarcale trova sempre degli adepti a lui simili e il Gesù delle
versioni evangeliche lo ricorda a perenne ammonimento dei cristiani di
ogni epoca.
Bisognerebbe poi valutare quanto questi tratti in
apparenza teologici non rispecchino invece caratteristiche umane basate su
interessi psicologici, sociali, economici o militari. Il cristianesimo,
soprattutto nel passato, ha mostrato spesso questo aspetto del tutto in
contraddizione con le sue origini e i suoi documenti fondamentali. Dove ha
potuto divenire religione obbligatoria, si è fatto garanzia di un ordine
pubblico molto distante dagli ideali evangelici e, anche in tempi recenti,
fatica a staccarsi dalle antiche abitudini di solidarietà con strutture
cui ha fornito una garanzia teologica.
3. Quale religione?
Nelle singole forme religiose si sono manifestati in
passato e continuano a prodursi fenomeni contraddittori. Non si possono
ridurre ebraismo, cristianesimo ed islam, come storicamente si sono
evoluti, ad uno schema teorico semplificato o ad una visione idilliaca. In
particolare, per quanto riguarda il cristianesimo, esso trascina con sé
gli atteggiamenti più diversi. Si pensi alla misericordia evangelica e
alle sue infinite negazioni pratiche, alla propensione al martirio
accompagnata dalle guerre e dalle conquiste, alla sensibilità per la vita
umana e al suo disprezzo, al superamento dei riti a vantaggio dell'etica
personale e alla proliferazione delle scenografie e dei formalismi,
all'annuncio di uguaglianza e di universalità e alle ferree gerarchie,
all'esaltazione della coscienza e della sua libertà e alla repressione più
feroce, alla povertà volontaria e alla ricerca affannosa di ricchezze.
La Divina Commedia, ad esempio, è una
monumentale enciclopedia delle contraddizioni cristiane come si
presentavano all'inizio del XIV secolo ed è un perenne richiamo ad
un'opera di intelligenza, di selezione, di impegno personali. Il
cristianesimo è sorto da un’autocritica dell'ebraismo e porta in sé la
necessità di sottoporsi a giudizio, di liberarsi dalle sue continue
negazioni e contraffazioni, mentre è palese che il nome cristiano nel
corso dei secoli ha ricoperto pure le più clamorose negazioni delle sue
caratteristiche primigenie. Si tratta spesso di un groviglio difficilmente
districabile e, da un punto di vista razionale, viene spesso da domandarsi
se Epicuro e gli stoici, Euripide e gli scettici non avessero buoni motivi
per mettere sotto giudizio il fenomeno religioso pubblico del loro tempo,
come poi fecero nell'Europa moderna razionalismo, illuminismo e
storicismo. Basti ricordare Spinoza, Hume, Kant, Hegel e Nietzsche. Ma
anche un teologo cristiano come Kierkegaard è stato uno dei più acuti e
spietati critici del cristianesimo corrente ed ha ripreso molti temi di
una teologia autocritica e capace di valutare le distanze tra gli ideali e
le realizzazioni pratiche.
Le pretese di assolutezza di una forma religiosa molto
spesso non soltanto sono in contraddizione con altri atteggiamenti
paralleli, ma pure evidenziano la dialettica interna dello stesso fenomeno
nelle sue realizzazioni storiche. Così il cristianesimo moderno ha visto
crescere accanto a sé, e forse da se stesso, forme intellettuali e morali
che l'hanno messo sotto giudizio e lo tengono continuamente all'erta. Le
esigenze di libertà individuale e collettiva, il primato
dell'autocoscienza e della coerenza morale, la democrazia e l'evoluzione
scientifica si sono rivoltate contro un cristianesimo ridotto ad
instrumentum regni ed a pretesa di dominare gli esseri umani. La
religiosità infatti, sottoposta ad un'analisi critica, esprime, talvolta
in modo emozionale ed istintivo, tutte le ricchezze e le miserie
dell'umano: è segno di vita e di morte, di amore e di odio, di verità e di
falsità, di giustizia e di ingiustizia, di pace e di guerra. Il suo
appello alla trascendenza non può mai nascondere quanto è umano prodotto
di vicende individuali e sociali.
È necessario un continuo sforzo di comprensione, di
giudizio, di scelta personale e di comunicazione tra persone e culture
diverse. Come mostrano il Saladino e l'ebreo, si deve rinunciare
all'inganno e alla violenza, per trovare le ragioni della sincerità e
dell'amicizia, oltre le maschere dell'arroganza rivestita di panni
religiosi. A meno che si vogliano concepire l'umanità e le sue espressioni
religiose come inevitabile necessità di sopraffazione, in base al
principio «mors tua, vita mea». Occorre anzitutto sapere quale tipo di
umanità si desidera e che cosa si vuole esprimere anche attraverso le
complicate eredità della storia religiosa.
4. Alcune tematiche cristiane
Il cristianesimo, considerato in base ai suoi primi
testi letterari, quali sono raccolti nel Nuovo Testamento, esprime una
nozione di umanità assai ben circostanziata e ad essa corrisponde un'idea
del divino concepito quale Padre misericordioso di una moltitudine immensa
di figli. Si pensi alla parabola dell'evangelo secondo Luca e alla figura
del padre generoso impegnato ad attendere il ritorno del figlio
allontanatosi da lui, a festeggiare il suo ritorno, ad ammansire il
fratello geloso (Luca 15,11-32). Se il divino è immaginato quale
accoglienza fattiva di tutti gli esseri umani indegni di un simile
trattamento, la legge morale che ne discende è altrettanto irta di
paradossi, quale imitazione del Padre nella sua condiscendenza verso figli
fragili ed arroganti. L'evangelo cristiano considera l'umanità nella sua
impotenza, nel dolore, nella fame, nella sete, nella nudità, nella morte,
nell'inconsistenza del fango da cui è stato tratto, ma nello stesso tempo
ne esalta la libertà e la creatività, la conversione e la rinascita.
Soprattutto lo considera capace di soccorrere generosamente i suoi simili,
purchè esca dalle sue paure rivestite di arroganza e di giuridismi. Si
ricordino in proposito la parabola del buon samaritano o la figura di
Zaccheo (Luca 10,25-37; 19, 1-10). La giustizia possibile a tutti
oltre ogni forma rituale è il soccorso più elementare a chi è nella
necessità (Matteo 25, 31-46).
Nella vita di ognuno, oltre la legge della fragilità,
della colpa e della morte, c’è anche quella dello Spirito fonte di vita (Romani
8) e l’umanità è un continuo e infinito passaggio dalla prima alla seconda
creazione, dalla colpa alla grazia, dalla morte alla vita, dalla Genesi
all'Apocalisse.
Al centro della religiosità cristiana, nelle sue fonti
genuine e nelle sue espressioni coerenti, sta poi la figura evangelica di
Gesù. Egli è l'innocente, il giusto condannato ed ucciso, il Signore e la
vittima, il vincitore e la sconfitto, il primo e l’ultimo. La sua immagine
modellata dagli evangeli esprime i paradossi di ogni vita umana, gli
estremi tra cui oscilla alla ricerca di una giustizia sempre cercata e mai
pienamente conquistata. Sotto questo aspetto si potrebbe dire che il
cristianesimo non è un sistema religioso, ma un paradosso senza fine.
Sembra volutamente mettere sottosopra qualsiasi ordinamento mondano alla
ricerca di una realtà differente, sempre negata dai grandi fenomeni della
storia e sempre rinata nei cuori umani incapaci di arrendersi alla
normalità, al buon senso, alla prudenza, al conformismo e alla violenza.
Lo vide con grande acutezza Francesco d’Assisi nel mondo medievale, lo
seppero mettere in luce nel secolo XIX Kierkegaard, Dostoevskij, Tolstoj
ed anche Nietzsche di fronte all’evoluzione della cultura europea,
dominata dai fenomeni di massa e pronta a scatenarsi nelle guerre della
prima metà del secolo XX.
Il paradosso, sigillato dalla morte miserevole
dell'ultimo tra gli esseri umani, fu molto spesso rivestito di panni
sacrali, rituali, morali, giuridici, metafisici, politici e militari.
«Ecco l’uomo!», sentenziava Pilato nella sua saggezza romana (Giovanni
19,5): egli esprimeva così l'essenza tragica di ogni vita, spogliata dalle
contraffazioni, e mostrava a tutti quella verità di cui domandava conto a
nome di ogni essere umano (Giovanni 18,38).
Se i problemi dei difficili rapporti tra il
cristianesimo e le altre forme religiose sono ricondotti a quella
profetica chiarezza, scompaiono. Lì è indicata una verità pratica ed
universale che accomuna tutti gli esseri umani, stretti nelle loro
contraddizioni e vittime della loro arroganza e fragilità. Di fronte a
quella verità anche le religioni, con la loro storia pretenziosa e
complicata, sono costrette a fare ammenda di se stesse. Ognuno è rinviato
alla propria coscienza, alle scelte personali, all'umiltà della carne
umana nella sua povertà e nella sua ricchezza, nella sua fatica e nella
sua creatività.
UN CONTRIBUTO ISLAMICO
di Gabriele Mandel
codirettore dell'Università Internazionale Islamica di
Cordoba
Quale può essere il contributo dell’islàm oggi? Occorre
anzitutto chiederci che cosa sia l’islàm. Una domanda pleonastica: tutti
sanno che l’islàm è una religione, ma è una religione ben poco conosciuta
non solo dagli italiani, ma anche da molti musulmani.
Anzitutto: non è un blocco monolitico. Nemmeno il
cristianesimo: ha cattolici, ortodossi, protestanti, evangelici... e se i
pastori protestanti possono sposarsi, non lo possono affatto i preti
cattolici, mentre i cristiani mormoni possono sposare anche cinque donne;
e se le chiese cattoliche sono piene di statue, quelle ortodosse si
distinguono per uno sfarzo rutilante, mentre quelle evangeliche e
protestanti sono di una sobrietà esemplare.
Anche l’islàm si differenzia altamente, anzi, è forse
la religione dai maggiori contrasti: da un lato ad esempio gli
integralisti, i fondamentalisti, i fanatici dalla miope osservanza
ortodossa, e dall’altro le confraternite dei sufi, i mistici di grande
cultura e di illuminata apertura. Non a caso il musulmano che ha accolto
la prima visita del Papa ad una moschea musulmana nel marzo 2001, il Gran
Muftì di Damasco, è un sufi; ed è indubbio che questo è stato un
avvenimento di portata considerevole.
Certo, è vero: la cultura islamica ha nel medioevo
donato all’Europa la medicina, derivata dal Canone del turco
Avicenna; le ha suggerito l’istituzione dell’università e degli ospedali,
le ha fornito la metodologia scientifica, la carta, lo zucchero, la
bussola, e considerevoli apporti nella ceramica, nella tessitura e fra i
prodotti agricoli, per citare solo alcune voci. Un vasto apporto
culturale, venuto meno quando i mongoli gengiscanidi quasi distrussero la
civiltà dell’islàm.
E oggi? Quando l’Impero ottomano fu in Europa
notevolmente osteggiato per il pericolo che l’Impero stesso, giunto sino
alle porte di Vienna, rappresentava, sorse una propaganda denigratoria e
una serie di preconcetti che hanno forza ancor oggi. Pertanto l’islàm, è
indubbio, nell’inconscio collettivo non è di certo visto di buon occhio,
anche se è pur vero il semplice assunto: posseggo una cultura, ma se
imparo anche la tua mi arricchisco, perché posseggo allora due culture.
Sarebbe auspicabile che anche lo Stato italiano riconoscesse finalmente la
religione islamica. Sarebbe auspicabile quindi uno scambio culturale fra
le nostre culture.
Sì, ma con quale islàm? O meglio: oggi, in Italia, con
quali rappresentanti dell’islàm? Per sua stessa natura, la mia religione
non ha una struttura simile a quella cattolica: non esiste un
rappresentante ufficiale di tutte le correnti, o – ad esempio - di tutte
le moschee che sono sorte in Italia, anche se a tutt’oggi esse non possono
venir chiamate ufficialmente moschee, ma solo centri culturali.
Non sussiste, né può sussistere una rappresentanza
ufficiale. In Italia non sussiste né può sussistere un interlocutore unico
che possa dialogare con il governo italiano. D’altronde si può dire che
ogni nazione islamica ha sue regole, sue leggi, sue consuetudini e suoi
costumi, ed ogni paese islamico vive un islàm spesso differenziato da
questa sua qualità intrinseca. Sarebbe, quindi, meglio che il dialogo – e
per conseguenza l’eventuale apporto culturale – si svolgesse a livello dei
singoli rappresentanti diplomatici piuttosto che di ipotetici
rappresentanti religiosi.
Ecco comunque una delle ragioni per cui l’Italia è
costellata da una grande varietà di gruppuscoli che si pretendono
rappresentanti dell’islàm, alcuni dei quali sono gestiti da incompetenti
incapaci, o da integralisti limitati, se non addirittura da imbroglioni
psicopatici. Così problemi e difficoltà presenti in alcuni paesi islamici
vengono riproposti in Italia da arrivisti (anche da arrivisti italiani
convertiti) che basandosi su una ignoranza di fondo incentivano le
discriminazioni, i contrasti, anche gli odi etnici, per dar corda al loro
limitato potere. Quale apporto culturale possono dare, costoro? Niente che
valga!
Vi è però, nell’islàm, un’altra realtà, poco conosciuta
dalla massa ma ben presente anche negli ambienti cattolici a livello
culturale: il Sufismo. Secondo Si Hamza Boubakeur (uno dei massimi teologi
islamici del XX secolo): «il Sufismo in se stesso non è una Scuola
teologico-giuridica, né uno scisma, né una setta, poiché si pone di sopra
da ogni obbedienza. E' innanzi tutto un metodo islamico di perfezionamento
interiore, d'equilibrio, una fonte di fervore profondamente vissuto e
gradualmente ascendente. Lungi dall'essere una innovazione o una via
divergente parallela alle pratiche canoniche, è anzitutto una marcia
risoluta d'una categoria di anime privilegiate, prese, assetate di Dio
mosse dalla scossa della Sua grazia per vivere solo per Lui e grazie a Lui
nel quadro della Sua legge meditata, interiorizzata, sperimentata».
«Come il respiro che anima il corpo – scrisse invece
Sayyed Hosein Nasr -, il Sufismo ha infuso il suo spirito in tutta la
struttura dell'islàm, sia nelle manifestazioni sociali, sia in quelle
intellettuali. Le Confraternite dei sufi, poiché sono corpi ben
organizzati entro la più ampia matrice della società islamica, hanno
esercitato il loro influsso durevole e profondo su tutta la struttura
della società, benché la loro funzione primaria fosse stata quella di
custodire attraverso i tempi le discipline spirituali e renderne possibile
la trasmissione da una generazione all'altra.
I Sufi, riuniti in confraternite ben organizzate,
predicano da oltre mille anni libertà, eguaglianza, fratellanza,
riconoscendo ad ogni religione la volontà di raggiungere l'inconoscibile
divino, e di condurre gli esseri umani sulla via della bontà, del
reciproco rispetto, del comportamento etico conforme alle leggi divine che
regolano l'universo, anche se la debolezza umana tende a farli deviare e
corrompere.
Ebbene: oggi è consuetudine definire questi concetti
come non più adeguati al mondo moderno, e pertanto ci si dimentica della
realtà essenziale di dottrine e correnti il cui significato religioso o
spirituale è permanente. Trascurando realtà spirituali - fondamentali
anche se impalpabili e non redditizie sul piano economico quando sono
correttamente condotte - si tende a misconoscere la necessità esistenziale
di questi concetti. Nel nostro attuale vortice di cambiamenti
superficiali, tutto ciò che non appare aggiornato è considerato senza
importanza, irrilevante. Una gran parte dell’umanità occidentale ha smesso
di considerare significative le verità perenni della religione e del
misticismo. Seguendo questa ottusità intellettuale una parte dell’umanità
ha perduto i propri valori e il significato stesso della vita. L’islàm
autentico, autenticamente sentito, sgorga dall’Assoluto, da Dio.
Costituendo un messaggio del divino, indica a tutti gli esseri umani la
via dello spirito. L’islàm è questo messaggio. È il richiamo
dell’Assoluto a ogni essere umano, e pertanto rappresenta ancora una
concezione della vita serena e completa, contro il morbo della
secolarizzazione e della libertà incondizionata.
L’essere umano moderno soffre di eccessiva
frammentazione sia nella scienza sia nell’istruzione sia nella vita
sociale. Accade che proprio a causa della pressione esercitata dalla
tecnologia – parafrasando Gesù dovremmo dire: «è la tecnologia utile
all’uomo e non l’uomo utile alla tecnologia» - i legami sociali e la
personalità individuale tendono a disgregarsi. Non fondandosi sulla fuga
esteriore dal mondo ma sul distacco interiore dai suoi orpelli, il Sufismo
può fornire all’umanità tutta, oggi, una grande lezione, e soprattutto la
grande conferma al retto agire e al retto sentire che assillano ancora,
per fortuna, tutti gli esseri umani, ed in particolare quella parte di
loro non ancora del tutto inquinata: i giovani.
Certo: i maggiori esponenti delle scienze e delle arti
dell’islàm furono maestri sufi, ma il Sufismo può apportare qualcosa di
più che questi valori materiali; e soprattutto può contribuire a quel bene
oggi della massima importanza che è la pace.
In effetti oggi tutti invocano la pace, ma secondo i
concetti di Seyyd Hossein Nasr «essa non è mai raggiunta proprio perché
dal punto di vista metafisico è assurdo aspettarsi che una cultura
consumistica ed egoistica, dimentica di Dio e dei valori dello spirito,
possa darsi la pace. La pace fra gli esseri umani è il risultato della
pace con se stessi, con Dio, con la natura, secondo una componente etica
che abbia superato false morali, preconcetti, interessi unilaterali e
presuntuose ignoranze. Essa è il risultato dell’equilibrio e dell’armonia
che si possono realizzare soltanto aderendo agli ideali precipui delle
correnti mistiche. In questo contesto è quindi di vitale importanza la
pace fra le religioni. In tema di pace va poi detto qualcosa a proposito
della pace interiore, che oggi gli esseri umani cercano
disperatamente tanto da aver favorito l’insediamento in Occidente di
pseudo-yoghi e di falsi guaritori spirituali. In realtà si avverte per
istinto l’importanza dell’ascesa mistica ed etica, ma ben pochi accettano
di sottoporsi alla disciplina di una tradizione autentica, la sola che
possa produrre effetti positivi». L’islàm offre appunto al mondo d’oggi
questo suo apporto considerevole di pensiero, di testi, di meditazioni e
di studio: il Sufismo.
E concludo con una frase d’uno dei più grandi maestri
sufi del XIII secolo, Jalâl âl Dîn Rûmî: «Le vie sono diverse, la meta è
unica. Non sai che molte vie conducono a una sola meta? La meta non
appartiene né alla miscredenza né alla fede; là non sussiste
contraddizione alcuna. Quando la gente vi giunge, le dispute e le
controversie che sorsero durante il cammino si appianano; e chi si diceva
l’un l’altro durante la strada "tu sei un empio" dimentica allora il
litigio, poiché la meta è unica». Questo non è il superamento della
religione, ma il rispetto d’ogni religione, come insegna il Corano.
E questo, questo soprattutto, ci porterà alla pace interiore e alla pace
fra tutte le comunità della terra.
PER CONTINUARE AD APPROFONDIRE
I saggi che compaiono in
questa selezione intendono essere soltanto un piccolo aiuto per tutti
coloro che, sull'abbrivio di quanto ascoltato questa sera, desiderano
proseguire un itinerario informativo sulle confessioni religiose che
guardano ad Abramo come punto di riferimento comune. Niente di
esaustivo: soltanto alcuni suggerimenti bibliografici che
potranno essere variamente integrati dagli interessati tramite molte altre
letture, che il mercato offre in misura sempre più rilevante anche a causa
di eventi tragici: si pensi, per esempio, al grande numero di volumi
sull'islàm, di varia natura e qualità, pubblicati dall'au-tunno scorso.
Un'opera basilare e, per certi versi, propedeutica a
ogni altro approfondimento è il grande volume di Khoury A.T. (ed.),
Ebraismo, Cristianesimo, Islam, Piemme, Casale Monferrato 1998. Esso
pone in rapporto le tre religioni di fronte a oltre duecento voci comuni
per cogliere differenze e analogie tra esse nella concretezza di molti
temi specifici.
Per una considerazione complessiva dei fenomeni
religiosi contemporanei, è di utilissima lettura l'efficace ed agile
saggio di Pace E. - Stefani P., Il fondamentalismo religioso
contemporaneo, Queriniana, Brescia 2000.
Ebraismo
-
Bahbout S., L'Ebraismo, Atlanti Universali
Giunti, Firenze 1994
-
De Benedetti P., Introduzione al Giudaismo,
Morcelliana, Brescia 1999
-
Mello A., Ebraismo, Queriniana, Brescia 2000
-
Loewenthal E., Gli ebrei questi sconosciuti,
Baldini & Castoldi, Milano 1996
-
Stefani P., Introduzione all'ebraismo,
Queriniana, Brescia 1995
-
Stefani P., Gli ebrei, Il Mulino, Bologna 1997
-
Filoramo G., Ebraismo, Laterza, Roma-Bari 1999
-
Heschel A.J., Il Sabato, Rusconi, Milano 2000
-
Sierra S.J. (ed.), La lettura ebraica delle
Scritture, EDB, Bologna 1995
-
Zegdun J., Il Mondo del Midrâsh, Carucci, Roma
1980
-
Biblia, Vademecum per il lettore della Bibbia,
Morcelliana, Brescia 1996
Cristianesimo
-
Perrot C., Gesù, Queriniana, Brescia 1999
-
Fabris R., Gesù di Nazareth, Cittadella, Assisi
19842
Tragan P.-R., La preistoria dei vangeli,
Servitium, Sotto il Monte (BG) 20012
Borghi E. (ed.), Leggere la Bibbia oggi, Ancora,
Milano 2001
Osculati R., La teologia cristiana nel suo sviluppo
storico, I-II, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1996-1997
Sesboüé B., Credere, Queriniana, Brescia 2000
Mc Grath A., Teologia cristiana,
Claudiana, Torino 1999
Waldenfels H., Il fenomeno del cristianesimo. Una
religione mondiale nel mondo delle religioni, Queriniana, Brescia 1995
Moltmann J., Cos'è Cristo per noi oggi?,
Queriniana, Brescia 1995
Gutierrez G., Il Dio della vita, Queriniana,
Brescia 1991
Borghi E., La forza della Parola. Vivere il vangelo
secondo Marco, Paoline, Milano 1998
Id., La responsabilità della gioia. Vivere il
vangelo secondo Luca, Paoline, Milano 2000
Id., Il cuore della giustizia. Vivere il vangelo
secondo Matteo, Paoline, Milano 2001
Osculati R., L'evangelo di Giovanni, IPL, Milano
2000
Islam
a cura di F. Peirone, Mondadori, Milano
1979
Il Corano, a cura di H.R. Piccardo, Newton Compton,
Milano 1996
Mandel G., Il Corano senza segreti, Rusconi,
Milano 19942
Scarabel A., Islàm, Queriniana, Brescia 2000
Filoramo G. (ed.), Islam, Laterza, Bari 1999
Mandel G., Maometto, il Profeta, Mondadori,
Milano 2001
Id., I novantanove Nomi di Dio nel Corano,
Edizioni San Paolo, Milano 1995
Ende W. - Steinbach V., L'Islam oggi, EDB,
Bologna 1991
Baffioni C., Filosofia e religione i Islam, La
Nuova Italia Scientifica, Roma 1997
Straface A., Islam: ortodossia e dissenso,
Lavoro, Roma 1998
Campanini M., Islam e politica, Il Mulino,
Bologna 1999
Guzzetti C. M., Bibbia e Corano. Confronto
sinottico, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1995
Vercellin G., Istituzioni del mondo musulmano,
Einaudi, Torino 1996
APPENDICE
Giovanni Boccaccio
Melchisedech giudeo con una novella di tre anella
cessa un gran pericolo dal Saladino apparecchiatogli
(da Decameron, I giornata, III novella)
Il Saladino, il valore del quale fu tanto che non
solamente di piccolo uomo il fé di Babilonia Soldano, ma ancora molte
vittorie sopra li re saracini e cristiani gli fece avere, avendo in
diverse guerre e in grandissime sue magnificenze speso tutto il suo
tesoro, e per alcuno accidente sopravvenutogli bisognandogli una buona
quantità di danari, né veggendo donde così prestamente come gli
bisognavano avergli potesse, gli venne a memoria un ricco giudeo, il cui
nome era Melchisedech, il quale prestava ad usura in Alessandria, e
pensossi costui avere da poterlo servire, quando volesse; ma sì era avaro
che di sua volontà non l'avrebbe mai fatto, e forza non gli voleva fare;
per che, strignendolo il bisogno, rivoltosi tutto a dover trovar modo come
il giudeo il servisse, s'avvisò di fargli una forza da alcuna ragion
colorata.
E fattolsi chiamare, e familiarmente ricevutolo, seco
il fece sedere e appresso gli disse: «Valente uomo, io ho da più persone
inteso che tu se’ savissimo e nelle cose di Dio senti molto avanti; e per
ciò io saprei volentieri da te quale delle tre Leggi tu reputi la verace,
o la giudaica o la saracina o la cristiana».
Il giudeo, il quale veramente era savio uomo, s’avvisò
troppo bene che il Saladino guardava di pigliarlo nelle parole per
dovergli muovere alcuna quistione e pensò non potere alcuna di queste tre
più l'una che l'altra lodare, che il Saladino non avesse la sua
intenzione; per che, come colui il qual pareva d'aver bisogno di risposta
per la quale preso non potesse essere, aguzzato lo ’ngengno, gli venne
prestamente avanti quello che dir dovesse; e disse: «Signor mio, la
quistione la qual voi mi fate è bella, e a volervene dire ciò che io
sento, mi vi convien dire una novelletta, qual voi udirete.
Se io non erro, io mi ricordo aver molte volte udito
dire che un grande uomo e ricco fu già, il quale intra l’altre gioie più
care che nel suo tesoro avesse, era uno anello bellissimo e prezioso; al
quale per lo suo valore e per la sua bellezza volendo fare onore e in
perpetuo lasciarlo ne’ suoi discendenti, ordinò che colui de’ suoi
figliuoli appo il quale, sì come lasciatogli da lui, fosse questo anello
trovato, che colui s’intendesse essere il suo erede e dovesse da tutti gli
altri essere come maggiore onorato e riverito.
E colui al quale da costui fu lasciato il simigliante
ordinò ne’ suoi discendenti, e così fece come fatto avea il suo
predecessore; e in brieve andò questo anello di mano in mano a molti
successori, e ultimamente pervenne alle mani ad uno, il quale avea tre
figliuoli belli e virtuosi e molto al padre loro obedienti, per la qual
cosa tutti e tre parimenti gli amava. E i giovani, li quali la
consuetudine dello anello sapevano, sì come vaghi d'essere ciascuno il più
onorato tra’ suoi, ciascuno per sé, come meglio sapeva, pregava il padre,
il quale era già vecchio, che quando a morte venisse a lui quello anello
lasciasse.
Il valente uomo, che parimente tutti gli amava né
sapeva esso medesimo eleggere a qual più tosto lasciar lo dovesse, pensò,
avendolo a ciascun promesso, di volergli tutti e tre sodisfare: e
segretamente ad uno buono maestro ne fece fare due altri, li quali sì
furono simiglianti al primiero, che esso medesimo che fatti gli avea fare
appena conosceva qual si fosse il vero; e venedo a morte, segretamente
diede il suo a ciascuno de’ figliuoli. Li quali, dopo la morte del padre,
volendo ciascuno la eredità e l'onore occupare, e l’uno negandolo
all'altro, in testimonianza di dover ciò ragionevolmente fare ciascuno
produsse fuori il suo anello; e trovatisi gli anelli sì simili l'uno
all'altro, che qual fosse il vero non si sapeva conoscere, si rimase la
quistione, qual di costoro fosse il vero erede del padre, in pendente et
ancor pende. E così vi dico, signor mio, delle tre Leggi alli tre popoli
date da Dio Padre, delle quali la quistion proponeste: ciascuno la sua
eredità, la sua vera Legge e i suoi comandamenti dirittamente si crede
avere e fare; ma chi se l'abbia, come degli anelli, ancor ne pende la
quistione».
Il Saladino conobbe costui ottimamente essere saputo
uscire del laccio il quale davanti a’ piedi teso gli aveva, e per ciò
dispose d'aprirgli il suo bisogno e vedere se servire il volesse; e così
fece, aprendogli ciò che in animo avesse avuto di fare, se così
discretamente come fatto avea, non gli avesse risposto. Il giudeo
liberamente d'ogni quantità che il Saladino il richiese il servì; e il
Saladino poi interamente il sodisfece, e oltre a ciò gli donò grandissimi
doni e sempre per suo amico l'ebbe e in grande e onorevole stato appresso
di sé il mantenne.
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