Quintino Cataudella pubblicò nel 1957 La novella greca e lanno seguente una Prefazione al romanzo greco e latino, opere di fondamentale importanza per comprendere il pensiero dell'autore e apprezzare l'impegno della critica italiana nella questione della genesi del romanzo greco.
Cataudella, partendo dal lavoro svolto dal Rohde (1876), che vedeva nella scuole sofistiche del II secolo dopo Cristo il luogo genetico del romanzo, opera, alla luce dei ritrovamenti papiracei e dell'evoluzione della critica al riguardo, uno studio comparativo tra le opere novellistiche dell'età imperiale e le scuole non della Seconda Sofistica, ma di declamazione del I secolo avanti e dopo Cristo. Nelle declamazioni erano proposte e discusse sottili questioni di diritto e prospettate situazioni eccezionali, che tuttavia rispecchiavano, più o meno fedelmente, la vita sociale del tempo. Molte di tali situazioni avevano il carattere di trame di novelle ed è molto verosimile che ad esse si ispirassero e ne traessero spunto; è anche probabile che alcune novelle siano state, più o meno direttamente, ispirate dalle declamazioni. Cataudella si preoccupa allora di rintracciare nel romanzo quegli spunti e quei motivi presenti nelle scuole di declamazione, che costruirono il romanzo stesso e lo costituirono come genere letterario a sé, indipendente dalla pre-novella, che lo aveva alimentato e contenuto nella sua fase più antica.
La novella in origine non differisce dal racconto storico: quando Omero narra le avventure di Odisseo e Penelope, due sposi separati da una lunga serie di peripezie che alla fine si ricongiungono felicemente, secondo lo schema che diverrà tipico del romanzo greco, intende fare, a modo suo, storia; anche Erodoto intende far storia, pure quando narra la voluttuosa e sanguinosa avventura in seguito alla quale Gige pervenne al potere; e storia fa Senofonte, anche quando compone il suo romanzo filosofico sulla figura di Ciro, e quando introduce l'eroica avventura, di amore fedele e di morte, di Pantea e Abradata.
Con questo tipo di racconti si è già alle soglie del romanzo; per giungere ad esso - afferma Cataudella - basterà che gli avvenimenti, i luoghi e i personaggi perdano il rilievo dei loro contorni e la concretezza della loro individualità storica, per confondersi nel vago della maniera e della genericità, dell'anacronismo e delle deformazione della verità storica: questa è la grande novità del romanzo, il fatto che i personaggi e le trame siano di pura invenzione, anche se legati in qualche modo alla realtà di fatti avvenuti.
Per Cataudella questa innovazione nel campo della narrativa fu dovuta all'azione delle scuole di declamazione dei secoli I avanti e dopo Cristo. Per il Rohde, infatti, il romanzo sarebbe nato dalla fusione di racconto d'amore e narrazione di viaggi; ma il romanzo, contrariamente alle ipotesi del critico tedesco, è di qualche secolo anteriore alla Seconda Sofistica e non può perciò dipendere da essa. L'insegnamento nelle scuole di declamazione, invece, lavorava soprattutto sugli exempla ficta, oltre che su esempi fittizi modellati su vicende storiche: a Cataudella interessa allora vedere se nell'evoluzione del concetto di Ἱστορία non abbia influito decisamente l'esempio e la pratica delle scuole di eloquenza.
L'uso delle declamazioni, nel quale si trovano le premesse che favorirono il passaggio dalla storia alla mithistoria, e con ciò l'origine della novella d'invenzione e del romanzo, non nasce con la Seconda Sofistica, sebbene in essa abbia il suo maggiore sviluppo, ma è anteriore ad essa di qualche secolo. In Roma l'uso delle controversiae nelle scuole di retorica risale per lo meno ai tempi di Cicerone, se non prima, ma in Grecia quest'uso è notevolmente più antico: per Filostrato l'iniziatore è Eschine, il fondatore della scuola rodia (389-314 avanti Cristo); per Quintiliano è Demetrio Falereo (345-283). Ma l'uso delle declamazioni nelle scuole di eloquenza è certamente più antico: le tetralogie di Antifonte, anteriori di almeno un secolo a Demetrio Falereo, ne sono una dimostrazione inconfutabile.
Benché la documentazione sull'esistenza dell'uso delle declamazioni anteriormente alla Seconda Sofistica non sia molto ricca, essa è comunque sufficiente per Cataudella a rendere possibile, anche dal lato cronologico, l'interpretazione secondo la quale il romanzo greco sia una forma decaduta di storia, una sua trasformazione nel senso della finzione, sotto l'influsso delle scuole di declamazione.
Ma la critica di Cataudella, che già offre notevolissimi spunti di indagine, non si arresta al Rohde: essa va ad esaminare anche la teoria di un altro illustre studioso italiano, Bruno Lavagnini (1921). Costui suppone che il romanzo sia una elaborazione popolare di leggende indigene, inquadrate nel panorama più ampio della storiografia, e che le fonti siano da rintracciare in cronache locali, cui fu data una redazione scritta. Ma per Cataudella Lavagnini si è limitato all'individuazione dei materiali genetici del romanzo, non alla loro giustificata concatenazione: il problema delle origini del romanzo non è solo di identificare la sostanza narrativa e di indicarne la provenienza, ma di vedere come questa materia diventi romanzo.
Questa esigenza è ricollegata da Cataudella al lavoro di Kerényi (1927), che interpretò le vicende della coppia divina egizia Iside - Osiride come il carattere fondante del romanzo greco: per Kerényi le peripezie delle due divinità sarebbero modelli del travagliato svolgimento della storia d'amore dei protagonisti del romanzo. Ma la complessità di tale teoria genetica risiede nella quasi impossibilità di reperire prove che giustifichino tale rapporto di derivazione; inoltre il romanzo non avrebbe avuto bisogno di ricercare al di fuori della letteratura i motivi e i modelli delle sue fasi originarie, quando davanti a sé si paravano schemi formali già affermati. Non trascurabile è poi la possibilità che l'interpretazione religiosa dell'origine del romanzo porti in superficie un elemento periferico e svii l'attenzione dal rinvenimento di basi più solide sulle quali fondare la nascita del romanzo. Cataudella parla allora di leggenda sì sacra, ma ormai svuotata del suo significato mistico e religioso, secolarizzata e indipendente dalla vicenda di Iside e Osiride: è la fiaba di Amore e Psiche, la storia di due giovani amanti separati per un destino ostile attraverso insidie, trame e vendette, che poi si ricongiungono in seguito ad una serie di prove alle quali uno dei due amanti è stato sottoposto per volere di una divinità offesa o trascurata. Negli amanti si possono allora vedere le figure delle due divinità egizie, nelle prove le peripezie di Iside, nel dio offeso Set. Così facendo, però, ancora una volta si fornisce solo una fonte, o forse la fonte, sulla quale il romanzo si impiantò e crebbe. Cataudella, alle obiezioni di chi affermi la necessità dell'interpretazione di Kerényi in conformità alla schematicità dell'impianto narrativo del romanzo, oppone la tesi secondo la quale i τόποι romanzeschi si sarebbero codificati a causa del favore che il pubblico mostrava nei confronti di questi stessi: inutile sarebbe allora accanirsi su di una teoria difficilmente dimostrabile.
Da ultimo, Cataudella esamina la teoria di Weinreich (1950), il quale vide nell'epica il momento genetico del romanzo greco; ma, come osserva il critico italiano, l'epica è indissolubilmente legata al mito, e questo non può certo aver permesso all'autore dei romanzi la possibilità di staccarsi definitivamente da un impianto codificato di convenzioni narratologiche, per portarsi sul nuovo e diverso scenario del romanzo. A Cataudella interessa come si passò dal mito all'invenzione, trapasso che il Weinreich non approfondì: questo fu dovuto, forse, alla stessa ragione per la quale anche la tragedia abbandonò l'originaria materia dionisiaca, ovvero a causa del rapido esaurimento degli elementi mitici legati a quel culto.
Ma anche questa ipotesi non soddisfa Cataudella. Egli, in definitiva, propone come più probabile la teoria secondo la quale il romanzo nacque dalle scuole di declamazione del I secolo avanti e dopo Cristo, dall'esigenza profonda dell'uomo ellenistico di astrarsi dal presente e di rivolgere la propria attenzione ad un mondo altro, fittizio, di pura invenzione, che lo sollevasse dall'horror vacui che la decentralizzazione degli imperi gli rendeva insostenibile.