PROBLEMI DI SUCCESSIONE

 

 

A causa del vuoto di potere causato dalla morte di Yasser Arafat, anima della Palestina, in questo paese stanno avvenendo numerosi incontri tra il suo braccio destro e gli altri dirigenti dell’OLP per riuscire a colmare la mancanza di un potere centrale, del quale non può fare a meno.

Ad un ex-mediatore delle due fazioni fu domandato cosa potrà accadere dopo la morte del leader palestinese; quest’ultimo rispose che il vuoto sarà psicologico prima che di potere, aggiungendo che la classe dirigente palestinese dovrà individuare alcuni candidati alla successione più presto possibile per evitare attentati da parte di Hamas.

Tuttavia la previsione del mediatore non si è allontanata molto dalla realtà poiché si è già provveduto alla ridistribuzione dei poteri, durante l’agonia di Arafat, e i leader Abu Mazen e Abu Ala stanno organizzando un triumvirato per la disposizione amministrativa che deterrà il potere sino alle elezioni presidenziali del 9 gennaio 2005. È opinione comune che la carica di Arafat sarà rivestita dall’impopolare Abu Mazen, il probabile candidato unico del potentissimo partito della Cisgiordania, il Fatah. Tuttavia i radicali del Fatah vorrebbero candidare Marwan Barghouti, il teorico della seconda Intifada, che attualmente sta scontando in una prigione israeliana cinque ergastoli per terrorismo, e ne chiedono la liberazione.

Una domanda non meno complicata della successione a “Mr Palestine” riguarda chi potrà recarsi alle urne; gli U.S.A. premono su Israele al fine di mobilitare anche i cittadini palestinesi di Gerusalemme-est, anche se il governo è contrario. La questione è ancora aperta.

Quello che segue è il frutto di una piccola rassegna stampa, operata tra giornali di diversi schieramenti politici, al fine di raggiungere una visione globale e non parziale degli avvenimenti che stanno interessando la Palestina.

Arafat viene univocamente considerato, seppure alcuni lo aborriscano e lo chiamino terrorista, mentre altri hanno una visione più positiva di lui, come anima della Palestina, paese che, ovviamente, dopo la sua scomparsa è preda di incertezza politica.

 

                                           

 

                                           

 

 

 

PRIMA DELLA MORTE

 

Un berretto di lana e un pigiama grigio hanno sostituito la tradizionale kefia e l’uniforme militare color kaki: l’immagine, scioccante, è certo ben diversa da quello del vecchio leone, dell’eterno soldato. Solo lo sguardo resta determinato. Il viso sempre sorridente mentre le mani continuano a stringere quelle dei compagni e di consiglieri venuti a visitarlo nella Muqata, trasformata in residenza sotto controllo. Solo la malattia è riuscita a metter fine ad un assedio imposto da Israele da circa tre anni. I concittadini sembrano avergli perdonato i suoi innumerevoli errori poichè, a dispetto di tutto, Arafat continua ad incarnare la loro lotta, il loro destino. Le preoccupazioni sulla sua sorte si accompagnano alle inquietudini sulla situazione poltitica nei territori occupati. Non ha nominato nessun successore, forse pensando di non trovarsi di fronte all’ultima battaglia. Tuttavia il problema della successione domina la scena. Molti si interrogano sul futuro e temono soprattutto il caos. La scomparsa di Arafat si configurerebbe propizia al gioco al rialzo in ambedue gli schieramenti. Non si esclude uno scenario fratricida, dominato dalle fazioni palestinesi in lotta, nel tentativo di rompere l’unità, seppur fragile, che il capo dell’OLP ha saputo fino ad oggi preservare. Infatti nessuno incarna, come lui, una duplice legittimità: quella dell’OLP e quella dell’Autorità palestinese, quella dei palestinesi dell’interno e quella dei profughi. La sua scomparsa scatenerebbe prassi di violenza e lascerebbe un vuoto non facilmente colmabile. Di contro, per il quotidiano Maariv, lo shok della sua scomparsa potrebbe "unire i palestinesi", senza dare origine ad anarchia o caos. Uno scenario all’israeliana dunque: la partenza di Arafat, seppur momentanea, potrebbe offrire una possibilità alla pace, poichè in questi ultimi anni egli rappresentava l’alibi per Sharon a non impegnarsi in negoziati con i palestinesi. L’alibi verrebbe ora a cadere e il trasferimento dei poteri dalla vecchia alla nuova generazione, frenato dallo stesso Arafat, si produrrebbe dunque in modo immediato.  Presso i palestinesi, come pure nel mondo arabo, molti sono coloro che temono i progetti israeliani. Arafat rappresenta l’ultimo bastione capace di fronteggiare  coloro che vogliono uccidere il processo di Oslo, bloccando i negoziati. E’ comunque difficile ai loro occhi immaginare la successione di chi, per più di quarant’anni, ha incarnato la loro causa. Si fanno comunque dei nomi: Abu Mazen, ex premier, o Barghuti, capo del Fatah in Cisgiordania; c’è invece chi preferirebbe l’attuale premier Abu Alaa, o, ancora, l’ex capo della sicrezza, Dahalan. Oppure una soluzione più classica che, secondo la Costituzione, prevede che il presidente del Parlamento, Fatuh, assuma l’interim per 60 giorni. Attualmente però a dominare è lo status quo: l’ex premier e numero due dell’OLP, Abbas, in quanto segretario generale dell’organizzazione garantisce l’interim, riunendo, per la prima volta in 40 anni senza Arafat, il Comitato esecutivo dell’OLP, cercando di mostrare un fronte palestinese unito ed evitando di fare nomi poichè ciò evocherebbe nei palestinesi il ricordo del momento in cui israeliani e americani cercavano di imporre un successore definito da essi stessi "interlocutore valido per la pace". Tutti parlano del Fatah, tutti i nomi dei candidati si originano in questa organizzazione. Non si parla né di Jihad né di Hamas (oggetto delle mire israeliane) e nemmeno del Fronte popolare di liberazione della Palestina (considerato poco rappresentatitivo e poco popolare). I loro rappresentanti non si fanno vedere in pubblico e non sono certo ben visti in qualità di capi di Stato: guiderebbero forse la Palestina da un luogo segreto? Certo, gli stessi palestinesi hanno ormai infranto un tabù. E’ la situazione che lo ha imposto: eppure il caso è stato aperto e non è pronto per esser chiuso. La successione si annuncia dunque come un processo ad alto rischio che vede, come argomento di attualità, il ritorno di Arafat o la sua stessa sepoltura.

 

 

 

 

DOPO LA MORTE

 

Si profila una sfida tra l'ex-primo ministro palestinese Abu Mazen (alias Mahmud Abbas), 69 anni, e Marwan Barghouti, 45, popolare capo di al-Fatah in Cisgiordania, alle elezioni del prossimo 9 gennaio per designare il successore di Yasser Arafat alla guida dell'Autorità nazionale palestinese (Anp). Il primo è stato indicato ieri dal Comitato centrale di al-Fatah, mentre l'altro si trova in un carcere israeliano dove sta scontando cinque ergastoli, e ufficialmente non ha ancora reso noto la propria posizione. Secondo il quotidiano israeliano Maariv, Barghouti avrebbe scritto dal carcere facendo sapere di volersi candidare.

Oggi - aggiunge il giornale Haaretz - la "giovane guardia" dei tanzim palestinesi ha fatto sapere di voler sostenere Barghouti, che secondo molti è il personaggio più popolare tra la sua gente. Mazen, invece, è visto con favore dalla comunità internazionale, in quanto è considerato un moderato, ma non gode dello stesso sostegno di Barghouti tra i palestinesi. La sua nomina è stata proposta dall'organo centrale del partito, composto soprattutto dalla 'vecchia guardia' e dovrà essere ratificata dal Consiglio rivoluzionario di al-Fatah giovedì prossimo, nel quale potrebbero emergere divergenze di posizioni. Il ministro degli Esteri palestinese, Nabil Shahat, ha chiesto a Barghouti di non prendere parte alle elezioni di gennaio, affermando che "avrà un importante ruolo in futuro". Arafat, morto lo scorso 11 novembre, racchiudeva in sé tre cariche: presidente dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (ora affidata pro-tempore allo stesso Mazen), leader di al-Fatah e presidente dell'Anp.

Clinicamente morto o in stato vegetativo, il vecchio leader palestinese ha dovuto smettere la sua divisa da capo militare e morale di un popolo. Gli alti funzionari palestinesi si erano già riuniti nella mattina a Ramallah, in Cisgiordania, in un incontro d’emergenza convocato dopo le prime notizie sul peggioramento delle condizioni di salute del loro leader. Ormai la successione ad Arafat, anche presidente dell’Olp, era un problema comunque da risolvere per le fragili gerarchie dell’Autorità nazionale palestinese.

Ma come è noto Yasser Arafat non nominò mai ufficialmente un vice e la legge Fondamentale del Consiglio legislativo palestinese prevede un iter preciso che, pur concedendo al presidente del Consiglio (attualmente Rawhi Fattouh) i poteri, lo fa per solo 60 giorni al termine dei quali dovranno essere indette delle elezioni.

La successione sarà un capitolo difficile, un iter che probabilmente vedrà premiato (o autonominato?) un moderato, Abu Ala o Abu Mazen, non fa differenza, perché entrambi vanno bene agli Usa e alla leadership israeliana.

Tel Aviv è infatti ansiosa di potersi confrontare con dei capi deboli e privi del riconoscimento popolare.

L’unico uomo carismatico che potrebbe in parte raccogliere l’eredità, tutta simbolica, di Arafat potrebbe essere Marwan Barghuti, il leader Tanzim, membro del Consiglio legislativo palestinese e segretario generale in Cisgiordania di Fatah.

Ma Barghuti è rinchiuso in un carcere israeliano con una condanna all’ergastolo Egli era l’ultimo superstite della “vecchia guardia” dell’Olp, di quella mentalità combattiva che comunque aveva lottato per assicurare ai palestinesi una terra in cui vivere in pace.

 

 

 

 

Yasser Arafat rimane un simbolo, il capo riconosciuto, finora l’unico, della comunità palestinese.