IPOTESI PER IL FUTURO

 

 

In un'intervista pubblicata sull'Unità il 13 febbraio 2004, Shimon Peres illustra la proposta di far entrare Israele, Palestina e Giordania nell'Unione europea. La proposta era stata discussa in un incontro avvenuto a Tel Aviv, nella sede del Partito laburista, da Shimon Peres .D'Alema si è fatto promotore della proposta; su Panorama l'aveva presentata in questi termini: "ho lanciato l'idea di una associazione speciale all'Unione Europea di Israele, Palestina e Giordania, e di stabilire un legame con la Nato di Egitto e Iraq, secondo la formula della partnership for peace". Adriano Sofri, uno dei commentatori che hanno sempre sostenuto l'entrata di Israele nell'Ue, ha ripreso più o meno la formula di D'Alema l'auspicio dell'ingresso di Israele nell'Unione Europea

La novità è che questa volta si propone l'ingresso in Europa non solo di Israele, ma anche della Palestina - si ipotizza la nascita imminente di uno stato palestinese ("nascerà prima di quanto si pensi", dice Peres) - e della Giordania. Sorge però il sospetto che la Giordania sia coinvolta da Peres nel suo piano con la speranza che serva da territorio dove scaricare i palestinesi in esubero, i profughi che Israele non vuole o, addirittura, tutta la popolazione araba attualmente residente tra il Mediterraneo ed il Giordano.

Un anno fa, Jeff Halper (attivista della sinistra israeliana più radicale, coordinatore del «Comitato israeliano contro la demolizione delle case» e professore di antropologia. aveva avanzato la proposta di una "Confederazione del Medio Oriente") che delineava una soluzione regionale del conflitto israelo-palestinese: una confederazione che comprendesse Israele e i paesi arabi circostanti, primo fra tutti lo stato palestinese da costruire. Il processo di unificazione sarebbe dovuto avvenire in due fasi: una prima fase in cui si doveva realizzare il ritiro dei coloni e la fine dell'occupazione dei territori palestinesi, la fine delle violenze da entrambe le parti, la nascita dello stato palestinese in tutta l'estensione dei territori oggi occupati e il suo riconoscimento da parte di Israele, la democratizzazione dei vari paesi dell'area (Giordania, Libano, Siria, Egitto), l'instaurarsi di un clima di fiducia fra Israele e questi paesi, ecc. Nella seconda fase, con l'integrazione dei singoli paesi in un'unità più ampia, si sarebbero ottenuti vantaggi economici, sociali, politici oggi impensabili. In realtà la proposta era molto interessante ma allo stesso tempo debole, perché si dovevano ipotizzare troppi passi, ognuno di per sé quasi impossibile, si dovevano superare troppe diffidenze e ostilità, prima di ottenere i benefici che avrebbero giustificato la decisione di affrontare quell'avventura.

Secondo diverse fonti Halper stesso si è accorto che quella sua proposta non è realistica nelle attuali condizioni e ha preso -a malincuore e quasi per disperazione- una nuova posizione, a favore di uno stato unico democratico e laico in Israele/Palestina.

Secondo noi il progetto era molto stimolante ma, così com'era formulato, non poteva funzionare. C’è per esempio chi suggerisce una soluzione di questo tipo: la prima fase rimaneva quella descritta da Halper (fine dell'occupazione, nascita dello stato palestinese, democratizzazione ecc.); ma essa sarebbe stata fortemente incentivata se la seconda fase fosse consistita nell'ingresso congiunto e contemporaneo di Israele e Palestina, magari insieme con altri paesi della regione, non in una Confederazione mediorientale povera e tutta da costruire, ma nell'Unione Europea, già esistente, solida e ricca, che si stava dando una costituzione democratica, e che sicuramente esercitava un forte potere di attrazione anche verso molti paesi non europei (come la Turchia, la quale però sarà ammessa solo se accetterà in pieno le condizioni poste dall'Ue su democrazia, diritti umani ecc.; e questo è un precedente importante).

In effetti, la proposta di far entrare un gruppo di paesi mediorientali in Europa e che Peres avanzò autorevolmente come capo dell'opposizione d'Israele, non è assurda, anche se non sarà facile che diventi operativa in tempi brevi.

E' vero che l'attuale dirigenza israeliana, se da una parte tiene molto a una stretta collaborazione economica, scientifica, culturale con l'Ue, dall'altra diffida di alcuni paesi europei che appoggiano le rivendicazioni palestinesi, e preferisce l'alleanza con gli Usa, che oltre a un sostegno politico praticamente senza condizioni, assicurano un forte aiuto economico e militare. Però questo non vale per tutti gli israeliani. A molti di loro forse non piace l'idea di essere protetti dai fondamentalisti cristiani di Bush che per motivi religiosi (e razzisti) vedono di buon occhio la concentrazione degli ebrei in un lontano "ghetto" circondato da nemici. Ma molti israeliani possono non essere soddisfatti di un'alleanza in cui Israele funge da "cane da guardia" -con tutti i rischi che questo comporta- nei riguardi dei paesi arabi circostanti per conto degli Stati Uniti (ad esempio, compiendo lavori "troppo sporchi" anche per la Cia), e gli Usa lo ripagano appoggiandolo nei suoi comportamenti peggiori, di aggressione e oppressione, e non aiutandolo a trovare un accordo con i vicini che permetta una sua integrazione pacifica nella regione.

Occorre chiedersi a questo punto se l'Europa è davvero disponibile ad allargarsi fuori dai suoi confini geografici, verso paesi con tanti problemi non risolti. Alcuni pensano che sia stato già difficile assorbire i nuovi 10 paesi dell'Est europeo, temono un'immigrazione massiccia e proposero misure "antinvasione" per limitare la circolazione dei lavoratori; Prodi, il grande artefice dell'allargamento, si raccomandò di non cedere a paure secondo lui infondate (infatti i pochi immigrati che si ipotizzano non rimarranno a lungo: una volta fatti un po' di soldi, torneranno nei loro paesi ormai avviati allo sviluppo).

A queste e altre obiezioni si può rispondere:

Il pericolo di una ondata immigratoria pericolosa per l'Unione, se ha poco senso per i 10 paesi che entrano a maggio, ne ha ancora meno nel caso di Israele/Palestina. Probabilmente solo una piccola parte dei palestinesi vorrà lasciare il proprio paese riconquistato e liberato, tutto da ricostruire, e per gli ebrei la tendenza sarà forse addirittura inversa: quelli di origine europea già oggi potrebbero stabilirsi in Europa, e in molti l'hanno fatto; sono in effetti 760.000 gli Ebrei israeliani che hanno lasciato Israele. Ma una volta che il paese avesse ritrovato un clima di pace e sicurezza, l'emorragia potrebbe arrestarsi.

Ci si può anche chiedere: perché l'Europa dovrebbe aprirsi ai paesi del Medio Oriente che non sono europei? E perché a questi e non ad altri paesi del Mediterraneo come il Marocco o la Tunisia? Si può rispondere che Israele in realtà è un'appendice dell'Europa: gran parte dei suoi abitanti ebrei viene da paesi europei, Russia compresa, e probabilmente Israele non esisterebbe nemmeno se questi da secoli non avessero perseguitato e oppresso gli Ebrei. Inoltre, furono i grandi paesi europei insieme agli Stati Uniti a decidere di usare la Palestina per indennizzare in qualche modo gli Ebrei dopo la Shoà. Ne è derivata la Catastrofe per i palestinesi, cacciati con la violenza dalla loro terra, e una vita sempre in trincea per gli israeliani. Dunque l'Europa è in debito con gli uni e con gli altri; se ora vuole aiutarli a risollevarsi può farlo solo accogliendoli al suo interno, ma non sradicati dal loro contesto: la loro integrazione sarà più completa ed efficace se comprenderà altri paesi legati alla Palestina storica.

fra i candidati a futuri ingressi ci sono paesi turbolenti o con grossi problemi: Croazia, Turchia, ecc.; eppure molti paesi appoggiano queste candidature. "La Turchia - scrive Prodi - ha fatto grandi passi sul tema delle riforme, abolendo l'uso della tortura, facendo progressi nella libertà di religione, espressione e associazione e ridefinendo il ruolo delle forze armate nel sistema politico''. La mole di lavoro svolto dalla Commissione sotto la guida di Prodi ha permesso di arrivare a risultati straordinari per un'integrazione non solo economica ma anche giuridica, amministrativa, democratica. Di risultati analoghi potrebbe beneficiare il Medio Oriente.

Anche all'Europa allargarsi a un nuovo mercato e garantirsi un'area amica e pacifica ai suoi confini meridionali porterebbe vantaggi considerevoli.

Si potrebbe dunque prospettare un doppio processo di integrazione dei vari paesi del Medio Oriente: integrazione (magari in forma di federazione) fra Israele, Palestina, Giordania, Libano, Siria ecc., che ricostituirebbero così quell'unità regionale disgregata nel corso della storia (la geografia della zona è stata disegnata artificialmente dai paesi coloniali in base ai loro interessi), e l'ingresso di ognuno di essi, individualmente o in gruppo, nell'Ue.

Il riferimento all'Europa potrebbe dare a ognuno dei paesi coinvolti la sicurezza di non essere solo di fronte ai paesi vicini finora considerati nemici, e quindi favorire la creazione di quell'area regionale di cooperazione pacifica che Jeff Halper nel suo primo articolo indicava come essenziale per la sua crescita nel campo dell'economia, dello sviluppo sociale, culturale, della democrazia, ecc. Questa nuova situazione potrebbe anche aiutare a superare le chiusure nazionalistiche proprie dei piccoli stati in concorrenza fra loro e in prospettiva aprire la possibilità di una loro integrazione più organica. In particolare per Israele e Palestina, che hanno ormai economie, territori e popolazione intrecciati fra loro e non facilmente districabili (lo dimostra il disastro e l'assurdità del muro con cui Sharon tenta di separare i due popoli), potrebbe innescare un processo di formazione di uno Stato unico, laico, democratico e pluralista, che riconoscesse a tutti i suoi cittadini uguali diritti e pari opportunità, e allo stesso tempo assicurasse a ogni minoranza nazionale e a ogni comunità religiosa, sociale, o che comunque tenga a una sua identità specifica, la possibilità di svilupparsi autonomamente e con tutte le garanzie necessarie nell'ambito dello stato comune. L'Europa sarebbe una garanzia per ognuna di queste minoranze e potrebbe rendere possibile una convivenza che oggi appare improponibile.

Una conseguenza positiva dello "stato unico" potrebbe essere da una parte il superamento delle grosse difficoltà in cui si dibatte oggi la democrazia israeliana, ossessionata dai problemi demografici (dovuti alla grande prolificità della popolazione araba e all'impossibilità di mantenere uno "Stato Ebraico" in presenza di una numerosa popolazione non ebraica) e alle prese con una popolazione disomogenea alla quale non vuole riconoscere uguali diritti; dall'altra una soluzione del problema dei profughi palestinesi, per i quali non dovrebbe più esserci alcun impedimento a ritornare nei loro luoghi d'origine.

Nella presentazione di Sofri, il progetto -come abbiamo visto- era di "ingresso" per Israele e di "associazione peculiare" per la Palestina. Dobbiamo analizzare a fondo le proposte avanzate e scoprire se l'uso di questa terminologia nasconde qualche trabocchetto: se tutto ciò significa che Israele potrà abbandonare i palestinesi in una condizione disastrosa, racchiusi in un territorio minimo frammentato ("bantustan"), dando loro solo l'illusione di avere uno "stato" associato in qualche modo all'Europa, dovremo combatterlo a fondo.

Forse questo è un falso allarme, ma sicuramente non dobbiamo sottovalutare il pericolo. Infatti l'idea di ingresso in Europa, fin'ora utopistica, potrebbe diventare un fatto reale, o per lo meno un'ipotesi molto concreta in un prossimo futuro, ora che la fa propria l'internazionale socialista, ampiamente rappresentata in Europa e in Israele.

Discuterne fin da oggi vuol dire non farsi trovare impreparati davanti ai rischi che questo progetto può comportare se a prendere in mano la cosa sono certi falsi amici di israeliani e palestinesi (per esempio, mi sembra preoccupante la proposta di far entrare i paesi del Medio Oriente, prima che in Europa, nella Nato. Agli americani invece l'idea piace e la stanno facendo propria). Se intesa nel senso giusto, invece, la proposta potrebbe aprire prospettive nuove e entusiasmanti. Perché questo si verifichi, è necessario che la facciano propria le forze progressiste e pacifiste dei due popoli, e che lottino insieme per realizzarla nel modo corretto. Una condizione imprescindibile su cui esse dovrebbero essere molto ferme e vigili è che prima dell'ingresso di Israele nasca uno stato palestinese indipendente e autosufficiente, che entri in Europa contestualmente con Israele.

Anche per i palestinesi l'Europa rappresenterebbe una garanzia di giustizia: la possibilità che con la sua mediazione, dopo tanti anni di false partenze del processo di pace, finisca davvero l'incubo dell'attuale situazione di occupazione e di repressione violenta, con le "uccisioni extragiudiziarie" eseguite senza risparmiare i civili (quelle minicopie della guerra preventiva che spesso sono servite a vanificare trattative di tregua), le carcerazioni "amministrative" (senza processo) a tempo indeterminato, il coprifuoco, i check points, le distruzioni selvagge, il muro; e la tragedia dei profughi, l'impossibilità di una vita accettabile per generazioni intere. La possibilità che tutto questo finisca e che possa nascere un vero stato indipendente candidato a entrare in Europa potrebbe ridare forza e consenso ai settori più democratici e costruttivi della popolazione, e levare legittimità a chi, nell'attuale lotta impari di fronte a forze troppo superiori, propone una risposta disperata e irrazionale, e quindi controproducente, come quella del terrorismo.