SUHA
La sera del 27 ottobre il mondo palestinese è scombussolato dalla notizia del malessere accusato da Yasser Arafat mentre sta cenando nel suo fortino a Ramallah.
Dopo due giorni, il rais insieme alla moglie Suha sale a bordo di un elicottero che lo porta ad Amman ed in seguito con un aereo speciale raggiunge Parigi, dove viene ricoverato all’ospedale militare di Percy di Clamart.
Secondo la costituzione francese solo la moglie legittima di un paziente in coma può deliberare in merito ai provvedimenti da adottare ed alle notizie da diffondere riguardo alle condizioni di salute, perciò tutto il potere decisionale si trova nelle mani di Suha che non decide di non consentire che Arafat riceva una visita da parte dei suoi consiglieri.
Lunedì 8 novembre il premier Abu Ala , il suo Ministro degli Esteri Nabil Shaath ed il Gran Tessitore della politica palestinese Abu Mazen volano finalmente da Arafat.
Ufficialmente lo scopo è di visionare lo stato effettivo delle sue condizioni e di consultare i medici, in realtà le voci dei corridoi di Ramallah mormorano che il vero intento è quello di stabilire il destino del corpo, se riportarlo a casa, mandarlo in Egitto per nuove cure o lasciarlo morire.
Martedì 9 novembre Suha Tawil fa valere i suoi diritti sulla privacy garantiti dalla legge francese, rilasciando un’intervista alla televisione araba Al-Jazeera, nella quale dichiara che Abu Mazen e gli altri leader dell’Autorità palestinese “vogliono seppellire Arafat vivo.”
Ma qual è la vera ragione per la quale la consorte del rais avrebbe compiuto questo gesto?
È possibile concepirlo come lo sfogo irrazionale di una moglie disperata , o il cinico tentativo di una moderna Lady Macbeth di trattenere un potere che le scivola via dalle mani?
Salah Tamari, il rispettato deputato di Ramallah replica con le lacrime agli occhi che non riesce a darsi una spiegazione per la volgare affermazione di Suha, dal momento che gli “accusati” hanno condiviso per decenni le stesse battaglie, la vita, la morte, la notte ed il giorno.
In questo modo ora che i suoi occhi non possono più vedere e che le sue orecchie non possono più sentire, Abu Ammar potrebbe capire molto della sua litigiosa corte trasferitasi a Parigi.
Infatti attorno al suo capezzale amici e nemici parlano e discutono liberamente, stringono patti ed inedite alleanze senza più celarsi dietro una maschera.
Da un lato vi è lo stato maggiore di Arafat, i suoi consiglieri e Leila Shaid, la sua ambasciatrice in Francia, dall’altro la moglie Suha che ha trovato un sostegno nell’ex ministro degli Esteri palestinese Farouk Khaddoumi, che da quindici anni dimora a Tunisi in seguito all’esilio del rais.
Da un sondaggio fra il popolo palestinese che riporta l’opinione delle persone in merito al palese attacco della consorte di Arafat sferrato nei confronti dei possibili successori, risulta che esso si schiera contro Suha.
Ma questo non stupisce, infatti l’astio nei confronti della donna ha radici ben più antiche.
Fin da quando la sua figura si era avvicinata al rais, essa era stata guardata con diffidenza per molte ragioni, fra le quali quella di essere stata precedentemente cristiana prima di convertirsi all’Islam, quella di essere troppo diversa, ambiziosa e vistosa e soprattutto di quella di spendere il denaro con troppa facilità.
Ma l’elemento che ha scatenato la rabbia dei palestinesi è stato l’abbandono verso suo marito in un momento lugubre della sua vita, ossia l’Intifada, durante la quale Suha dimorava in alberghi a cinque stelle, mentre il popolo pativa la fame e subiva guerriglia.
La popolazione palestinese chiede che il potere venga esercitato da coloro che il rais ha consultato nei momenti più drammatici che individua come i suoi legittimi successori.
Infatti Yasser Arafat è considerato un leader politico piuttosto che un marito, perciò appartiene al suo popolo e le decisioni che riguardano la sua vita devono essere prese della comunità.
Sebbene non siano chiare le ragioni, Suha cede alla ragion di Stato, ritira le accuse e lascia il potere alla leadership palestinese.