"Non,
non! ... Debout! Dans l'ère successive! Da: P. Valéry, Le cimetière Marin XXII - XXIII - XXIV |
Dire che cos'è oggi l'Europa è difficile: forse perché è un
concetto troppo astratto, forse perché nessuno sa darne una
definizione.
Per un Italiano l'Europa è un continente in cui non si accorge nemmeno di vivere, per un
americano è un pezzo di terra con una lunga storia alle spalle, con una profonda crisi
che l'ha cambiata.
La crisi militare è forse terminata, quella economica è visibile in tutta la sua forza, ma la crisi intellettuale, la crisi della coscienza, consente difficilmente di cogliere il suo vero nodo. L'Europa già nei secoli XVII-XVIII risentiva di questo profondo malessere. A questo proposito nel 1936 P. Hazard pubblicò un libro dal titolo Crisi della coscienza europea. Hazard circoscrive tale fenomeno ad un periodo di tempo molto ristretto di soli trent'anni: egli pensa che l'Europa dal 1680 al 1714 abbia attraversato una crisi così profonda, da provocare un'incrinatura della cultura europea e quegli sconvolgimenti ideologici che sfoceranno nella Rivoluzione francese.
Dunque l'Europa prima di tale crisi aveva una propria identità, e
coscienza: e Hazard identifica quest'ultima con il cogito cartesiano, cioè con
quell'insieme di certezze su cui si fonda il pensiero europeo.
Cartesio aveva dato alcune certezze all'uomo, che aveva perso ogni punto di riferimento,
ma anche il suo sogno crolla ("Dio è morto": Nietzsche con questo celebre
aforisma affermava la fine della metafisica occidentale), svanisce il sogno della
razionalità che era l'unico sostegno dell'uomo europeo, lasciato in balia di nuove forze,
quali la volontà, la morte.
Hazard commette il grande errore, come afferma Vernière, di pensare che la crisi della coscienza europea sia un fenomeno legato solo a quei trenta anni: in realtà è l'Europa stessa che si trova in una situazione di crisi, in quanto categoria strutturale di questo continente.
Ciò che importa è che l'Europa dopo ogni crisi abbia sempre ritrovato la propria identità, per essere ciò che è veramente: "la parte preziosa dell'universo terrestre, la perla della sfera, il cervello di un vasto corpo" . Paul Valéry pubblica nel 1919 l'opera appena citata, in cui cerca di spiegare che cosa la guerra abbia comportato per l'Europa e come ne abbia messo in crisi l'identità. La prima guerra mondiale ha imposto all'Europa l'esperienza della propria finitezza: "Noi, la civiltà, ora sappiamo che siamo mortali" . L'uomo che sempre aveva cercato di nascondere il negativo, la morte, rifugiandosi nella certezza dell'immortalità, ancora una volta vede crollare i suoi punti di riferimento. "Ora sappiamo che siamo mortali" perché la guerra ha imposto all'uomo europeo lo spettacolo del massacro e della morte: egli non poteva più pascere la sua anima di favole intorno a grandi eroi immortali: la vita era lì davanti ai suoi occhi, dono fragile che vedeva spegnersi troppo in fretta. "Noi, la civiltà" perché grandi pensatori e grandi popoli sono sorti in Europa, in questo continente così vecchio, così ricco. I Romani e i Greci hanno compiuto le loro gesta in questo piccolo continente; si sono riuniti attorno al Mare Mediterraneo e si sono dispersi sulla terra circostante. Hanno dato vita a opere magistrali, hanno gettato le fondamenta della cultura occidentale, della "geometria" e adesso non sono che nomi su un libro di storia.
Questa è la tragica scoperta dell'uomo europeo, dell'intellettuale Amleto: alla fine materiale della civiltà subentra la coscienza di una fine morale. L'Europa e con essa il pensiero europeo vede apparire all'orizzonte lo spettro della propria fine. A proposito di questo stesso tema, afferma Derrida: "L'Europa si vede all'orizzonte, vale a dire a partire dalla sua fine (e l'orizzonte è il limite in greco), a partire dall'imminenza della sua fine".
Dobbiamo allora pensare che l'Europa abbia perso completamente la sua
identità e non sia più culla della civiltà, ma sia quello che appare oggi, un
continente in balia degli altri, meno potente, meno ricco?
L'Europa non ha completamente perso la sua vera essenza, perché all'europeo resta un quid
che può farne sopravvivere gli antichi splendori: "L'uomo è quell'animale che si è
opposto a tutti gli altri grazie ai suoi sogni" (songe per Valéry è sì
sogno-rêve, ma anche pensiero). All'europeo resta il songe: con esso egli può costruire
nuovi mondi, può far rinascere antiche civiltà, può far rivivere l'Europa.
Ecco cos'ha sempre contraddistinto l'uomo europeo da tutti gli altri:
il pensiero. L'uomo per tanti secoli ha sfruttato questo dono di saper pensare, ma anche
sognare: ma, oggi, egli non ne è più capace, perché non sa più pensare.
Il songe sta morendo, così come l'Europa, e se non si farà qualcosa, essa perderà anche
la propria identità. Perché l'uomo non sa più sognare? La guerra ha spezzato un
profondo equilibrio dell'Europa e dell'uomo europeo: un uomo così grande è capace di
azioni così atroci: non ha più senso allora pensare a cosa sia giusto, ma solo sognare
momenti migliori.
Anche lo stesso Valéry ammette che alla morte non aveva mai pensato, prima dell'avvento
della guerra.
Così dal '14 al '17 egli si dedica all'opera La Jeune Parque, scritta, secondo quanto egli stesso afferma, sub signo Martis. Il poeta, che s'identifica nella Giovane Parca, tenta di esasperare il proprio io, di arrivare a comprenderne la fragilità e il destino mortale:
"Mon corps désespéré tendait
le torse nu Où l'âme, ivre de soi, de silence et de gloire, Prête à s'evanouir de sa propre mémoire, Écoute, avec espoir, frapper au mur pieux Ce coeur, - qui se ruine à coups misterieux,". |
E quando raggiunge il suo scopo, arriva a dire: "...le noir n'est pas si noir". Il male è un momento di vitalità. Fare! Non negare la vita: accettare il dolore, senza negare la gioia.
E' questa la grande scoperta della Giovane Parca: quando ella era sul
punto di arrendersi, abbandonarsi all'abisso, sente la sua fragilità e il desiderio di un
reale affrancamento dell'io.
E questo sarà il tema finale del Cimitero marino che Valèry scrive nel 1920. Il poeta
premette al cimitero questo verso di Pindaro: "Anima mia non desiderarti vita
immortale, ma poniti a opere che ti sia dato di compiere"; vita e morte, l'essere
nella sua perfezione immobile, il divenire dell'uomo nell'alterna vicenda della
contingenza, ansia di totalità ed eternità: questi gli "attori" del testo.
Il cimitero, emblema della morte, si contrappone alla calma del mare,
fuso con l'immagine di un tetto e con la luce del pomeriggio e con l'anima, protagonista
dell'esperienza metafisica.
Questa avviene attraverso l'approfondirsi del pensiero verso un dominio intellettuale più
profondo. All'immagine dell'essere immobile, assoluto, si contrappone l'essere effimero
dell'uomo destinato alla morte ("Meriggio in alto, senza movimento / In sé si pensa
e a se stesso conviene... / Testa completa e perfetto diadema, / Io sono in te il segreto
mutamento.") come accenna il cimitero. L'antitesi, invece, tra morte ed immortalità,
vede il trionfo della prima, ma improvviso si alza il vento e riconduce l'onda della vita.
"No, no in piedi! Nell'era successiva! / Spezza, o corpo, la forma intellettiva! / Bevi, o seno, la nascita dei venti! / Una frescheza che dal mare s'alza, / L'anima mia mi rende... O forza salsa! / Presto all'onda, a riemergerne viventi!".
L'esperienza individuale, effimera, la vitalità universa, limitata, si
compongono nella pienezza dell'essere per costruire il mondo, l'uomo.
La poesia, quindi, è immersa nella vicenda cosmica di vita e morte, essere ed esistere,
che, anche se non conciliati, sono correlati verso un'immagine unitaria della realtà.
Mara Turco