Torna a indice IIIBL'EUROPA E L'ALTRO

 

[...] "J'ai, quelque jour, dans l'Océan,
(mais je ne sais plus sous quels cieux),
jeté, comme offrande au néante,
tout un peu de vin précieux [...]
Sa transparence accoutumée
après une rose fumée
reprit aussi pure la mer...
Perdu ce vin, ivres les ondes!...
J'ai vu bondir dans l'air amer
les figures les plus profondes..."

da: Paul Valéry, Le Vin Perdu - Charmes 1922

Fino agli inizi del Novecento il mondo fu sostanzialmente sottomesso all'egemonia politica, economica e culturale di una sua piccola parte, l'Europa: infatti sempre nel corso dei secoli, da Pericle a Napoleone, questo continente in fondo limitato nelle sue possibilità materiali (popolazione, che nel 1996 era pari al 6-7% di quella mondiale, superficie, risorse agricole o minerali, materie prime) riuscì non solo ad imporre sulle altre civiltà le proprie idee, ma anche a divenire punto indispensabile di passaggio e di elaborazione per qualsiasi pensiero che volesse svilupparsi e concretizzarsi.

La tesi centrale di un'opera di Federico Chabod, Storia dell'idea d'Europa, punto necessario di partenza di ogni riflessione su questo argomento, è proprio questa: che la coscienza europea si è formata e si è consolidata nel confronto con gli altri popoli più o meno "civilizzati" con cui essa nel corso dei secoli si è trovata a dover rapportarsi e nel "senso di superiorità" che di conseguenza si è prodotto nel momento in cui spesso questo "altro" è stato distrutto e sterminato.
L'Europa, sostiene lo Chabod, anche quando si è trovata nei suoi momenti più bui, ha sempre risposto alle difficoltà che incontrava affermandosi ancora di più come unico ed insostituibile motore del mondo, come patria della "libertà contro il dispotismo, del progresso delle scienze contro il tradizionalismo e l'immobilità"; quella che pareva una definitiva crisi morale, dovuta alla presa di coscienza dell'immoralità e dell'atrocità del genocidio delle popolazioni native americane, fu ben presto superata nel momento in cui ci si accorse che comunque la cultura europea rimaneva unica ed insostituibile.

Un grande limite, tuttavia, di questa pur esauriente analisi è di fermarsi alle soglie del nostro secolo: con la fine della seconda guerra mondiale infatti termina un periodo della storia dell'umanità e se ne apre uno nuovo: il capitolo "EUROPA" si avvia necessariamente alla conclusione, dato che la guerra ha visto vincitrici soprattutto due grandi superpotenze non europee (U.S.A. e URSS).

L'esigenza primaria fu allora quella di creare un sistema internazionale che potesse garantire la pace e la collaborazione di tutti gli stati e che stabilisse in definitiva il nuovo assetto politico mondiale. Si creò così da una parte l'ONU, un'organizzazione mondiale che, secondo gli accordi di Yalta del febbraio 1945 avrebbe potuto veramente giocare un ruolo importante grazie all'appoggio delle grandi superpotenze e dall'altra si sottoscrissero gli importanti accordi economici di Bretton Woods (estate 1944) che sancirono la creazione del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale e di un'istituzione atta ad assicurare lo sviluppo equilibrato del commercio internazionale (il GATT, Accordo Generale Tariffe e Commercio), ma che soprattutto garantirono una sostanziale stabilità monetaria, dichiarando il dollaro non svalutabile e sempre convertibile in oro (funzione che fu sempre della sterlina inglese ma che in quel momento significativamente testimoniava ancora di più la definitiva affermazione degli Stati Uniti).

In pratica poi, tradendo il proposito di collaborazione sancito ancora nell'aprile del 1945 a Francoforte, le potenze vincitrici da alleate si trasformarono in rivali e più che l'ONU furono essenziali per il successivo equilibrio mondiale il Patto Atlantico (1949) e il patto di Varsavia (1955) e la determinazione ad usare il potenziale bellico nucleare come deterrente per un eventuale nuovo conflitto.
In questo quadro il "vecchio" continente evidentemente perse il suo ruolo di guida e si trovò a non contare più né militarmente (la guerra fu risolta grazie all'intervento di eserciti esterni), né economicamente (gran parte dell'Europa era infatti ridotta ad un cumulo di macerie), né politicamente (si pensi anche alla fine dei grandi e piccoli imperi coloniali europei, definitiva già intorno agli anni '60).

Pier Virgilio Dastoli, europeista acceso, studioso dei problemi del dopoguerra e grande amico di A. Spinelli, parafrasando il titolo di un film che narrava la distruzione di Berlino e la sua spartizione tra le potenze vincitrici, sintetizzò così questa situazione: per l'Europa quello era "l'anno zero".
A seguito di ciò, e soprattutto nel tentativo di garantire una pace ed un equilibrio duraturi, si è portato avanti fin dal 1945 un processo di "unione" dei vari stati europei, che sta vivendo proprio in questi ultimi anni del secolo i suoi momenti decisivi e sta suscitando molti dibattiti e molti dubbi.

Riprendendo infatti gli spunti già elaborati da Saint-Simon nel 1814 ("Riorganizzazione della società europea"), dal Cattaneo, dal Mazzini o dai Federalisti inglesi agli inizi del '900 (per non citare la grande utopia di Kant sintetizzata nel saggio "La pace Perpetua", del 1795), sorse proprio in seno alla resistenza italiana un movimento che vide come necessario impegno di lotta politica costruttiva la costituzione di una federazione europea (e dall'azione soprattutto di due di questi intellettuali partigiani, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni, nacque nell'estate del 1941, molto prima di poter vedere la stessa Italia liberata, il celebre Manifesto di Ventotene, intitolato "Manifesto per l'Europa libera e unita") .

Sicuramente a tutt'oggi molti passi sono stati fatti nel senso di un'Europa unita, ma è ancora viva la polemica tra chi crede nell'ipotesi "funzionalista" e chi invece propende per un "federalismo" a tutti i costi.
In realtà la differenza è nettissima: la tesi "funzionalista" che riprende le teorie dell'economista Mitrany, e che fu portata avanti soprattutto da J. Monnet, ritiene di poter individuare degli interessi concreti a cui rispondere con delle speciali deleghe comunitarie da parte degli stati membri; si crede quindi che dalla gestione comune di questi singoli problemi (soprattutto di natura economica, come lo sfruttamento del carbone e la gestione dei dazi per le importazioni tra stati) si possa creare una certa unione di intenti, senza però andare ad intaccare la sovranità delle singole nazioni.

La tesi "federalistica", che è già del "Manifesto di Ventotene" e che poi fu caldeggiata da J.Delors, ritiene invece necessario delegare una parte importante della sovranità degli stati membri ad una istituzione comunitaria, che in pratica gestisca autonomamente la politica estera, la politica militare, la politica economica e monetaria. I cittadini sarebbero restati cittadini nazionali, tenuti al rispetto delle leggi nazionali, nell'ambito delle materie di competenza degli stati nazionali; sarebbero stati invece cittadini europei, tenuti al rispetto delle leggi europee, nell'ambito delle materie di competenza federale.

Molti intellettuali oggi hanno elaborato altre teorie sul fondamento istituzionale e sulle competenze dell'Unione Europea, ma sostanzialmente si ricade con qualche modifica nelle suddette impostazioni.

E' interessante però citare la tesi di Ralf Dahrendorf, che in un suo recentissimo saggio sostiene che da una parte i metodi "funzionalisti" (e oggi a questo riguardo si parla tanto dell'Euro, la moneta comune) non porteranno a risolvere i veri problemi che angustiano oggi la società civile europea, quali la disoccupazione, la competitività, la riforma dello stato sociale, la legge e l'ordine e la delusione nei confronti della politica, e che dall'altra non è neppure totalmente auspicabile una federazione che neghi ogni valore e importanza agli stati nazionali, che in fondo rappresentano ancora oggi e soprattutto in una realtà come quella europea, il nucleo primario e fondamentale del rapporto cittadino-istituzione.

Ma a questo punto sono due, a mio parere, gli interrogativi pressanti a cui rispondere oggi, per tentare di capire non solo se e come si dovrà unire questa Europa, ma in definitiva se essa esiste e ha un senso o è solo una denominazione priva di una sua realtà concreta:

1° - E' possibile parlare ancora di un'identità Europea forte (se c'è mai stata)? Cioè: che cos'è oggi l'Europa?

2° - Come questa si vuole inserire nel quadro mondiale?

E' necessario partire dal primo punto.
Analizzando attentamente la storia, si vedrà che il carattere distintivo di questo continente è sempre stato di carattere culturale; si potrebbe dire meglio che lo stesso "pensiero", inteso come capacità di trasformarsi, di evolvere, come "esercizio del possibile" (citando una felice espressione di Paul Valéry, autore di interessanti saggi riguardanti proprio la crisi del pensiero europeo ), ha trovato nell'Europa la sua culla e il suo luogo privilegiato di sviluppo.

L'elemento morale ha sempre prevalso quindi su quello materiale; lo stesso F. Chabod sostiene in effetti che se esiste una "certa somiglianza, una certa aria di famiglia che è impossibile misconoscere" all'interno dell'Europa, è proprio perché "la civiltà europea è varia, anche tempestosa" e in essa "coesistono tutte le forme, tutti i principi di organizzazione sociale, tutte le classi e tutte le situazioni sociali si frammischiano e premono l'una sull'altra": non è certo quindi una questione semplicemente di razza o di omogeneità di atteggiamenti o di risorse; l'uomo europeo è tale in virtù della sua capacità di progettazione, del suo saper desiderare.

Anzi, la differenza nei secoli l'ha fatta il monopolio che l'Europa aveva sul progresso; solo in essa coesistevano quelle tante idee, quei tanti modi di pensare, quel disordine e insieme quel metodo necessari per lo sviluppo della scienza, della filosofia, della teoria economica e politica.

La storia dell'Europa nel mondo è dunque sostanzialmente storia del suo pensiero.
Certo, come dicevamo all'inizio, dall'Impero romano al Commonwealth britannico questa supremazia culturale ha prodotto potenza politica, economica e militare, ma mentre questa è stata per così dire una necessaria conseguenza, quella rappresentava il nucleo forte dell'identità Europea.

Ma ora ci si deve domandare: oggi esiste ancora questa identità? Si può ancora differenziare fortemente l'Europa per una sua particolare capacità culturale, per un suo personalissimo modo di pensare e di progettare?

Certo, molte cose sono cambiate in questi ultimi cinquanta anni: ad esempio, la scienza e la capacità di gestire il progresso in senso moderno e tecnologico hanno trovato la loro sede naturale negli U.S.A., nell'URSS o negli stati asiatici (non a caso mentre le grandi invenzioni e scoperte dell'Ottocento e degli inizi del secolo, come il telefono, la pila o la teoria evoluzionistica sono state europee, le acquisizioni più sorprendenti e moderne, come la conquista dello spazio, lo sviluppo dell'energia atomica o la sperimentazione di nuove tecnologie sono patrimonio di questi grandi paesi). Inoltre molte delle istituzioni politiche, economiche e giuridiche e delle conquiste sociali sviluppatesi in tanti anni di storia del "vecchio mondo" sono state in pochissimo tempo acquisite da gran parte dei paesi che erano colonizzati o risentivano comunque dell'influsso della grande Europa. Insomma il patrimonio di civiltà che un tempo era suo monopolio, ora è stato in larga parte distribuito; il pensiero si è incredibilmente "diluito" e di conseguenza ha perso nella sua sede originaria la sua originale carica demistificatrice e costruttrice.


Citando le parole di Valéry: "La bilancia che prima pendeva verso di noi, nonostante sembrassimo più leggeri, ora comincia a farci salire lentamente, come se avessimo stupidamente fatto passare sull'altro piatto il misterioso supplemento che avevamo" (e che era proprio la qualità della popolazione europea, la sua forza speculativa).

 

Dov'è allora l'Europa oggi? Qual è il senso attuale dell'Europa?
Il progetto di un'unità europea corrisponde ad una realtà sociale, culturale, economica, politica ben definita e caratterizzata?
Insomma l'Europeismo equivale ad una europità viva e chiara (per europità si intende l'essere europeo, in una dimensione eminentemente psicologica e culturale) ?

Pur cosciente dei mutamenti sopra descritti credo che tuttavia l'identità dell'Europa sia ancora, e paradossalmente, nella sua cultura, o meglio nella sua visione del mondo; non tutto si è "diffuso", non siamo ancora omologati agli americani o ai giapponesi (anche se con il "bombardamento" di way of life statunitense degli ultimi 40 anni si stenterebbe a crederlo).

Sono convinto che anzi (e mi devo allontanare dalle posizioni di molti) questo "sincretismo" tutto moderno abbia favorito e sviluppato ancora di più il carattere centrale della cultura europea: l'incertezza.
Questa incertezza va certo vista in senso positivo, come continua curiosità, come saggezza, come senso del relativo e dell'importanza di ogni singola cosa, come coscienza di avere "sulle spalle" secoli di tentativi e di errori, come scetticismo costruttivo.

E' la capacità di vedere nell'altro un essere autonomo e difficilmente conoscibile nella sua irrazionalità: il mio prossimo non è solo qualcosa che si definisce in rapporto alla mia coscienza, ma devo saper cogliere anche la sua irripetibilità.
E' questa dunque una conquista veramente importante e direi anzi che questo modo di pensare si è rafforzato molto, proprio grazie alla crisi che sopra si analizzava: la sensazione di essere onnipotenti di fronte al mondo aveva invece portato l'Europa ad essere cieca nei confronti della diversità, così da vedere nel "diverso" un nemico da sterminare (e il genocidio degli ebrei ad esempio, è stata una delle reali conseguenze di questo modo di pensare).

Ecco dunque l'Europa, ecco che la storia di questo continente sarà ancora storia del suo pensiero.
Certo questa incertezza andrà bene gestita, perché non si trasformi in vera insicurezza e indecisione, ma certo costituisce oggi il patrimonio più prezioso e il carattere precipuo dell'Europa.

E' chiaro quindi (e così si risponde anche alla seconda delle questioni poste all'inizio del nostro discorso) che l'Europa non dovrà con la sua unione creare un muro intorno a sé per proteggersi e per isolarsi ancora una volta, ma dovrà imporsi con forza di collaborare all'ordine mondiale mettendo al servizio di esso le proprie peculiari possibilità .

L'Unione Europea ha un senso solo se in questo modo si darà più forza e più incisività al nostro personalissimo modo di pensare, facendo sì che esso possa ancora fungere da coscienza del mondo. E' per questo che non dobbiamo dimenticare le nostre radici culturali, che oggi invece spesso non sono più tenute nella giusta considerazione e vengono addirittura spogliate della loro spesso forte carica critica.

A questo proposito è molto chiara ed interessante la posizione di J.Derrida che, ragionando sulla crisi della cultura europea, scrive: "penso alla necessità di una nuova cultura che inventi un altro modo di leggere ed analizzare Il capitale, il libro di Marx e il capitale in genere...evitando insieme la terrificante dogmatica totalitaria a cui alcuni fra noi hanno saputo resistere, ma anche, e simultaneamente, il controdogmatismo di chi si insedia oggi, a destra o a sinistra, sfruttando una nuova situazione, e speculandoci sopra sino a bandire la parola capitale, e addirittura la critica di certi effetti del capitale o del mercato, come diabolico residuato del vecchio dogmatismo" .

Citando la strofa finale del Cimitero Marino di Paul Valéry : "Si leva il vento!...E di nuovo, la vita! (in francese il poeta scrive: "Il faut tenter de vivre")...Volate via pagine abbacinate! Rompete onde! Rompete acque inebriate quel tetto quieto ove beccavan flocchi" .

Come dire: bisogna vivere accettando la propria problematicità, il proprio essere europeo, che può ancora dare molto al mondo se conserva il proprio carattere costitutivo.

Che è proprio quella INCERTEZZA che si è cercato di individuare e di definire.

Giacomo Biraghi

 

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